VI.
L’Abate Rivarola.
Toccava a Clemente XI della casa Albani il triste vanto di
infierire contro i giornalisti, mandando a morte nel 1708 l’abate A. Rivarola
e, nel 1720, l’abate Volpini.
Accusato il Rivarola, d’aver tentato di lacerare la
reputazione di papa Clemente XI con «il dente ferino delle sue furiose
mordacità» e d’aver avuto rapporto con eretici, Cavalieri Ugonotti, Inglesi ed
Olandesi e d’esser stato amico di Luterani, fu d’ordine di monsignor Goveru
fatto carcerare, e perquisita la sua casa, dove sequestraronsi le sue carte.
Dopo essere stato esaminato parecchie volte si decise di
lasciarlo in riposo — dice la relazione. Ma vedendosi che egli andava deperendo
e che la sua fine si approssimava, perché non avesse a sfuggire alla pena, fu
eretto sulla Piazza di Ponte S. Angelo un palco per farlo decapitare. Recatisi
i Fratelli della Compagnia di San Giovanni Decollato per prepararlo al
supplizio, lo trovarono estatico e quasi privo di sensi, talché temevano avesse
a spirare fra le loro braccia. Perciò fu accelerata la messa e interrogato
intorno a tutti i suoi bisogni dell’anima — dice la relazione — e animato alla
morte e a mostrar coraggio contro le tentazioni del comune nemico. Narrate le
sue colpe chiarendosene pentito, e baciando un piccolo crocifisso prestatogli
mentre trovavasi nelle carceri, protestò, lagrimando, di voler morire da vero
penitente. Fu quindi comunicato per viatico e sollecitato dai confrati perché
il polso gli andava mancando, «e alle volte — continua testualmente la
relazione — come insensato, non rispondeva alle interrogazioni dei Confrati,
procedendo ciò dal non aver gustato alcun cibo per un giorno e mezzo, fu ristorato
per forza».
Non potendo l’infelice reggersi in piedi e temendo avesse a
morire naturalmente fu duopo far venire la barella e una seggiola per portarlo
sul palco — «già reso semivivo e che la morte gli andava chiudendo le labbra,
non avendo altro spirito che quello di un flebile lamento». I confortatori non
cessavano di assisterlo suggerendogli ora uno, ora un altro atto di sommessione
e preghiera, che egli quasi automaticamente eseguiva, mentre s’avvicinava al
patibolo.
«Si era il popolo così affollato e stretto insieme quando
spuntò sulla piazza che, per vederlo, molti messero in compromessa la loro vita
perché stringendosi il popolo accorso per vederlo morire, sicché i birri fecero
tutta la loro forza per tenere indietro le persone, che si erano spinte verso
il palco e simile faceva il bargello di Roma che era a cavallo in mezzo alla
calca.»
«Il Maestro di giustizia si trovava per essere poco pratico
e di poco spirito confuso che non sapeva come maneggiare il paziente, che si
trovava quasi spirante, onde si era malamente imbrogliato e non sapeva
accomodarlo al ceppo, e benché avesse l’aiutante gli riusciva molto difficile
vedendosi e scorgendosi da tutto la sua inesperienza; onde dopo averle messa e
più volte aggiustata la testa, quale non era a giusto filo della mannaia la
quale gli tagliò un pezzo di mento: ma per rimediare presto prese il mannarino
(l’accetta) in mano e gli tagliò con questo il resto del collo che stava
attaccato ad un pezzo di ganascia; onde il popolo fece sì gran movimento e si
strinse tanto sotto al palco per lacerare il boia; ma furono presto gli
esecutori di giustizia a rimediare a questo tumulto, che per frenare l’ardire
del popolo e lo scompiglio fu necessario di mettere a tiro le armi come se si
dovessero adoperare contro quei tumultuanti. Allora fu che il popolo dando
addietro furiosamente per timore delle archibugiate, fecero cadere molte
persone che furono calpestate, e siccome il bargello si trovava ivi presente
per dar terrore di sé trovandosi sommerso nella mischia e non potendo uscire
restando sequestrato, cadutogli il ferraiolo ed il cappello fu lacerato dal popolo
e li birri con l’archibugio alla mano proseguivano a far stare indietro il
popolo dal palco.
«Destò però la morte del Rivarola gran compassione e per lo
strazio ricevuto dal carnefice e per essere stato veduto così malridotto
portare sopra il palco, un uomo quasi morto, perché questa giustizia, conforme
dissero alcuni, doveva essere fatta due o tre giorni prima. Ma il carnefice fu
carcerato e pagò la pena della sua inesperienza. Molti degli astanti presero la
spada ed il cappello e chi il ferraiolo ed alcuni sino la parrucca, quali cose
furono calpestate e ritrovate per terra sulla piazza di Ponte; quietato il
popolo essendo l’ora tarda, fu aggiustato il giustiziato in un cataletto, e
come il solito portato processionalmente al luogo solito di San Giovanni
Decollato, seguitato il cadavere da molta gente per conseguire l’indulgenza del
Santissimo Pontefice».
Santissimo davvero! Ma iniquo al pari della sua giustizia.
Non si può figurare lo sdegno di Mastro Titta
nell’apprendere dalla storia, i particolari orrendi di questa esecuzione, che
parrebbe incredibile se non fossero stati consegnati nella relazione ufficiale,
dalla quale abbiamo voluto riprodurla, senza aggiungervi, né frange, né chiose,
né commenti, essendo di per sé stessa abbastanza eloquente.
Giovanni Battista Bugatti fremeva di giustissimo sdegno e di
legittimo orgoglio, ad un tempo, ricordando la propria perizia ed abilità.
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