XXXVI.
L’osteria di campagna — I due
cacciatori.
Carlo Castri era un vinaio che aveva una piccola osteria di
cucina in campagna ai Monti Parioli poco sotto Ponte Molle. Quando era buon
tempo, di primavera, d’estate e d’autunno la gente che veniva dalla città la frequentava,
e guadagnava discretamente. Ma d’inverno e quando imperversava la pioggia,
nella sua bottega per settimane e settimane non capitava anima viva, perché
godeva di una pessima riputazione, e la gente dei dintorni si guardava bene dal
recarvisi.
Era molto passionato per le donne, e quelle che capitavano
nei pressi della sua osteria, per far cicoria o lumache, erano costrette a
pagargli un tributo in natura. Forse non eran troppo malcontente, perché Carlo
era un bell’uomo, alto, con un collo taurino, indizio di forza indomita,
profilo del volto corretto, candido di pelle, con piccoli favoriti bruni e
occhi sfavillanti. Se gli resistevano, dalle buone passava alle brusche, e si
sussurrava, che più d’una, entrata incautamente nel suo negozio, era stata da
lui trascinata nella grotta e non aveva più trovata l’uscita.
Allo scarso concorso di avventori il Carlo, suppliva
appostandosi sulla strada di notte e spogliando i passeggeri che incontrava,
dei quali era certo d’aver facilmente ragione. Ma s’era sempre condotto con
tanta furberia, che ad onta delle voci pessime che correvano sul suo conto, non
era mai caduto in fallo, né aveva avuto a soffrir molestie da parte
dell’autorità.
Le pattuglie in perlustrazione si soffermavano anzi alla sua
osteria, ed egli faceva loro le migliori accoglienze. Spillava per loro il vino
delle botti che riservava per se stesso e per i cacciatori di qualità, che
ignorando la sua triste fama, non isdegnavano di fare uno spuntino da lui.
Vuolsi aggiungere che pochi cuochi sapevano cuocere al par di lui un pezzo di
selvaggina allo spiedo, o preparare un piatto di fettuccine, o mettere un par
di polli in padella e cucinarli lì per lì, dopo aver torto loro il collo.
Si seppe poi che la stessa destrezza aveva nello sbarazzarsi
dei viaggiatori che aggrediva. Appoggiato all’aforismo che i morti generalmente
non parlano, per non essere denunziato, aveva contratta la poco lodevole
abitudine di scannare i suoi aggressi e di seppellirne gli avanzi nelle
macchie. Era un metodo molto spiccio per assicurarsi l’impunità e insieme il
libero esercizio della professione di bandito, che egli aggiungeva a quella
d’oste e di sicario.
Sull’imbrunire di una giornata di gennaio capitarono
all’osteria del Carlo due cacciatori stanchi e trafelati. Avevano corso tutta
la giornata, e portavano i carnieri gonfi di starne e di beccaccie. Uno era
anziano, colla barba intera bianca, l’altro giovane senza un pelo sul volto, ma
entrambi aitanti della persona, allegri e disinvolti nel portamento.
— Padron Carlo — disse il vecchio entrando — hai di che
rifocillarci?
— Non roba degna delle signorie loro, ma qualche cosa c’è —
rispose ossequiosamente il Castri, togliendosi il berretto di cotone bianco che
portava.
— Sentiamo, che hai? — disse il giovinotto.
— M’ero messo a cuocere un’ora fa una gallina, che aveva
perduta l’abitudine di farmi le uova.
— Non sarà troppo tenera — osservò sorridendo il vecchio.
— Ma ci fornirà una buona tazza di brodo — osservò il
compagno.
— Hai ragione Gustavo.
— Ci butterò quattro capellini all’uovo che avevo preparato
per la mia cena.
— Benissimo.
— Poi ammazzeremo un paio di polli e li faremo andare in
padella.
— L’idea non è cattiva.
— Poi? — domandò di nuovo l’imberbe cacciatore, tormentato
da una fame canina.
— Poi c’è del salame, del formaggio pecorino, ci sono delle
uova.
— Tutto questo ci servirà d’antipasto non è vero zio? —
disse il giovane.
— Sia come vuoi. Già ti mangeresti l’obelisco di San
Giovanni. Dopo i polli, padron Carlo, ci potreste servire un paio di starne
arrosto.
— Non ne ho, signori e mi duole. Saranno quindici giorni che
non vedo un cacciatore.
— Ne hai due innanzi a te.
— È vero e il carniere mi pare ben fornito.
Il giovane tirò fuori due superbe starne e il vecchio due
beccaccie.
— Magnifiche, esclamò il Castri dopo averle palleggiate una
per una in mano. Ma, se vogliono un mio umile consiglio, si attengano alle
starne. Le beccaccie per essere buone, bisogna siano frolle e queste mi
sembrano fresche.
— Prese da mezz’ora. Sono stati gli ultimi colpi. Carlo ha
ragione sono preferibili le starne.
E ne trasse altre due dal carniere riponendovi le beccaccie.
Benché solo, l’oste in pochi momenti ebbe imbandita la
tavola con crema al latte, salame, pane fresco, e un boccione di vino color del
topazio. I due cacciatori se ne versarono due bicchieri e dopo averli
tracannati, fecero scoppiettare la lingua, esclamando all’unisono
— Buono, eccellente.
L’oste che veniva in quello coi due polli tratti dalla stia
e sgozzati:
— Vino delle vigne di Montemario. Più se ne beve e più vien
sete.
Pochi minuti dopo, mentre l’antipasto svaniva, s’udiva in
cucina il crepitare della fiammata, e insieme il leggero strepito del
girarrosto.
Padron Carlo recava la zuppiera fumante dei capellini in
brodo.
— Tu sei un taumaturgo — esclamò il vecchio cacciatore
pregustandone il sapore.
E Gustavo, ghiotto non meno, forse più di suo zio: — Questo
riscaldandoci lo stomaco ci porrà in vena di vuotarti la cantina.
L’oste s’inchinò sorridendo e ritornò col piatto dei polli
in padella, esalante un odore buonissimo.
Il contenuto del piatto scomparve anch’esso nel ventre
capace dei due cacciatori. E altrettanto accadde delle starne arrosto, per
inaffiar le quali fecero venire un secondo boccione, essendo il primo ormai
vuoto.
Saziate le esigenze della fame, zio e nipote intavolarono
una conversazione, dalla quale, l’oste, che dalla propinqua cucina prestava
orecchio, venne a capacitarsi che i due cacciatori erano ricchi signori e che
portavano con loro una cospicua somma di danaro.
Avevano lasciata Roma già da tre giorni ed avevano cacciato
continuamente riposandosi qua e là nelle osterie di campagna, perché s’era
impegnata fra loro una scommessa di resistenza.
— Ti dai per vinto, Gustavo? — domandò l’anziano.
— Vinto veramente non potrei dire perché sono capace di
continuare per un’altra settimana. Ma vincitore certamente voi siete zio mio,
poiché avete oltrepassato il termine stabilito. Siete forte.
— Ti dispiace.
— Punto. Ed eccovi i cinquanta zecchini della scommessa.
Così dicendo il giovane trasse una borsa di seta, ne numerò
i zecchini da darsi allo zio, e gli altri rimasti in buon numero si ripose in
tasca. Il vecchio trasse a sua volta la propria borsa, del pari ben fornita di
monete d’oro, vi lasciò cadere uno per uno i zecchini del nipote, e
rimettendola in saccoccia, disse:
— Alla fine de’ conti è roba che un giorno o l’altro ti deve
appartenere.
— Più tardi che sia possibile.
— Grazie, nipote mio, dell’augurio, che lo tengo sincero. La
mia cassa, del resto, ti è sempre aperta.
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