Appendice
Le giustizie a
Roma
I.
L’Amico e segretario di Mastro
Titta.
La solitudine in cui Mastro Titta era costretto a vivere lo
annoiava alquanto e tendeva a distruggere la giovialità del suo carattere, e la
sua espansività.
Egli anelava di avere un amico, col quale potere liberamente
intrattenersi e conversare, parlare del presente e del passato, ritrarre il
conforto di mutui servigi e di scambievoli cortesie.
Frequentando le bettole egli aveva avuto più volte
l’occasione di stringere delle relazioni, con persone che ignoravano l’esser
suo. Ma ciò non gli bastava. Egli sapeva benissimo, che non appena risapevano
il suo nome e il suo mestiere, rallentavano e man mano cessavano d’aver
rapporti con lui.
Un giorno, mentre se ne stava cogitabondo nel giardino di
una osteria alla Lungara guardando il corso del vecchio fiume e pareva
chiedesse alle bionde sue acque i segreti della storia, sentì toccarsi da una
mano sulla spalla e una voce toneggiante che gli diceva:
— Mastro Titta, che nuove abbiamo? È un bel po’ che non si
lavora... Ci annoiamo, non è vero? C’è ben di che.
Il Bugatti si volse al verboso interlocutore, sorpreso dalla
famigliarità benevola che usava con lui, e gli domandò a sua volta:
— Mi conoscete dunque?
— Perfettamente. Vi ho veduto lavorare e vi so dire che a
buon dritto vi compete il titolo di maestro. Ma che andiamo chiacchierando a
bocca asciutta? Ho l’ugola secca. Mastro Titta vogliamo «farcene» una foglietta
insieme?
— Benvolentieri, rispose il boia, traendo dal suo petto un
sospiro di soddisfazione.
— Vedo che vi fa piacere e ne son lieto. Eh! Toto, portacene
un boccale di frascatano. — È limpido, dolce e color del sole che ha scaldato i
grappoli con cui è fatto — continuò poi, tornando a volgersi a Mastro Titta.
— Amate molto il vino, per quanto mi pare? — gli disse
sorridendo il Bugatti.
— Credo bene! Amore e vino, il vecchio Lieo e le giovani
Camene confortavano i tardi giorni di Anacreonte.
Questo linguaggio, poco comprensibile per lui, sorprendeva
non poco Mastro Titta e si volse ad osservare il parlatore.
Pareva un operaio, poiché aveva le maniche della camicia
rimboccate al disopra de’ gomiti, e portava dinanzi un grembiale turchino,
sollevato a metà, per un de’ lembi infisso nella cintura. Lo sparato della
camicia aperta lasciava scorgere l’ampio petto velloso, donde usciva la maschia
voce che abbiamo notato.
— Vi sorprende il mio linguaggio?
— Ve lo confesso. Parlate come un dottore.
— E vesto come un artiere: completo il vostro pensiero?
— Precisamente.
— Gli è che sono un po’ poeta? Vi sorprende?
— Non vi offendo rispondendo affermativamente?
— Manco per sogno.
— Beviamoci sopra.
Il gigante tracannò due o tre bicchieri del frascatano,
recato dal garzone dell’oste, dopo aver brindato col carnefice, il quale era
rimasto al primo. Poi asciugatasi la bocca col dorso della mano disse:
— Mastro Titta, io vi offro la mia amicizia e vi chiedo la
vostra: sono Giuseppe Marocco d’Imola, poeta e tornitore.
Il boia si ricordò allora d’averne udito il nome,
pronunziato con quella riverenza che dovevano ispirare il suo carattere franco
ed aperto e il suo braccio terribile.
— Ben felice d’avervi incontrato — disse il Bugatti. Per
quel che valga potete contare su di me, se non vi desta ripugnanza il mio
mestiere.
— Non ho pregiudizi, io. So che siete un galantuomo. E
questo mi basta. Sono i birbanti che hanno paura della giustizia, de’ suoi
ministri e de’ suoi esecutori.
Si strinsero le destre, stettero a lungo a chiacchierare in
quel giardino, e si lasciarono promettendo di rivedersi ogni giorno
all’osteria.
— La mia casa vi è aperta ad ogni ora — concluse il Marocco
— vi troverete sempre un cuore leale e un fiasco di Vin Santo d’Imola, che non
ha paura del nettare che bevevano gli antichi iddii.
Da quel giorno la relazione fra il Bugatti ed il Marocco
divenne sempre più intima e durò perenne. Il tornitore-poeta diventò il
consigliere ed il segretario del carnefice, al quale infuse il desiderio di
conoscere la storia dell’arte sua e di lasciare alla posterità quella delle
«Operazioni» che andava eseguendo.
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