LXVII.
L’attentato al cardinale
Rivarola — Quattro impiccati.
I movimenti rivoluzionari di Napoli e del Piemonte avevano
esagitati anche gli Stati di Sua Santità e segnatamente le Legazioni. I
carbonari, fierissima setta politica che si era proposta di rovesciare tutti i
troni, compreso quello del Sommo Pontefice, ordivano continue congiure,
aiutandosi vicendevolmente, da una provincia all’altra, da un capo all’altro
d’Italia.
Per meglio riuscire all’intento, combinarono di sollevare le
Romagne, custodite da scarso numero di truppe e di far di quelle il punto
d’appoggio delle ulteriori insurrezioni, che andavano preparando e che dietro
un primo successo dei ribelli, non avrebbero mancato di scoppiare.
Il governo pontificio era informato in parte delle loro mene
e stava sull’avviso; ma gli tornava impossibile di raccogliere notizie precise,
per poter colpire i capi ed i promotori, stante il terribile ordinamento della
setta, la quale colpiva di morte inesorabilmente traditori veri o supposti,
come s’era già veduto in Roma, nel processo di Leonida Montanari ed Angiolo
Targhini, da me giustiziati al Popolo il 23 novembre 1825.
Erano trascorsi d’allora tre anni, e la carboneria, disfatta
dai rovesci di Lombardia, del Piemonte e di Napoli, s’andava ogni giorno più
estendendo e rinvigorendo. Anche coloro che non v’erano propriamente ascritti
l’aiutavano, per paura di peggio, o almeno non ne denunziavano le opere, delle
quali fossero venuti in cognizione. Ravenna doveva essere il punto di partenza
del progettato movimento.
Stava allora in quella città l’eminentissimo cardinal
Rivarola, uno dei membri più austeri e più acuti del sacro collegio. I
cospiratori formarono l’audace progetto di impossessarsi della sua persona, per
averlo come ostaggio e di ricorrere quindi alle armi per abbattere il governo
del papa e sostituirvi un governo rivoluzionario, al quale avrebbero fatto capo
gli altri dei paesi insorti costituendosi in lega.
L’eminentissimo Rivarola aveva l’abitudine di recarsi ogni
giorno a diporto in carrozza fino alla spiaggia del mare, costeggiando la famosa
Pineta, ed inoltrarsi in questa anche per breve tratto, onde godersi la soave
frescura e l’aria saluberrima, pregna delle esalazioni delle piante resinose,
tanto giovevoli ai polmoni.
Sull’imbrunire di una giornata dei primi di maggio 1828, il
cardinale ritornava dalla consueta passeggiata, e stava per uscire dalla
pineta, quando sei individui vestiti alla cacciatora e muniti di moschetti,
balzarono fuori da una delle macchie più fitte: due si portarono ai lati dei
cavalli gridando al cocchiere:
— Ferma, o sei morto.
Il cocchiere intimidito fermò le bestie, benché il domestico
che aveva a lato, lo esortasse a spronarli per giungere sulla strada maestra.
Contemporaneamente gli altri quattro si avvicinarono alle
portiere, e quello fra essi che funzionava da capo, disse, levandosi con una
mano il cappello, coll’altra brandendo il fucile:
— Scenda, eminentissimo: non vogliamo farle alcun male.
— È inutile — rispose il cardinale — prendetevi pure tutto
ciò che abbiamo e non versate inutilmente sangue.
— Non è la sua roba che ci preme — replicò il capobanda —
non siamo ladri, siamo patrioti e vogliamo soltanto impossessarci della sua
persona, che tratterremo in ostaggio.
E siccome il cardinale pareva esitante, aperta la portiera
lo afferrarono per le braccia onde trarlo fuori.
Intanto il domestico era balzato in terra da cassetta ed
aveva scaricato addosso ai banditi le pistole di cui era munito,
disgraziatamente senza colpirli. Uno dei cospiratori che tenevano i cavalli,
trasse pur lui una pistola che portava alla cintola e scaricandogliela nella
testa, lo freddò.
Il rumore degli spari fece accorrere immantinente una
pattuglia di gendarmi, che perlustrava la pineta.
Si impegnò tosto un conflitto a colpi di moschetto; due dei
gendarmi caddero gravemente feriti. Una palla sfiorò la fronte del segretario
che accompagnava il cardinale ed altre fischiarono alle orecchie di Sua
Eminenza.
Ma la forza ebbe in breve ragione degli aggressori, dei
quali due soli, il capo e un suo luogotenente riuscirono a fuggire; gli altri quattro
vennero solidamente legati e portati a Ravenna, dietro la carrozza del
cardinale, che un’ora dopo rientrava trionfante a palazzo.
La cittadinanza fu estremamente commossa dall’iniquo
attentato: venne decretato lo stato d’assedio. Cionullameno gli altri
cospiratori indiziati e conosciuti dalla polizia, riuscirono a sottrarsi nella
notte alle sue indagini.
Si eresse il procedimento per omicidio ed attentato
omicidio, contro i quattro arrestati: Luigi Zanoli, Angiolo Ortolani, Gaetano
Montanari e Gaetano Rambelli. Ma per quanto si facesse per trar loro di bocca i
nomi dei complici e i particolari del delitto, non venne fatto. Legati dal
giuramento alla setta, rifiutarono ostinatamente di rispondere alle
interrogazioni dei giudici, né valsero a rimoverli dal loro proposito,
blandizie e minaccie; disprezzarono le une e le altre, e condannati tutti
quanti alla forca, risposero unanimemente
Ha già vissuto
assai.
L’esecuzione ebbe luogo il 13 maggio sulla gran piazza di
Ravenna, occupata militarmente, per modo che non potessero accostarsi ai
patiboli eretti, altro che i personaggi addetti alla curia, i soldati, e i
penitenzieri.
Le finestre e le porte e le botteghe della città erano tutte
chiuse e molte erano addobbate a lutto. Non una persona si vedeva per le
strade. Ravenna pareva mutata in una necropoli.
Tutti i tentativi fatti per convertirli erano stati
energicamente respinti dai condannati, i quali non ne vollero sapere né di
confessarsi, né di confortatori religiosi e protestavano contro l’accompagno di
due frati, ordinato dal cardinale.
La carretta traversò le vie deserte e silenziose, tutta
circondata da soldati a piedi ed a cavallo al gran trotto.
Giunta ai piedi del patibolo, i giustiziandi scesero con un
fermo passo, intrepidamente salirono uno ad uno sulle scale delle forche, e
prima che il capestro stringesse loro il collo gridarono, con voce robusta, e
priva di qualsiasi emozione:
— Viva l’Italia! Abbasso il papato!
L’esecuzione fu rapidamente compiuta. E io partii col mio
aiutante la notte sotto buona scorta, perché era corsa voce che i carbonari
volessero farci la pelle.
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