LX.
L’ingrata sorpresa — Il
delitto.
Un capriccio troppo naturale in una donna, e pure in una
fanciulla che stava per distaccarsi da’ suoi e per andare a buttarsi fra le
braccia dell’amante, la fece ritornare sui suoi passi.
Presa in una mano la lucerna la collocò innanzi allo
specchio, per ammirarvi riflessa la propria immagine.
Era veramente leggiadra e affascinante colla elegante
persona coperta dalla sottilissima batista della camicia, che l’avvolgeva, come
candida spuma, delineandone le forme superbe; ignude le bellissime braccia,
ignudo il seno torreggiante, dalle punte coralline rivolte all’insù, l’ampie
curve delle anche poderose, le gambe snelle, nervose, come quelle di un cavallo
di corsa, e la testa cinta dal nimbo d’oro de’ capelli, che le scendevano in
ricche anella sugli omeri.
Un sorriso di compiacenza le infiorò la bocca soave... dalla
quale le sfuggì a quel momento un piccolo grido, vedendo disegnarsi sul fondo
del quadro la figura di un uomo, pure riflessa dallo specchio. Grido di
sorpresa e di angoscia insieme, a stento represso dalla paura di svegliare i
parenti.
Elsa si volse rapidamente incrociando le braccia sul petto,
per nascondere i tesori, e vide innanzi a sé il domestico Giovanni Binzaglia.
— Voi, Giovanni? — domandò sorpresa.
— Io, signorina.
— Che volete a quest’ora, in questo luogo? Chi vi ha
permesso d’entrare?
— Pazienti un momento, signorina, e risponderò a tutte le
sue questioni.
— Pazientare? Siete ubriaco forse? Chiamerò gente e sarete
licenziato su due piedi.
Così dicendo Elsa stendeva la mano al cordone del
campanello, facendo atto di prenderlo.
Giovanni non si mosse.
— Le osservo signorina, che chiamando gente, ella provocherà
un inutile scandalo, certamente più nocevole a lei che a me.
— Impudente
— E ciò che è peggio, continuò imperterrito il domestico,
manderà a monte una fuga tanto bene architettata e preparata.
— Una fuga? — disse Elsa esterrefatta.
— Quel povero maestro, che l’attenderà sul far del giorno
colla carrozza di posta per trasportarla a Firenze, ne sarebbe desolatissimo.
— Si potrebbe sapere, chi vi ha così bene informato — chiese
la fanciulla fremendo d’ira e di sdegno.
— Mi sono informato da me. È da parecchio tempo, anzi da
molto tempo che vigilavo la signorina.
— Fate un bel mestiere! E per conto di chi?
— Per conto mio.
Elsa si lasciò sfuggire un sospiro di soddisfazione; non
trattandosi che di un servo, le cose sarebbero presto accomodate.
— Non credo che possiate avere l’intenzione di opporvi ai
miei divisamenti.
— Tutt’altro! Anzi li favoreggerò, per quanto è da me, come
li ho favoreggiati sin qui, risparmiando alla vecchia l’incomodo grave di
portare le lettere della signorina e di riportarle quelle del signor Corrado.
— Voi dunque...
— Io mi sono assunto per amor vostro l’arduo compito.
— Avete diritto ad un compenso e l’avrete. Ma potevate ben
scegliere un momento ed un modo diverso per reclamarlo.
— Riservandomi all’ultimo istante, ho stimato di mostrarmi
più delicato e di non abusare della sua condiscendenza.
— Forse è vero! — disse Elsa, quasi rispondesse ad un suo
intimo pensiero, e tosto aggiunse: Gli è che non essendo prevenuta mi sono
privata del denaro di cui avrei potuto disporre.
Un sorriso satanico spuntò sulle labbra di Giovanni
Binzaglia, il quale mosse un passo verso la fanciulla.
— Ma ora che ci penso, possiamo aggiustar benissimo le cose
— riprese Elsa.
— Non desidero di meglio.
— Prendete questo anello: è un dono che mi ha fatto la mamma
per la mia festa. Vale almeno cento scudi. Al mio ritorno me lo ridarete e io
vi sborserò questa somma. Se non tornassi potrete sempre averla da mia madre.
Elsa s’era tolto l’anello dal dito e lo porgeva a Giovanni,
senza più pensare a farsi schermo delle braccia alle nudità del seno. La sua
mano sfiorò quella del domestico, che bruciava come un tizzo ardente. La
fanciulla la ritrasse più che mai sorpresa e alzando gli occhi sopra di lui, fu
presa da un brivido di terrore.
Il Binzaglia non era più un uomo, ma una belva umana nel
parossismo della passione erotica.
— Non è l’anello, non è il denaro che io voglio, signorina.
— Che mai? — mormorò Elsa sbigottita, sentendosi divorata
dagli sguardi del giovane.
— È un’ora del tuo amore, è un’ora di quelle ebbrezze che
hai prodigate al maestro, che egli ancora attende e che fra breve riavrà. E
così dicendo il mostro l’afferrava colle braccia poderose e se la stringeva al
seno, coprendola di baci.
— Lasciami, scellerato! — singhiozzava la fanciulla —
lasciami infame!
Ma la voce le restava nella strozza e sentiva venirle meno
ogni forza di resistenza.
Con un conato supremo tentò svincolarsi e non essendo
riuscita cadde in deliquio, offrendosi così facile preda alla foia di quel
mandrillo, che trasportatala sul letto ne fece orrido strazio.
I rosei vapori dell’aurora incominciavano a diffondersi
sull’orizzonte e penetrando la mitissima luce per la finestra della camera
d’Elsa, disegnava le forme degli oggetti, quando questa ricuperò i sensi.
L’accaduto di quella terribile notte le si affacciò alla mente, come un sogno.
Ma la triste realtà le stava accanto nella persona del suo seduttore, il quale,
supponendo svanite le sue collere, tentò di baciarla nuovamente e le disse:
— È ora d’andarsene, non è vero piccina?
Quella voce, che il Binzaglia si sforzava indarno di rendere
tenera ed insinuante finì di scuotere i nervi della fanciulla disgraziata, la
quale ricuperata tutta la sua energia, lo respinse, con voce soffocata dallo
sdegno:
— Mostro! pagherai il fio del tuo delitto.
E stese la mano per afferrare il cordone del campanello.
Giovanni ve la trattenne appena in tempo. Elsa volle allora chiamare aiuto e il
domestico dovette chiuderle la bocca colla mano, per impedirle di gridare. Ma
s’ebbe in breve a persuadere che non sarebbe riuscito a dominarla, perché si
dibatteva disperatamente sotto le sue strette.
Un solo modo di salvarsi, restava ormai al Binzaglia:
ucciderla. E a questo egli volse tosto la mente.
— O taci, o muori.
— Uccidimi, assassino, vigliacco! — volle più che non poté
dire, Elsa, colla voce soffocata dalla mano del Binzaglia.
Questi afferrò i guanciali, le coprì il volto e montatole
con un ginocchio sul petto, barbaramente la strozzò.
Accertatosi della sua morte, ascoltandole il cuore muto di
battiti, la sollevò, le passò al collo il roseo cordone di seta del
panneggiamento della finestra e così ne appiccò la salma; quindi le pose sotto
i piedi una sedia rovesciata per far credere che si fosse suicidata e se ne
andò pian piano dalla camera, accuratamente chiudendone la porta dietro di sé.
A giorno fatto la vecchia cameriera, entrò, come di consueto
per smuovere ogni sospetto di complicità per parte sua nella fuga della
padroncina.
Ma all’orribile spettacolo che si offerse alla sua vista,
arretrò spaventata e proruppe in acutissime strida.
Accorsero i famigliari, il padre, la madre. Si mandò pel
medico e per l’autorità. Il cadavere venne staccato e deposto sul letto; ma il
sanitario non poté che constatare il decesso d’Elsa seguito già da parecchie
ore.
Intanto si fecero delle indagini e si scoperse la lettera
che la fanciulla aveva scritta ai suoi genitori. Interrogata la vecchia
tremante, narrò tutti i particolari, non tacendo che la bisogna era stata
condotta da Giovanni Binzaglia, del quale venne operato l’arresto immediatamente.
L’autopsia constatò le violenze subite dalla fanciulla,
violenze che dovevano aver avuto luogo la notte stessa. Una cinghia trovata
appiedi del letto e che si conobbe aver appartenuto al Binzaglia, aggravò
singolarmente la posizione di costui. L’istruzione del processo, ricostituì il
terribile dramma e a nulla valsero le ostinate negazioni dell’imputato, il
quale dovette alla perfine arrendersi e confessare i particolari del delitto.
Giovanni Binzaglia cercò di attenuare la propria
responsabilità, descrivendo l’amore ispiratogli dalla padroncina, la gelosia
suscitatagli dalla progettata fuga col maestro. Disse che era entrato nella
camera d’Elsa per dimandarla, che la vista della fanciulla semisvestita gli
aveva tolta la ragione e che era stato costretto ad ucciderla per occultare il
misfatto commesso in un momento di delirio erotico.
La sua difesa fu molto eloquente; si vedeva che gli premeva
di salvare la testa. Ma non riuscì menomamente a commuovere i giudici, i quali
lo condannarono alla decapitazione.
All’annunzio della sentenza diede in ismania feroce, disse
di essere vittima della influenza esercitata dai genitori della vittima,
respinse ogni conforto e il giorno dell’esecuzione bisognò portarlo a viva
forza sul palco.
Per buona sorte la ghigliottina funzionò colla massima
regolarità e la sua testa cadde con rapidità fulminea nel paniere, destinato a
raccoglierla.
|