LIV.
L’avvelenamento.
Era appoggiato al tavolo dietro le spalle di Romilda; ma
questa rivedeva le sue sembianze, riflesse dallo specchio appeso alla parete
opposta della camera, nel quale si compiaceva di guardarlo, con intensità
d’affetto indescrivibile.
D’un tratto le sue guancie si colorirono di viva fiamma e i
suoi occhi lampeggiarono.
Aveva veduto il marito versare nel bicchiere il contenuto di
una piccola cartolina, che aveva tratta dalla tasca della sottoveste, non senza
turbamento e guardandosi attorno sospettoso.
Raffaele le si fece innanzi e le porse la limonea. Romilda
lo guardò fissamente negli occhi. Egli non seppe dissimulare un fremito di
terrore; ma vedendola tracannare tutta quanta la bibita si rinfrancò.
— Mi ami, Raffaele? gli chiese poi con voce affievolita, in
fondo alla quale c’era una sottilissima punta d’ironia.
— Più della vita, angiolo mio — rispose con trasporto il
giovane, afferrandole le mani e coprendole di baci.
— E mi hai sempre amata così?
— Così e così t’amerò.
— E quando non sarò più?
— Perché ti lasci cogliere da queste idee nere?
— Non sono idee nere, è l’intuito della verità! Un mese
ancora e non più! — ripeté tristamente Romilda quasi favellasse a se stessa.
Raffaele si fece pallido come un cencio lavato. Aveva ella
udito? O era realmente un presagio dell’animo suo?
— Che dici mai! — esclamò — e cintole la testolina colle
braccia l’attirò a sé, le baciò le ciocche d’oro dei finissimi capelli, che
uscivano dalla leggiadra cuffietta e davano alla sua testa un non so che di
soave e d’infantile.
— Tu potresti abbreviare le mie sofferenze — gli mormorò
Romilda all’orecchio. Raffaele sentì un brivido corrergli per le vene e per
l’ossa. Ma pur pensò che era un effetto della paura, quello del senso arcano
che egli attribuiva alle parole della malata.
— Lo farei mille volte se mi fosse dato. Sacrificherei dieci
anni della mia vita, per alleviare, fosse per un giorno solo, i tuoi dolori.
— Lo credo! Lo credo — rispose la morente con voce secca,
facendosi forza per allontanarlo da sé...
Il giorno susseguente la scena si ripeté in termini quasi
identici. Se non che nella furia di versare la venefica cartolina nella
limonata, Raffaele inavvertitamente ne lasciò cader un’altra per terra. Romilda
se ne avvide e non appena l’ebbe mandato fuori di camera, col pretesto che
voleva riposarsi, con uno sforzo supremo di volontà riuscì ad alzarsi e
barcollando attaccandosi ai mobili, raccolse la cartolina misteriosa e la
nascose in seno.
Il medico che aveva accordato all’inferma un altro mese di
vita, non aveva calcolato sull’efficace sussidio che il suo male riceveva dalla
polvere amministratale dall’amoroso marito.
Dopo due settimane, una mattina triste e piovosa, cupa,
Romilda, dopo aver ricevuto gli estremi conforti religiosi, circondata dal
marito, dai parenti, dal medico, si spense, ma mentre esalava l’ultimo spiro,
fece atto di frugarsi in seno e ne uscì un piccolo piego sul quale era scritto
a matita: «Al mio notaio: da leggersi subito dopo la mia morte.» Si credette
fosse un codicillo alle sue disposizioni testamentarie e il notaro venne subito
chiamato, inviandogli il piego.
Raffaele era ancora al letto della morta, immerso nella più
tragica disperazione e dichiarava agli astanti di volerla seguire nella tomba,
quando comparve il notaio, accompagnato da un incognito personaggio.
Egli entrò serio ed accigliato e additando il vedovo
all’incognito, disse con voce solenne:
— Ecco l’avvelenatore. Impossessatevene. La giustizia avrà
il pieno suo corso.
L’incognito s’avanzò, fra la sorpresa e l’esterefazione
universale e afferrò per un braccio Raffaele, più pallido della sua vittima che
giaceva sul letto, dicendogli:
— Siete in arresto.
Era il bargello.
All’indomani d’ordine dell’autorità giudiziaria si operò la
sezione cadaverica di Romilda e nelle sue viscere si trovarono le traccie del
sottile veleno, somministratole dal marito, pienamente corrispondente a quello
di cui c’era un saggio nella cartolina da lui perduta e raccolta dalla malata e
chiusa nel piego del notaio, alla quale andava unito un biglietto scritto da
lei, a lapis, del seguente tenore:
«Muoio avvelenata da mio marito Raffaele Vattani, con una
polvere eguale a quella dell’unita cartolina, cadutagli inavvertitamente di
mano, mentre me ne versava un’altra in un bicchiere di limonata. Lo vidi co’
miei occhi mentre lo faceva, riflesso nello specchio. E così continuò ogni
giorno. Ormai perduta, ho lasciato che il misfatto si compiesse. Lo denunzio
alla giustizia degli uomini, perché, adeguatamente punendolo, lo sottraggano
alla vendetta divina.»
Schiacciato da siffatta rivelazione, Raffaele Vattani non
tentò neppur di negare il delitto, con tanta freddezza perpetrato, per potersi
liberare della moglie e sposare una ganza che s’era fatta, della quale era
pazzamente innamorato, perché, come lui, fervida ed ardente.
Una folla enorme assisteva alla sua decapitazione in piazza
del Popolo la mattina del 15 settembre, perché il misfatto aveva sollevato un
grido d’orrore per tutta Roma, e accesi gli animi, segnatamente delle donne, di
fierissimo sdegno.
Ce n’era più di un migliaio ne’ dintorni del carcere, quando
uscimmo colla carretta: birri e soldati ebbero a faticar di molto per
difenderlo. Le imprecazioni salivano al cielo. La decapitazione pareva pena
troppo esigua: avrebbero voluto vederlo mazzolato e squartato.
Nondimeno egli si conservò freddo ed imperterrito. Giunto al
palco, scese dalla carretta, e circuito dai soldati, vi salì con franco passo.
Al rumore del colpo della mannaia, fece eco un urlo del
popolo.
La vendetta umana era così soddisfatta.
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