XXXIX.
I briganti della
Faiola.
Come mai era avvenuto l’arresto di quella famosa banda di
briganti, che avendo per base delle sue operazioni e il ricovero abituale,
quasi inaccessibile, nella macchia della Faiola, aveva per tanto tempo desolati
i dintorni di Roma e dei Castelli fino oltre Velletri, aggredendo viaggiatori,
corriere pubbliche, diligenze, vetture private, operando sequestri di persone e
ricatti d’ogni maniera?
Un terribile dramma, ch’ebbe il suo epilogo ai piedi del
patibolo, la mattina del 18 maggio, può solo spiegarlo. Forse, senza esso, né
Vincenzo Bellini, né i suoi avrebbero mai salito le forche pontificie.
Eccolo.
Il governo, scosso dalle continue lagnanze che gli
giungevano dalle potenze estere per le pessime condizioni della sicurezza
pubblica nei dintorni di Roma, che mettevano a repentaglio la vita e gli averi
dei forestieri, come e più di quella dei cittadini, si era deciso ad
intraprendere una campagna brigantesca, ed a condurla con la massima energia.
Furono ordinate pattuglie di soldati, guidate da esperti agenti, cogniti dei
luoghi e rotti a tutte le malizie dell’arte malandrinesca e fu dato come per
obbiettivo principale il bosco della Faiola.
La macchia fu perlustrata palmo a palmo, senza alcun risultato,
e già stavano le pattuglie per rientrare a Roma a dar conto della loro inutile
spedizione, quando un giorno uno dei segugi che accompagnavano birri e soldati,
guardando per terra casualmente, vide delle ossa di pollo rotte e spolpate.
— Brigadiere, diss’egli al comandante della pattuglia, o io
non ho più naso, o qui sento odore della selvaggina che cerchiamo. Guardate.
E così dicendo mostrò gli ossicini che aveva raccolto,
chiedendogli:
— Sapete che son queste?
— Hai voglia di burlarmi? Sono ossa di pollo.
— No.
— Che cosa sono dunque?
— Sono un indizio.
— Indizio che qualcuno ha mangiato. Non ci vuol molto a
comprenderlo.
— Pazienza, brigadiere. Chi ha mangiato questo pollo? io mi
domando.
— Ecco il quesito.
— Siamo almeno a quattro miglia dall’abitato e non è
possibile che si mandino qui dai paesi circonvicini i resti di tavola.
— Si capisce.
— A questi chiari di luna non è supponibile che una comitiva
allegra della città o dei castelli, sia venuta a fare una colazione sull’erba,
nel folto del bosco della Faiola, con quel po’ po’ di paura che ispirano i
supposti suoi abitatori.
— Dunque?
— Dunque codesti abitatori devono essere tutt’altro che
supposti, devono essersi trovati a poca distanza di qui, non prima di questa
mattina, poiché queste ossa sono fresche, odorano ancora, e devono essere state
spolpate oggi stesso.
Il brigadiere che aveva ascoltato con grande attenzione il
ragionamento del segugio ed aveva avuto da questo rischiarata la mente,
proruppe in un grido:
— Bravo! E aggiunse: — Se troviamo i malandrini, giuro di
regalarti a mie spese una dozzina di polli, per stuzzicarti i denti, e due
pinte di quello buono per lavarti bene lo stomaco.
— Grazie, brigadiere. Ora che ci resta a fare?
— Darne avviso ai comandanti delle altre pattuglie, e stabilire
con essi una nuova perlustrazione concentrica della selva.
— Brigadiere, perdonatemi, ma tale non è il mio avviso,
permettetemi che vi manifesti una mia idea.
— Parla.
— Ecco qui: non è supponibile che i briganti siano venuti a
mangiare nel bosco, all’aria aperta, né che abbiano seminate le ossa passando:
esse devono essere state gettate fuori da qualche nascondiglio, una grotta, una
caverna, uno speco, un luogo qualunque insomma, nel quale sogliono ricoverarsi.
Bisogna cercarlo: esso deve essere non molto discosto di qui... Zitti!
— Che c’è?
— Mi pareva di aver udito come un vagito.
— Sarà uno strido di qualche uccello di rapina.
— Forse è così. Dicevamo dunque che bisogna cercare il covo.
— Cerchiamolo.
Gli uomini della pattuglia assecondati dall’accorta guida,
si diedero a frugare la macchia nei pressi, esaminando ogni crepaccio,
rimuovendo fronde morte, pruni e liane, tastando ad ogni tratto il suolo col
calcio del fucile, per sentire se c’era del vuoto sotto.
|