LV.
Un domestico e un maestro di
musica.
Eccomi al fatto che condusse il 23 agosto 1823 Giovanni
Binzaglia alla ghigliottina, in Perugia.
Era costui un giovane aitante della persona, ma di volto
punto simpatico. In mezzo alla faccia l’enorme naso sorgeva a foggia di
promontorio e sotto esso si apriva una bocca ampia, carnosa, dalle labbra bestialmente
sensuali e senz’ombra di pelo.
I suoi naturali istinti lo portavano alle lotte amorose,
nelle quali era validissimo campione e a queste tutto sacrificava. Nella casa
dei Facenni, ricchi borghesi, ritirati dal commercio, presso i quali si trovava,
non aveva campo di abbandonarsi a’ suoi consueti trasporti. Ma trovava
egualmente di fuori gustosi compensi ed anco produttivi, perché molte donne
erano attratte verso di lui da quell’insegna permanentemente esposta ch’era il
suo naso.
La signora Facenni, vecchia bigotta, non si sarebbe certo
sognata di avere alle sue dipendenze un don Giovanni d’anticamera.
Ma ad ogni modo non aveva a lagnarsi di lui, che mostravasi
attivo e zelante nel servizio, e tollerava le sue frequenti assenze, specie
notturne. Se glie ne moveva qualche volta rimprovero, Giovanni le rispondeva
invariabilmente:
— Signora mia, voglia compatirmi, ho ventisette anni.
— Compatisco: ma mi pare che abbiate una età da potervi
ammogliare. Perché non lo fate?
— Chi vuole che mi prenda, signora? Sono povero come Giobbe.
— Pure cogli assegni che avete da mio marito avreste potuto
mettervi da parte qualche cosa.
— Lo vorrei ben fare, ma...
— Ma?...
— Mi si squagliano appunto nelle serate che passo fuori di
casa.
— Così vi aggirate sempre in un circolo vizioso: non potete
prender moglie, perché non risparmiate; non potete risparmiare perché non avete
moglie.
— Proprio così, signora.
— Basta, pensate a metter giudizio, perché il tempo vola e
quando vorreste farlo non sarete forse più a tempo.
Quest’era la solita conclusione dei loro dialoghi.
Giovanni se ne andava ridendo nel suo cuore. Effettivamente
non prendeva moglie perché stava troppo bene senza.
I Facenni avevano una unica figliuoletta, bella come un
amore e già magnificamente sviluppata, benché sedicenne appena, molto svegliata
e un bel po’ capricciosa, perché guastata dalla indulgenza soverchia dei suoi
genitori.
Si chiamava Elsa ed aveva dell’eroina della leggenda
tedesca, le chiome bionde prolisse, che le coprivano tutta quanta la persona,
come un manto, quando le scioglieva e se le lasciava cader sulle spalle. Aveva
pure l’alta e slanciata figura, i grandi occhi azzurri, il profilo del viso
soavemente delicato e puro; la pelle candida e fine; le rose delle guancie
incarnate; la bocca perfettamente disegnata, nella quale, fra il rosso quasi
incandescente delle labbra, si celavano due filari di perle, piccole e quasi
diafane.
Essa aveva ricevuto un’educazione un po’ eccentrica, ma
completa. Pingeva con gusto e maestria, cavalcava come un’amazzone e coltivava
la musica con grande successo.
Il suo maestro di piano era un giovane di cinque lustri al
più, dal volto bruno, pallido, dagli occhi a volta languidi a volta
corruscanti, sempre sottocerchiati e natanti in un’onda di voluttà perenne.
Era stato presentato in casa Facenni da un vecchio
professore, il quale aveva impartito ad Elsa la prima istruzione musicale, e da
lui raccomandato, come colto, intelligentissimo e pieno d’avvenire. I suoi
vestiti lasciavano molto a desiderare dal punto di vista della solidità e della
qualità, ma rivelavano nel loro proprietario una certa inclinazione
all’eleganza e molta cura nel tenerli puliti e nel prolungarne la durata.
Il suo redingote nero e chiuso fino al mento, i suoi
pantaloni oscuri, collanti al piede, e il suo cravattone non meno bruno avevano
sulle prime provocato le ilarità della capricciosa fanciulla. Ma quando lo ebbe
udito toccare il piano con un magistero d’arte ed un sentimento più presto
unico che raro, le apparve agli occhi come trasfigurato.
E dal primo giorno le lezioni andavano prolungandosi e
moltiplicandosi sempre più, talché il signor Facenni, aveva giudicato dovere
d’equità raddoppiargli gli emolumenti.
Corrado, «il maestro» aveva allora incominciato a migliorare
la sua toletta, che si fece in breve accuratissima, di buon gusto, elegante e
quasi ricercata, concorrendo così ad accrescergli le simpatie dell’allieva, la
quale dallo studio del piano, volle passare a quello del canto.
Si alternavano così i pezzi a quattro mani e i pezzi di concerto
a due voci, le ballate senza parole e le romanze, le arie e i duettini, nei
quali maestro e scolara potevano scambiarsi una quantità di frasi amorose e di
parole inebbrianti, senza venir meno ai più scrupolosi riguardi, alle
convenienze sociali più strette.
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