XCIX.
L’avventura di Angelo
Isola.
Timoteo Castroni era un giovane studente dell’università
romana, molto stimato per il suo fervido ingegno e per la facilità con cui
apriva la sua borsa, agli amici, sempre ben fornita, poiché apparteneva a ricca
famiglia della provincia.
Frequentava la buona società ed era assai ben accolto, per
la squisitezza delle sue maniere, per il brio della sua parola, colta, fluente,
simpatica e per le sue doti fisiche non comuni. Alto e slanciato della persona,
col bel viso ovale, di quel colore leggermente olivastro pallido, che esercita
tanta influenza sull’animo del bel sesso, illuminato da due grandi occhi neri
morati, pieni di sentimento, di passione e di dolcezze, con una bocca carnosa,
sensuale, ombreggiata da due baffetti neri, lucidi, fini, come la ricca
capigliatura ricciuta, era realmente un bel giovane, nel senso più assoluto
della parola. Il suo istintivo riserbo aumentava il fascino che esercitava.
Le signore lo attribuivano ad una punta di orgoglio
suscitatogli da precoci fortune amorose, e si incapricciavano facilmente di
lui, smaniose di vincere quel disdegno che credevano ostentasse e che realmente
era ben lontano da lui.
C’era fra l’altre sue conoscenze, conoscenze da salotto, ben
inteso, una leggiadra francese, romanizzata che godeva una fama un po’
piccante, la quale si era presa di Timoteo, perdutamente, e mal sapeva
tollerare la indifferenza da lui dimostratale.
Invece di indifferenza era timore ch’ella gli ispirava.
Innanzi a quella superba bellezza, il giovane studente si sentiva piccino,
piccino, non osava innalzare gli sguardi fino a lei, gli pareva che fosse stata
messa al mondo solo «per miracol mostrare.» Il desiderio l’avrebbe attratto
verso di lei, ma combatteva strenuamente, negli imi suoi penetrali, siffatto
desiderio, giudicandolo, non solo temerario, ma insensato addirittura.
Quando l’immagine di quella donna gli appariva ne’ sogni, ne
risentiva uno spossamento fisico inconcepibile, e cercava di cacciarla, come un
succubo tentatore.
I sorrisi che l’avvenente creatura gli prodigava li
considerava come beffe, come scherni atroci e invece di sentirsene incoraggiato
la fuggiva.
Una sera ad un gran ballo dato ad un’ambasciata, al quale
Timoteo era stato invitato, vide entrare la formosissima signora, in un’ardita
toilette, che metteva in evidenza tutte le grazie incomparabili della sua
persona.
Vestiva in abito bianco, molto scollato, dalla breve vita
del quale sorgevano le superbe spalle divinamente modellate, il seno
torreggiante fra i finissimi merletti spumeggianti. Intorno al collo un vezzo
di perle nere di rara bellezza, che aggiungevano splendore alla tinta calda
della rasata epidermide.
La sua comparsa aveva suscitato d’ogni intorno mormorii
d’ammirazione, i più cospicui personaggi e i giovanotti più eleganti della
romana aristocrazia le si affollavano vicino, per contendersi un sorriso, un
lieve cenno del capo, un saluto.
Blanche — tale il suo nome — trascorreva oltre con un
incesso da dea, incurante quasi degli omaggi. D’un tratto scorse in fondo alla
sala il giovane studente, che la guardava esterefatto e sembrava assorto in
estasi. Ella volle godere del suo trionfo e si fermò a pochi passi da lui, conversando
gaiamente con un brillante ufficiale del suo paese natio.
Timoteo si trovava, come assediato, da quella coppia, che
attirava sopra di sé tutti gli sguardi. Non avrebbe potuto togliersi dal suo
posto, senza dimandar loro licenza e gli pareva grottesco il farlo; più
grottesco ancora rimanere, indiscreto testimonio.
La signora, mentre discorreva coll’ufficiale lo guardava di
sottecchi e sembrava compiacersi del suo imbarazzo. Ma quando lo vide
impallidire, a segno da parer prossimo a svenire, licenziò l’ufficiale con un
piglio da regina, e mentre questi le si inchinava innanzi, si volse rapidamente
e passò il suo braccio, meraviglioso, sotto quello di Timoteo, dicendogli:
— Portatemi a fare un giro per le sale. Qui fa troppo caldo;
si soffoca.
E lo trascinò seco in un gabinetto, lontano, dove appena
giungevano le note della musica, che metteva in effervescenza le coppie
danzanti della sala da ballo; dove la luce di una grande carcel,
soavemente moderata da rosei paralumi, dava all’ambiente un carattere dolcemente
misterioso; dove pareva che le dichiarazioni di amore e i baci aliassero nella
tepida atmosfera.
Blanche si abbandonò sopra un piccolo divano di raso rosso,
i cui riflessi rendevano fiammeggianti le sue rotonde spalle ignude e le sue
braccia anelanti d’amplessi, come il suo bel viso, acceso dalla passione
intensa e dalla brama irrefrenata di voluttà, e trasse seco il giovane
trasognato, chiedendogli, con un accento riboccante di promesse.
— M’ami?
Timoteo volle inginocchiarsele innanzi. Non aveva fibra che
tenesse ferma: aveva un tremito nelle labbra, nella voce, nella persona.
— Vi adoro, come una santa sull’altare.
— Fanciullo! — esclamò l’inebbriata signora e gli chiuse la
bocca colla sua.
Da quella sera lo studente diventò il suo amante e non ebbe
più vita che per lei.
Era venuta la state e dopo la bagnatura Blanche era stata
condotta dal marito ad un suo castello, che s’ergeva sull’Appennino abruzzese.
Timoteo la seguì ed ogni notte, per una segreta porticina, della quale aveva la
chiave, penetrava nella sua camera da letto.
Il marito non tardò ad accorgersene. Conosceva le abitudini
di Bianca. Prima di sposarla era stato suo amante ed aveva ingannato il marito
di lei, come ora Timoteo ingannava lui. Non erano scorsi che tre anni, e il
primo consorte della leggiadra signora era morto, dicevasi in un accidente di
caccia. Ma la sorte era stata aiutata dalla mano dell’uomo. E quest’uomo era il
bandito Angelo Isola.
Risoluto a liberarsi dell’amante, come si era liberato del
primo marito, andò in traccia dell’antico suo complice e lo rinvenne in una
bettola di Rocca Secca, dove soleva riparare fra l’una e l’altra delle sue
brigantesche imprese.
Era una stanzuccia scavata si può dire nella montagna e che
s’internava sotto, come una grotta nella medesima, divisa in due da un semplice
assito. Nella parte prospiciente sulla strada stavano gli avventori che
capitavano a bere; nella parte posteriore facevano la cucina, tenevano il vino,
e si ricoveravano i più intimi amici del padrone, il quale non è escluso che
cooperasse alle frequenti grassazioni segnalate ad ogni tratto in quei
dintorni.
Non appena il marito ingannato entrò, il bettoliere si levò
il berretto, ed ossequiandolo umilmente, gli domandò:
— In che posso servirla, signor Conte?
— C’è Angelo? — mormorò a voce sommessa l’interpellato.
Il bettoliere, per tutta risposta, lo accompagnò nel
secondo scompartimento dell’osteria, dove il conte vide e riconobbe tosto il
suo uomo.
— Angelo, gli disse sedendogli famigliarmente accanto, su di
un barile capovolto, c’è da guadagnare un centinaio di scudi. Ti servono?
— Pofferbacco, signor Conte, a questi lumi di luna, per
cento scudi darei la scalata al cielo.
— Si tratta di più agevole impresa.
— Tanto meglio.
— Invece di salire, bisogna far discendere qualcuno pel
burrone del diavolo.
— Non sarà il primo! — osservò sogghignando il bandito. Si
tratta ancora di un marito?
— No, si tratta d’un amante.
— Allora si sono invertite le parti.
— Precisamente. Verso la mezzanotte, un giovinotto sui venti
anni, abbigliato da touriste, passa da quella parte, colla sua brava
borsetta ad armacollo e l’alpenstock fra’ mani.
— Glie lo faremo deporre, perché non l’aiuti a risalire.
L’ora del resto è buona.
— No. È meglio aspettarlo al ritorno, verso l’alba. Chi lo
attende la notte, non vedendolo comparire, potrebbe concepire qualche sospetto.
— Precauzione utilissima l’evitarlo.
— Eccoti dieci napoleoni in acconto: il resto ad affare
compiuto.
Così dicendo il conte porse al bandito un pizzico di monete
d’oro, che egli fece saltare nel cavo della mano.
— Conchiuso! — esclamò il bandito — e il marito oltraggiato
se ne andò.
All’indomani, al primo luccicar del giorno Angelo Isola era
appostato al burrone del diavolo, per dove Timoteo doveva passare. Il tempo
imperversava; spessi lampi rosseggiavano nel cielo coperto di nubi, pioveva a
diluvio. Il povero studente, inconscio dell’agguato che lo attendeva, e tuttora
ebbro di baci e di carezze, affrettava il passo, di ritorno al villaggio, dove
aveva preso stanza, per trovarsi vicino al castello di Blanche, quando due
robuste braccia lo afferrano a tergo, e sollevatolo di peso, lo lanciano di
piombo nel burrone. Il terreno ove andò a cadere, a metà del dirupo, era molle
della pioggia e Timoteo poté rialzarsi ed aggrappandosi alle sporgenze della
rupe, tentare la salita. Ma mentre stava afferrando uno sterpo, uscì un
terribile avvoltoio da uno speco, che il medesimo occultava, e temendo un
assalto al suo nido, si fece sopra di lui.
Un terribile colpo di rostro, accompagnato da un non meno formidabile
colpo d’ala, fece cadere in fondo al dirupo, sfracellato contro i massi
sporgenti, il disgraziato giovane.
Angelo Isola, che aveva assistito alla scena, levò un
sospiro di soddisfazione ed esclamò:
— Il diavolo protegge i suoi.
Il cadavere dello studente venne trovato e raccolto
all’indomani. Blanche indovinò il truce dramma, che si era svolto in quella
tempestosa mattinata, ma non pensò a vendicare il suo amante.
Angelo Isola continuò il suo mestiere di sicario e
di bandito, e quando Dio volle la giustizia umana potè colpirlo. Arrestato,
processato e condannato, gli fu da me reciso il capo, a Subiaco l’11 giugno
1864.
Con quest’ultima esecuzione
Giovanni Battista Bugatti fu collocato a riposo, su proposta di Monsignor
Fiscale il quale nella sua relazione lo qualifica per l’illustre Bugatti. Il
Consiglio de’ Ministri avanzò la proposta a Sua Santità.
Pio IX l’approvò il 28
febbraio dello stesso anno concedendogli la pensione mensile di scudi 30 «in
vista della di lui senile età e dei lunghissimi servigi» con decorrenza dal
primo novembre, nel qual giorno gli succede Vincenzo Balducci, suo aiutante fin
dal 1850. Le esecuzioni di Balducci furono poche (la più famosa quella avvenuta
il 24 novembre 1868 nella quale furono giustiziati i patrioti Monti e Tognetti
alla presenza anche di Mastro Titta) perché sopraggiunse la Breccia di Porta
Pia ad interrompere la sua carriera.
A Giovanni Battista Bugatti
non fu dato di assistere a quell’avvenimento in quanto quindici mesi e due
giorni prima, ed esattamente il 18 giugno 1869, egli moriva. Il suo decesso è
registrato a pagina 89 del libro IX della Parrocchia di S. Maria Traspontina.
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