LXIX.
I misteri romantici della
macchia.
Sullo scorcio di una giornata d’agosto Geltrude che aveva
passato tutto il dopopranzo nella macchia, leggendo, s’avviava a casa, quando
sentì uno scricchiolìo di fronde calpestate poco distante da lei. Si volse e si
trovò faccia a faccia con un giovinotto alto e biondo vestito da cacciatore.
Portava un abito di fustagno verde, alte uose di cuoio, un cappello a cencio, e
il fucile attraverso le spalle.
— Scusate, bella ragazza — le disse, l’incognito — mi sono
sperduto nella macchia, vorreste essere tanto gentile da insegnarmi ad uscirne?
Geltrude arrossì fin nel bianco degli occhi, vinta da
un’emozione nuova.
Il cacciatore aveva degli occhi cilestrini, una voce
insinuante e dei portamenti non volgari.
— Non siete né del paese, né dei dintorni? — si arrischiò a
domandargli la fanciulla.
— No. Sono romano e poco pratico di questa plaga; mi hanno
detto che abbonda la selvaggina in queste macchie e ci sono venuto. Disgraziatamente
il mio cane si è azzoppato per un pruno che gli è entrato in una zampa e ho
dovuto lasciarlo all’osteria.
— Scendendo per la macchia tre tratti di fucile, troverete a
manca un sentiero traversale che conduce alla strada maestra.
— Grazie mille. Ma voi, perdonate, non seguite la stessa
strada?
— No, io sono di Monteguidone, che si trova a un quarto
d’ora dalla macchia e devo risalirla per giungervi.
— Peccato. Avrei fatto tanto volentieri la strada in vostra
compagnia.
— Vi allontanereste di troppo dalla vostra meta e non vi
converrebbe perché si approssima la sera... Le strade sono malsicure, specie
pei forastieri.
— Val bene la pena di scomodarsi un poco per intrattenersi
con una bella fanciulla, come voi, ed anco di correre qualche rischio.
Geltrude a tali parole si sentì ancora più calde le vampe al
volto e volendo troncarla rispose:
— Addio, signor cacciatore.
E affrettando il passo si allontanò. Ma non seppe resistere
alla tentazione di volgersi indietro, per vedere se l’incognito seguiva le sue
indicazioni. Egli era invece sempre là, fermo al posto dove l’aveva lasciato,
colle braccia incrociate sul petto e l’occhio intento a lei.
I loro sguardi si rincontrarono.
Quella sera Geltrude, si mise innanzi il libro come di
consueto ma poco o punto lesse e non appena coricata spense il lume.
La sua avventura del giorno le preoccupava la mente: ella si
rivedeva innanzi il biondo giovinotto e parevale d’udirne la voce armoniosa.
Che più? Non le sembrava ch’egli fosse nuovo per lei. Doveva averlo incontrato
altrove, forse nelle pagine di qualche romanzo.
Geltrude si alzò all’indomani mattina, che non aveva chiuso
occhio. La sua fisonomia aveva in sé qualche cosa di insolito, di affaticato,
di languente.
— Ti senti male. Geltrude? — le domandò premurosamente la
madre.
— Punto.
— Se sei giù di cera?
— Ho dormito poco. Faceva tanto caldo.
— Perché non torni a riposarti?
— No, no. È meglio che mi goda un po’ d’aria fresca.
La madre non insistette più oltre e Geltrude attese come di
consueto alle bisogna di casa, affrettando con voti il pomeriggio per recarsi a
passeggiare e a leggere nel bosco. Sentiva come un vago presagio che
l’attendeva qualche cosa di inusato. Forse sperava di incontrarvi di nuovo il
cacciatore.
I presagi di una fanciulla si avverano sempre, segnatamente
quando sono ispirati dal cuore.
Giunta poco lungi dal posto dove aveva passato il dopopranzo
il giorno innanzi, vide un’ombra, la quale prese tosto consistenza e forme
precise: quelle del cacciatore dagli occhi cerulei. Sostò un momento perplessa,
ma si decise tosto e continuò la strada; quando fu innanzi all’incognito, gli
volse per prima la parola.
— Ancora qui, signore? Avete dunque fatto buona caccia,
ieri?
— Non quale la desideravo — rispose l’incognito. — Vi
aspettavo.
— Aspettavate me? Eppure, a quest’ora, avreste dovuto
conoscer bene la via.
— Sedete, Geltrude — disse l’incognito, facendole posto sul
masso colla maggiore naturalezza del mondo e come si fosse trattato di una
vecchia conoscenza.
Sedotta da quelle maniere disinvolte, senza soverchia
affettazione, Geltrude accettò l’invito e sedette.
— Come conoscete il mio nome?
— Me lo hanno detto in paese.
— Vi siete dunque occupato di me?
— Sì, perché vi amo.
La fanciulla si levò di scatto: quella parola buttata là
così, senza circonlocuzioni, l’aveva offesa. Con chi credeva d’avere a che fare
quel cacciatore ardito?
— Sedete, — ripeté l’incognito — e non vi offendete. So che
siete una fanciulla virtuosa, che non avete mai avuto amanti, che non volete
saperne di matrimonio. Se vi confesso candidamente il sentimento che mi avete
ispirato, credo di mostrarmi onesto e leale. Temete forse di me?
— No — rispose francamente Geltrude.
— Riprendete dunque il vostro posto. Non ho nulla a dirvi
che possa appannare la vostra virtù. Vi amo. Ebbene che male c’è?
La fanciulla non rispose; ma si lasciò convincere dalla voce
insinuante del cacciatore e gli sedette di nuovo a fianco.
— Anch’io m’ero proposto di non ammogliarmi: e non ho amato
mai. Voi siete la prima fanciulla che mi ha fatto deviare dal mio proposito.
Forse non ci rivedremo più. Ma permettete che vi manifesti l’animo mio.
— Ebbene? — mormorò Geltrude chinando gli occhi.
— Sarei tanto fortunato d’avervi ispirato un briciolo di
simpatia? È una domanda indiscreta, lo so, e vi autorizzo a non rispondere né
ad essa, né a quelle che per avventura mi sfuggissero. Io non ho dormito la
scorsa notte, e voi?
— Neppur io — sussurrò la fanciulla.
— La vostra immagine mi è sempre stata innanzi agli occhi.
Per quanto mi vi sforzassi non sono riuscito a fugarla.
— Mi è accaduto altrettanto.
— Sarei infelice se non dovessi più rivedervi, se non
dovessi più parlarvi, se non dovessi più ascoltarvi. E voi?
— Forse anch’io.
— Voi non volete maritarvi pei vostri genitori, io non
posso...
— Perché?
— A che servirebbe il dirvelo? Forse per una causa simile.
Ma non potrebbe continuare questo mutuo scambio di confidenze e di affetti?
Geltrude sollevò la testa che teneva china al suolo e guardò
negli occhi del cacciatore. Era più che una risposta, era più che una
confessione. Era un assenso.
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