LXX.
Un’orgia d’amore.
I convegni fra Geltrude ed Enrico — tale il nome del
cacciatore, — continuarono ogni giorno e finirono a diventare sempre più
intimi. Mutavano il luogo, ma di volta in volta si internavano sempre più nella
macchia.
— Noi intessiamo un romanzo — diceva il giovanotto alla
fanciulla.
— E ciò val meglio di leggerlo — rispondeva Geltrude
sorridendo.
— E non arriveremo mai all’epilogo?
— Sarebbe finito e non si potrebbe ripigliar da capo.
Un dopo pranzo, un improvviso temporale li sorprese, mentre
passeggiavano nella macchia. Grossi goccioloni incominciavano a cadere, forieri
di un terribile acquazzone. Infervorati nel discorso non se n’erano avveduti in
tempo e fu ventura per loro di trovarsi vicino ad una grotta naturale, da
Geltrude ben conosciuta, dove poterono ripararsi.
In breve la pioggia diventò diluvio. Soffiava una raffica
terribile che pareva volesse schiantare tutti gli alberi della selva. Le
scariche elettriche si succedevano con rapidità spaventosa; talché v’erano dei
momenti in cui il bosco pareva in fiamme.
Accoccolati uno vicino all’altro sopra un pezzo di roccia,
staccata dalla volta della grotta, dalla quale pendevano le stallatiti,
bizzarre nella forma elegante, guardavano fuori l’imperversare del tempo senza
sgomento; si sarebbe detto che assistessero ad uno spettacolo. E di tratto in
tratto, si comunicavano le loro impressioni. Geltrude si sentiva invasa da un
senso arcano, che le faceva scorrer dei brividi acuti e deliziosi nelle vene.
Talvolta il bruno dorato della sua pelle acquistava dei toni caldi e i suoi
occhi sfolgoreggiavano, come i lampi. L’aria satura di elettricità influiva sui
suoi nervi.
Enrico lo comprendeva, ma non tentava di approffittarne.
Aveva preso sul serio quella relazione tutta spirituale e non voleva mutarle il
carattere, o prolungandola acuiva maggiormente la passione fisica?
Quando Dio volle l’infuriare del temporale cessò; la pioggia
rallentò, tacque il vento e un iride superba stese il suo arco settemplice
sulla volta celeste.
— È passato — disse Geltrude sospirando e togliendosi a
malincuore dal fianco del biondo cacciatore. Enrico non cercò di trattenerla,
si alzò pur lui ed entrambi si affacciarono all’imboccatura della grotta.
Allora uno spettacolo nuovo si offerse loro. Innanzi alla grotta scorreva
impetuoso e rumoreggiante un torrente d’acqua giallastra e limacciosa,
travolgendo con sé rami d’alberi, massi di pietre ed animali.
Si trattava di una inondazione in piena regola. Un corso
d’acqua superiore gonfiato dalla pioggia aveva straripato e scendendo giù per
la selva, aveva formato nella parte avallata quella specie di fiume
improvvisato.
Per riguadagnare la parte alta del bosco e la strada, era
mestieri attraversare quel torrente; e non c’era tempo da perdere, perché le
acque ingrossavano sempre più e il tramonto si avvicinava.
— Bisogna uscire ad ogni costo — disse Enrico, non senza
inquietudine.
— Usciamo — rispose sospirando Geltrude, tentando di mettere
il piedino fuori della soglia della grotta.
Il cacciatore la trattenne appena in tempo.
— Siete pazza esclamò — l’acqua arriverà già a quest’ora
sopra le mie ginocchia, e la furia con cui scende vi travolgerebbe.
— Non possiamo passar qui la notte — rispose gaiamente la
fanciulla, inconscia del pericolo. Come fare?
— Concedete che io vi trasporti sulle braccia attraverso il
torrente.
Per tutta risposta Geltrude con ingenuo abbandono passò il
manco braccio attraverso al collo del cacciatore e appoggiò all’omero di lui la
bellissima testa. Enrico la sollevò come una bimba e mosse i primi passi nel
torrente. Ma il fondo era sdrucciolevole; l’acqua rapida e saliva molto più che
egli non credesse. In breve sentì che non avrebbe potuto resistere alla furia e
dovette ritornare indietro e posare sulla soglia della grotta il prezioso
fardello.
— Impossibile! — esclamò.
Ma oltre all’emozione prodottagli dalla situazione, Enrico
si sentiva invaso da un’altro trasporto. Quelle morbide forme che egli aveva
cullato nelle sue braccia poderose per alcuni istanti, l’alito soave di
Geltrude che si era confuso col suo, il contatto dei loro capelli, lo avevano
reso pazzo di amore, sentiva che lo trascinavano...
E Geltrude rideva, rideva sempre.
— Ma non sai, disgraziata, — gridò riaccostandosele e
protendendole di nuovo le braccia, che siamo perduti?
— Che importa se mi ami? — rispose collo stesso tono
eccitato la fanciulla, in preda pur essa al fascino della passione. Un istante
di felicità, non vale una vita stupida e noiosa?
Enrico afferrò di nuovo Geltrude fra le braccia e
stringendola disperatamente al seno le diede un bacio, sulle labbra, lungo,
intenso, snervante. E fu quello il punto che li vinse.
Fu un’orgia di amplessi frenetici, quella a cui i due
giovani inebbriati si abbandonarono; un’orgia, nella quale la passione toccò lo
zenit. Si credevano votati a morte sicura e volevano giungervi per un’agonia
deliziosa.
Un ultimo raggio di sole occiduo, traversando fra le fronde
degli alberi penetrò nella grotta a svegliare i due innamorati dal loro
delirio; si sciolsero simultaneamente dall’ultimo gagliardo amplesso e
tornarono sul limitare del loro ricovero.
L’imperverso torrente aveva smessa la furia della sua corsa,
le acque erano discese a un bassissimo livello e fu agevole al cacciatore di
attraversarlo, e di riguadagnare la strada della macchia, portando in salvo la
fanciulla che aveva ripresa sulle sue braccia tuttora fremebonde.
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