LXXV.
Gli ultimi amplessi coll’amante
dopo l’assassinio.
Cominciava appena a far giorno, quando giunse a casa dell’amante,
affaticata, stanca, anelante, ma sempre ebbra d’amore e smaniosa di gettarsi
nelle braccia di lui.
Sentendo bussare leggermente alla porta, Enrico si tolse dal
letto e andò ad aprire, non sapendo ideare chi potesse a quell’ora cercarlo. Ma
appena la vide, esclamò sorpreso e trasognato:
— Geltrude!
— Io.
— Tu qui? A quest’ora? Come mai?
— Lasciami portar dentro le valigie e lo saprai.
— Le valigie?
— Sì, ti sorprende?
Il giovinotto aderì alla richiesta di Geltrude, perché non
poteva crudelmente lasciarla sulla porta di casa. Ma quel carico che gli
cascava improvvisamente sulle spalle non gli garbava di soverchio: lo
preoccupava assai. Come tutti gli amanti, nel trasporto della passione aveva
risposto affermativamente a tutte le domande della sua innamorata, benché gli
sembrassero molto strane ed arrischiate; ma era ben lontano dal credere che
quei propositi, scaturiti dall’ebbrezza, fra un bacio e l’altro, avessero a
tradursi in fatto, e sopratutto a tradursi in fatto così sollecitamente.
Come ebbero trasportate in casa le due valigie, Enrico
infreddolito si ricacciò tra le coltri.
— Che fai? gli disse Geltrude stupita.
— Non vedi? Mi corico. Fa un freddo birbone. Non vorrei
prendere una costipazione. Si fa presto ad andarsene all’altro mondo e sarebbe
troppo comodo a tuo marito.
Geltrude a quell’uscita sorrise sinistramente; i suoi occhi
mandarono un bagliore di fiamma. Benché sorpresa da quella accoglienza non
proferì verbo; e attribuendo all’amante il desiderio di gioire di lei,
incominciò a spogliarsi.
— Vieni a letto anche tu? le chiese Enrico.
— Poiché ci sei tu...
— È il meglio che ci resta a fare.
— Bisogna però pensare a partire.
— A partire?
— Certamente. Non vorrai credo, che io resti qui. Lo
scandalo sarebbe troppo grosso e collo scandalo il pericolo.
Le preoccupazioni d’Enrico crescevano di momento in momento.
Egli non era per nulla disposto a mettersi nella briga di un’unione
clandestina, con una donna fuggita dalla casa maritale. Le sue supposizioni non
andavano oltre. Al primo risveglio della passione, incontrando Geltrude, gli
era parso possibile tutto. Ma sbolliti i primi entusiasmi, gli era rinata la
riflessione. Ed era giunto già a tale da reputare come un grave impiccio per
lui quell’amore troppo fervente e troppo esclusivo.
Geltrude dal canto suo s’era accorta che Enrico non aveva
capito quello che era accaduto fra lei e suo marito e non si sentiva il
coraggio di confessarlo.
Quando si fu completamente spogliata ed ebbe preso posto nel
letto, pensò che la confessione gli verrebbe più spontanea, fra i deliri degli
amplessi. Ma anche questi deliri non vennero punto. Tutto assorto nel pensiero
delle conseguenze della fuga di Geltrude, Enrico fu quella mattina un pessimo
amatore; gli mancava, se non la lena e la vigoria, l’entusiasmo. Geltrude ne
provò una delusione crudele; ma sperò ancora.
— Ora è mestieri che ci alziamo — disse.
— Alzati pure.
— E tu?
— Io resto.
— Ma disgraziato! noi non possiamo rimaner qui, esclamò,
esterefatta da quel contegno del suo amante, Geltrude. — Bisogna andarsene, se
no saremo sorpresi.
— Ascolta Geltrude — le rispose Enrico, oramai deciso a
disingannare quella donna ed a farla tornare da suo marito — le pazzie, sono
sempre pazzie: si fa presto a dirle, quando la testa riscaldata non sta a
segno; ma prima di commetterle, bisogna pensarci e ripensarci bene.
— Non è più tempo: ormai è fatto.
— Si è sempre in tempo per rimediare ad un errore, a un
fallo, o ad una colpa:
Geltrude volle sorridere ancora; ma il suo non fu neppure un
sogghigno amaro, fu una contrazione spasmodica della bocca.
Fortunatamente l’amante non la vide; gli avrebbe destato
orrore. Enrico continuò:
— Ritorna da tuo marito, raccontagli una bubbola purchessia,
e ti crederà. Che cosa non credono i mariti, quando si tratta di non perdere
una bella moglietta come sei tu?
Queste blandizie, invece di lusingare Geltrude, la fecero
impallidire, come una morta. La freddezza dell’amante, era una doccia su la
passione che l’aveva condotta fino all’assassinio del marito. Lo spettro
dell’ucciso, si levava in quell’istante innanzi ai suoi occhi, terribile e
minaccioso. Ella incominciava a sentirsi perduta, irremissibilmente perduta, e
ne era sgomenta.
— Impossibile! — mormorò rabbrividendo.
— Perché impossibile?
— Impossibile, ti dico.
— Fole. Vattene in un albergo, colle tue valigie. Scrivigli
una lettera, dicendogli che hai lasciato la sua casa, perché... perché...
— Perché ho un amante? — chiese Geltrude con accento
tragicamente ironico.
— Non è il caso. Ma non saresti la prima, come non saresti
la prima perdonata da un marito tradito.
— Enrico, tu mi hai perduta!
— No, ti ho trovata.
— Celii? E non ricordi che mi giurasti di non vivere che per
me, che di me, quando fosse rimosso l’ostacolo che ci divideva?
— Sta bene. Ma l’ostacolo esiste, e per ora almeno, non è
possibile toglierlo di mezzo. Né urge. Noi siamo felici anche così? Non
possiamo continuare ad esserlo egualmente?
— Felici? Ho creduto di poterlo essere ancora, ad onta...
— Ad onta di che?
— Ad onta di tutto. Ma la glaciale freddezza con cui mi
accogli, con cui rispondi a colei, che ha tutto sacrificato per te... mi ha
completamente delusa.
— Parole! Parole! Benedette donne, se non chiacchierate, se
non declamate, se non piangete...
— Piangere io? Ascolta. Non ho pianto il giorno in cui seppi
d’essermi data ad un uomo che non poteva sposarmi, non ho pianto stanotte
quando mi decisi...
— A fuggire da tuo marito. Sarebbe stato meglio che avessi
versato quattro lagrime e ti fossi rappattumata con lui.
— Vile! Codardo! Infame! — urlò Geltrude che era scesa dal
letto e si andava rivestendo, movendo co’ pugni stretti verso Enrico, tuttora
giacente. E forse se avesse avuto fra le mano il pugnale, con cui aveva nella
notte trafitto il cuore del marito, avrebbe fatto altrettanto coll’amante.
Enrico tentò di rappacificarla.
— Via, che parolaccie son queste Geltrude? Non le ho udite
mai sulle tue labbra. Perché vuoi contaminarle ora?
Il giovane aveva messo tutta la tenerezza, tutta la dolcezza
di cui era capace, in questo rimprovero: la sua voce suonò all’orecchio di
Geltrude soavissima.
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