XLV.
Il processo — La
condanna.
Finalmente, con uno sforzo estremo gettò il coltello, che
teneva ancora imbrandito e pervenne a togliersi di là. Uscì senza chiudere la
porta dietro di sé; scese a precipizio le scale e giunto sulla strada si mise a
correre come un disperato. Di tratto, in tratto si fermava un secondo, volgeva
il capo a tergo e riprendeva la sua corsa più rapida, più forsennata di prima.
Credeva di vedere l’assassinata che lo inseguisse. Arrivato
fuori di città si buttò ai campi, correndo, correndo sempre. E così continuò
finché cadde spossato, affranto, svenuto. A giorno fatto alcuni contadini lo
scossero e si chinarono per raccoglierlo, ma vedendolo intriso di sangue, lo
supposero vittima d’un delitto e si recarono in città per darne avviso.
Mezz’ora dopo i birri lo sollevavano, e spruzzandogli il volto d’acqua lo
richiamarono ai sensi.
Non appena si riebbe e ripresa la conoscenza s’accorse
d’essere in mano dei birri, proruppe in disperate grida:
— Sì, sì, sono stato io, l’ho uccisa, povera Giacinta,
vedete vedete queste mani, sono lorde del suo sangue!
La sua esaltazione confondeva i birri, non sapevano se
avevano a fare con un pazzo, o con un delinquente. Ma ad ogni buon conto lo
ammanettarono e lo portarono verso le carceri.
In città s’era intanto diffusa la notizia del delitto,
scoperto da un’amica della Giacinta, la quale essendosi recata a visitarla, e
trovata la porta aperta era entrata!
Non appena lo videro a comparire in città incominciarono le
grida:
— Eccolo! Eccolo, l’assassino!
I birri non comprendevano ancora di che si trattasse; ma
tennero Saverio più strettamente.
— Ha ammazzato la moglie in letto con una coltellata al
cuore! — Urlava la gente. E l’uxoricida assentiva del capo e rispondeva con
voce rauca:
— È vero! È vero.
In breve la folla, che seguitava ad ingrossare diventò minacciosa.
Dagli insulti orali era passata alla persona, gli si tiravano delle bastonate,
dei colpi di pietra, dei torsi e lo si vilipendeva in tutti i modi.
I birri duravano fatica a difenderlo, e temevano di
vederselo da un momento all’altro tolto di mano e fatto a pezzi.
Le donne erano le più inviperite delle altre. E a una
vecchia megera riuscì di colpirlo alla testa con una pala da fuoco che gli
produsse una ferita alla fronte, dalla quale colava copioso sangue.
Era orribile a vedersi, cogli abiti a brandelli, coperti di
polvere e di fango, col volto stralunato, gli occhi fuori dell’orbita, coi
denti che battevano, rabbrividente e grondante di sangue.
Quando Dio volle le porte del carcere gli si spalancarono
innanzi, e si chiusero poi dietro di lui.
Interrogato subito dal bargello non potè rispondere.
Convenne lasciarlo per tre giorni in riposo, evitandogli qualsiasi emozione,
che, a detta del medico, poteva riuscirgli fatale.
Condotto finalmente innanzi al giudice diede sfogo al suo
dolore, confessando tutti i particolari ed i moventi del delitto.
— Sapete di che siete incolpato? gli domandò il giudice
inquirente.
— Lo suppongo.
— Avete uccisa vostra moglie?
— Sì.
— Con una coltellata al cuore?
— Sì.
— Vi trovavate a letto con lei?
— No.
— Avete forse litigato?
— No.
— Vi avverto che questo sistema di rispondere a monosillabi
non mi va. Rispondete categoricamente spiegando i fatti. La sola sincerità può
attenuare la pena che vi siete meritata. Non dormivate a casa vostra quella
notte?
— Non vi dormivo da parecchi mesi.
— Perché?
— La contessa aveva voluto così.
— La contessa era la vostra padrona?
— La mia amante.
— Badate. Se cercate di coinvolgere nel delitto delle
persone di alto bordo, per sgravarvi in parte della responsabilità, errate.
— Non dico che la verità.
— Voi dunque affermate d’aver avuto dei rapporti d’intimità
colla vostra signora?
— Dormivo con lei ogni notte.
— Sono cose irragionevoli. Come mai avendo una moglie
leggiadra e buona, vi siete lasciato condurre a disprezzarne l’affetto?
— Fu la contessa che mi trasse al precipizio. Mi si offerse
e l’ebbi. Poi non volle più che io frequentassi mia moglie. Poi mi consigliò di
sbarazzarmi di lei.
— In ogni caso vi avrà consigliato di allontanarla dal
paese.
— Non mi ha detto di ammazzarla, ma mi fece comprendere che
se la togliessi di mezzo mi avrebbe sposato.
— L’avrete frainteso. Come mai una signora poteva discendere
fino a sposare un domestico?
— Non era di nascita nobile. Aveva sposato un conte, ma era
rimasta qual’era.
— Dunque voi asserite che è stata la vostra signora che vi
ha armato la mano.
— Armato la mano, no.
— Chi vi ha spinto al delitto.
— Neppur questo è preciso. Dopo avermi detto che mi avrebbe
sposato, non mi accennò più la cosa.
— Forse sarà stata una celia, o un proposito vano, buttato
là in un momento d’ebbrezza.
— Sarà, come ella pensa, signor giudice. Ma il fatto sta che
dopo essermisi prodigata, vedendo che io non mi decidevo, mi negò i suoi
favori, mi disse che non gli piacevo più, ch’era annoiata.
— E voi ve ne siete vendicato, uccidendo la vostra povera ed
onesta moglie. Ascoltate un mio consiglio: non parlate più della contessa:
gettereste inutilmente una luce sinistra sovra una casa rispettabile ed
illustre. Tacendo ci guadagnerete la clemenza dei giudici.
Saverio Gattofoni tacque, e in guiderdone della sua
discrezione, fu condannato al semplice taglio della testa e non allo squarto.
Il giudice aveva mantenuto la sua promessa. Ma non credo che
il delinquente abbia di molto apprezzata l’indulgenza usatagli.
La mattina stessa dell’esecuzione la contessa, che non aveva
voluto partir prima, per tema di suscitar dicerie e di tirarsi addosso dei
sospetti, partiva da Macerata in una sedia da posta per Ancona, dove contava
imbarcarsi, per un lungo viaggio marittimo.
Era fiera, rosea, sorridente. Ricevette colla maggior
disinvoltura i complimenti di tutti i suoi amici e conoscenti della famiglia di
suo marito. E se ne andò accompagnata solamente da un cameriere dalle forme
atletiche, che pur usandole tutte le deferenze richieste dalla sua posizione,
si chiariva padrone della situazione.
Evidentemente Saverio aveva già un sostituto.
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