LXXXIV.
Il dissoluto si fa
prete.
Compromesso da una serie di fatti turpi Cesare Abbo, per non
incorrere in guai maggiori, dovette lasciar Roma e lo stato pontificio. Dopo
aver passato qualche anno soggiornando in varie città d’Italia, passò
all’estero e finì collo stabilirsi a Parigi, dove, dato fondo fino agli ultimi
resti della sua fortuna, aveva dovuto, per vivere, ricorrere alla sua cultura e
trar profitto dalle sue cognizioni. Ammesso in una casa signorile in qualità di
precettore diventò l’amante della madre, una donna sulla quarantina, tuttor
fresca e piacente ed ebbe da lei dovizia di mezzi. Avrebbe potuto vivere
tranquillo e felice, ma la sua sete insaziabile di godimenti sempre nuovi lo
trasse a rovina. Insegnava italiano e musica alla figlia quindicenne della sua
amante, leggiadrissima creatura, rosea e bionda come un cherubino e se ne
invaghì. Non potendo sperare di sedurla le propinò una bevanda inebbriante,
mentre la conduceva in villa e la violò. La fanciulla ne uscì gravida e Cesare
Abbo dovette lasciar la casa, non solo, ma ben anco Parigi.
Riparato a Liegi ebbe un posto di professore in un collegio
cattolico e corruppe una quantità di fanciulli affidati alla sua cura,
suscitando uno scandalo gravissimo e facendosi istruire un processo, dal quale
non sarebbe uscito incolume, senza l’aiuto della famiglia la quale riuscì ad
assopire la cosa.
Era stato in quel mezzo investito della sacra porpora un suo
nepote in linea femminile e questi spiegò tutta la sua influenza a favor dello
zio. Erano passati di molti anni e la memoria dei fatti di Cesare Abbo era
impallidita a Roma. Il cardinale, fatte le debite diligenze pensò di
richiamarlo a sé, e gliene fece la proposta per lettera.
L’offerta non poteva essere più lusinghiera e vantaggiosa
per il lussurioso e randagio buontempone. Egli vide aprirsi innanzi un nuovo
orizzonte e si promise di approfittare largamente di tutte le gioconde
prospettive che esso gli presentava. Chiese ed ottenne di entrare negli ordini
e sorvolando per volere del nipote a tutte le difficoltà, vincendo tutti gli
ostacoli, fu fatto prete in breve volger di tempo, mutando il suo nome di
Cesare troppo compromesso in quello di Domenico, che pur si trovava nella lunga
filatessa di nomi impostigli al fonte battesimale.
Don Domenico, ormai bisogna chiamarlo così, fece il suo
solenne ingresso nella sua città natia in abito talare, accuratamente sbarbato,
corretto nel portamento, talché difficilmente si sarebbe riconosciuto in lui
l’antico libertino, che aveva dato tanta materia alla cronaca scandalosa dei
paesi da lui visitati. Era ancor nel fiore dell’età; toccava la quarantina, ma
dimostrava quindici anni di meno, tant’era robusto e fresco e pieno di vigoria.
Il cardinale fu molto sorpreso di trovarsi avanti uno zio
che pareva meno anziano di lui, quantunque foss’egli il più giovane dei membri
del sacro collegio; investito della porpora cardinalizia da Sua Santità
Gregorio XVI per la grandissima dottrina ond’era fornito. Tuttavia sedotto dai
modi squisitamente signorili del neoprete, giudicò che sarebbe tornato di
lustro alla sua corte e gli fece pertanto le migliori accoglienze.
— Don Domenico, sono ben lieto di vedervi. Desideravo da
molto tempo di conoscervi e mi spiace solo di dover questa fortuna a
circostanze sulle quali, voglio sorpassare in questo momento, certo che saprete
onorare l’abito e il carattere che avete assunto.
— Cardinale, nipote mio dilettissimo, il dente della
calunnia mi ha morso spesso, ma sotto l’egida della vostra porpora, spero vorrà
d’ora in poi lasciarmi in pace. Voi avete fatto opera degna della vostra e
della mia famiglia, associate negli interessi e negli affetti dai matrimoni,
richiamandomi a Roma.
— Voi farete parte della mia casa. Vi nomino mio segretario
onorario ed eserciterete le funzioni di cerimoniere, per le quali mi sembrate
tagliato apposta.
— L’ufficio mi garba e lusinga il mio amor proprio e lo
accetto. Tuttavia siccome intendo di esercitare seriamente il mio ministero di
sacerdote, per il quale mi son sempre sentito inclinato, desidererei aver cura
d’anime.
— Il vostro passato... veramente...
— Ma ho fatto una pratica eccezionale delle vicende umane.
— Lo credo. Però vi esporreste a nuove tentazioni, dalle
quali parmi opportuno tenervi lontano.
— Cardinale, abbiate pazienza, vi sono gratissimo delle
vostre buone disposizioni a mio riguardo e tuttociò che avete fatto per me, ma
poiché sono diventato prete, non voglio esserlo di pura mostra.
L’ostinazione dello zio irritava un po’ l’illustre Principe
della Chiesa. Egli subodorava delle seconde intenzioni nel tenace proposito di
Don Domenico, ed ebbe una punta di resipiscenza per averlo richiamato. Ma
comprendendo che non sarebbe stato agevole persuaderlo a rinunziare alle sue
aspirazioni gli fu giocoforza di assentire. Dopo tutto la cura delle anime che
reclamava, lo avrebbe allontanato da pericoli maggiori e salvaguardato il
decoro della sua Corte.
— Volete dunque assolutamente esercitare il sacerdozio in
tutte le sue più gelose cure — domandò.
— Lo desidero, Eminenza.
— E sia. Avrete la confessione, per ora.
— Mi basta.
— In seguito vedremo, se convenga farvi titolare di qualche
parrocchia.
— Non spingo tant’oltre le mie aspirazioni.
— Resta convenuto che risiederete a palazzo e farete parte
della famiglia. Vi sarà facile prendere conoscenza e pratica del cerimoniale. Errare
humanum est: voi avete, se la fama non mente, errato la vostra parte.
Guardatevi bene dal ripigliar da capo e di offrir l’occasione a quel dente
della calunnia, di cui dite d’aver provato i morsi, di nuovamente attaccarvi.
Siate cauto, almeno...
— Se non casto. Questo va da sé.
Zio e nipote dopo questo colloquio, si lasciarono ne’
migliori termini.
Il giorno stesso don Domenico prendeva possesso del suo
piccolo ed elegante appartamento nel palazzo del Cardinale, e stropicciandosi
allegramente le mani, esclamava:
— Ho ritrovato il paese della cuccagna. Attenti a non farsi
esiliare.
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