LII.
Grassazioni — Omicidi —
Parricidi.
Tre settimane dopo eseguii un’altra decapitazione, al
Popolo, in persona di Alessandro Papini, volgarissimo masnadiero, colto colle
armi in pugno all’Acqua Traversa, dopo aver compiuto una grassazione, e il
primo dicembre decapitavo pure sull’istessa piazza Domenico Gigli di Giacomo,
appartenente a benestante famiglia romana, il quale in un impeto di bestiale
furore trovandosi a caccia del cinghiale, ne’ dintorni di Maccarese, aveva
sparato il fucile contro un contadino, che gli aveva fatto mancare un buon
colpo.
Preso in pieno petto il disgraziato era caduto estinto.
Il Gigli era andato tosto a consegnarsi, e confessò il suo
delitto, cercando di scusarlo coll’acciecamento prodottogli dal vino. Ma questo
non valse a salvarlo dalla severità dei giudici, i quali, inesorabili,
pronunziarono contro di lui sentenza di morte da eseguirsi colla solita
macchina francese.
L’anno successivo lo inaugurai il 13 gennaio ad Ancona
impiccando un ebreo rinnegato, che il suo antico nome di Angelo Camerino aveva
voltato in quello di Giuseppe Angiolo, il quale aveva ucciso in rissa un
cristiano. Il giorno susseguente, 14 gennaio, mi recai alla vicina Loreto, per
tagliar la testa a un grassatore, Ambrogio Piscini; un altro ne decapitai il 23
febbraio a Perugia, in persona del malandrino Antonio Galeotti. E finalmente il
13 aprile ripresi le mie esecuzioni in Roma, tagliando la testa ad Andrea
Emili, parricida, sulla piazza del Popolo.
Era costui figlio di un agiato massaio di Rocca Priora, uomo
robustissimo benché innanzi negli anni, di forme erculee e d’animo deliberato.
Benché possessore di molte pertiche di terreno, lavorava pur egli col figliuolo
alla campagna e faceva pure il boscaiolo. La moglie gli era morta da parecchio
tempo, e padre e figlio vivevano soli, e senza donne la casa non poteva andar
bene, perché le serve, prese lì per lì, nuocciono più che non giovino.
Antonio Emili, disse un giorno al figliuolo:
— Andrea, così non si va più avanti.
— Perché?
— Non vedi che manchiamo di tutto? Si viene a casa alla sera
e non c’è mai nulla di pronto per la cena, e bisogna andarsene all’osteria. A
mezzogiorno lo stesso. La festa non si trova la biancheria allestita. Se per
caso ci avessimo ad ammalare non avremmo un cane per curarci.
— Che ci posso fare io?
— Ci puoi far molto.
— Niente niente mi ho da mettere a fare il bucato ed a
cuocere fagiuoli?
— Non dico questo...
— E che dunque?
— Prendi moglie. Ormai sei presso a venticinque anni; è
tempo di decidersi.
— Dove la piglio?
— Sciocco! Bisognerà dunque che ti provveda io anche la
ragazza.
— Non vi date questa pena.
— Ne parlerò al curato.
— Guardatevi bene dal farlo. Non voglio saperne di legarmi
ad una donna.
— È tale la tua decisione?
— Tale.
Antonio Emili non era uomo di molte parole. Visto che il
figliuolo non voleva prender moglie, sentendo il bisogno assoluto d’aver in
casa una massaia e giudicandosi abbastanza forte in gambe per provvedervi da
sé, si cercò una sposa e la rinvenne.
Una sera rientrando in casa disse al figliuolo:
— Ti avverto Andrea che mi sono trovato una moglie.
— Per me?
— Non per te, per me.
— Siete impazzito?
Antonio non era uomo di sopportare una ingiuria da
chichessia, e tanto meno dal figliuolo. Batté i pugni sul tavolo e domandò
all’Andrea:
— Con chi parli?
— Con voi, rispose l’altro audacemente.
— Se mai ci avessi a ridire, puoi andartene anche subito —
tuonò il vecchio, frenandosi a stento.
— Sono in casa mia.
— Pidocchioso maledetto, sei in casa di tuo padre: ché tua
madre buon’anima non ha avuto il becco d’un quattrino, e quanto posseggo è mio,
assolutamente mio.
— Non camperete mica sempre, né ve la porterete mica
all’altro mondo la roba vostra.
— Posso regalarla a chi mi pare.
— Apposta non voglio che prendiate un’altra moglie.
— Ah! tu non vuoi? esclamò sbuffando Antonio Emili. Aspetta.
Ed afferrato pel bavero della giacca il gracile Andrea, lo
sollevò al di sopra della tavola, lo portò fino alla porta, apertala lo buttò
fuori e richiusala tornò a sedere.
Di temperamento bilioso, sanguigno, l’Antonio Emili era di
carattere estremamente impetuoso, ma buono di fondo.
Terminato di mangiare quel po’ di cena che si erano
preparata, prese il lume ed uscì fuori per andare in cerca del figliuolo, ma
per quanto frugasse e rifrugasse nei dintorni, non gli venne fatto di rintracciarlo.
— Si sarà cacciato in qualche stalla, o in qualche bettola,
concluse, e andò a dormire.
All’indomani mattina levatosi all’alba, andò nel bosco a
lavorare. Ma dopo qualche ora sentendosi un po’ stanco ed insonnolito si stese
sul ciglio di una stradicciuola e si addormentò profondamente.
Andrea aveva gironzolato tutta la notte inviperito contro il
padre, concependo mille progetti di vendetta ed abbandonandoli tosto, stante la
salutar paura che gli infondeva la forza fisica e il coraggio.
Pure trascinato dal destino, sul far del giorno entrò anche
egli nel bosco e incominciò ad aggirarsi, come una belva famelica per la
macchia più folta. Visto finalmente il padre lo seguì, senza osare di
accostarglisi, ma sempre pieno d’odio e di livore. Fu solo quando lo vide
addormentato sulla strada che gli balenò l’orribile idea di ucciderlo per
vendicarsi.
E temendo che il pentimento gli invadesse l’animo, prima di
compiere il misfatto, o di lasciarsi vincere da un assalto di terrore, senza
por tempo di mezzo, in un balzo gli fu accanto, afferrò l’accetta, che il
vecchio s’era deposto accanto, e gli menò tale un terribile colpo al collo, che
Antonio Emili ebbe la testa spiccata nettamente dal busto, quindi si diede a
fuggire disperatamente, come un pazzo senza meta. Ogni tanto si volgeva
indietro, perché gli pareva di udire il suono dei passi del padre che lo
inseguisse. Aveva i capelli irti sul capo, gli occhi sbarrati, quasi uscenti
dall’orbita, il volto bianco come quello di un morto, le labbra livide e
tremanti. La gente che lo incontrava, atterrita si buttava di fianco per
evitarlo. La sua corsa continuò parecchie ore finché cadde esausto di forze e
di spirito nelle mani di una pattuglia in perlustrazione. Riuscito impossibile
trargli di bocca una parola sensata e vedendolo macchiato alle mani ed ai
vestiti di sangue, i birri lo legarono e lo condussero a Roma sopra una
carretta.
Il carcere gli ridiede animo, tra quelle tetre mura gli
sembrava di trovarsi al sicuro dalla vendetta di suo padre, unica cosa di cui
temesse. L’orrore ispiratogli dallo stesso suo misfatto lo aveva quasi
incretinito.
Interrogato, raccontò al giudice per filo e per segno la
storia del litigio avuto con suo padre, la sua cacciata di casa, l’errare che
aveva fatto la notte pei campi, l’incontro nel bosco e l’assassinio.
Fu condannato alla decapitazione e subì la pena più morto
che vivo, apparentemente, più che di fatto, confortato dai preti.
Eseguita la sentenza, dovetti prendere la sua testa dal
paniere e portarla a Rocca Priora per infiggerla sulla porta. Questo feci di
notte per evitare inutili pericoli.
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