VII.
Un’impiccagione colle
maschere.
Eppure non fu soltanto il supplizio del Rivarola che riuscì
così straziante. Quando un condannato, dice l’Ademollo, moriva in carcere, la
sentenza eseguivasi sul cadavere, ma, ad evitare quanto fosse possibile questo
caso pei condannati in procinto di morte naturale, si affrettava il supplizio,
e si mandavano al patibolo anche moribondi, facendoli portare in una sedia
d’appoggio con stanghe da uomini mascherati e si tiravano sulle forche con
girelle. Gli uomini mascherati non erano gente col volto coperto di una
semplice maschera, ma vestiti proprio da arlecchini, pulcinelli, ecc. e
aiutavano in quel costume il boia a compire le sue opere.
L’abate Placido Eustacchio Ghezzi, che nacque nel
primo ventennio della seconda metà del secolo XVII — la data non è precisata —
cessò di vivere nel 1740, appartenne all’Arciconfraternita — tuttora
sussistente nella chiesa detta di Santa Maria degli Agonizzanti a piazza
Pasquino — lasciò scritto un Diario autografo, posseduto ora dalla Biblioteca
della Chiesa di Sant’Agostino nel quale sono menzionate e in parte descritte le
210 esecuzioni che ebbero luogo dal 1674 al 1739. Questo Diario è intitolato
precisamente così:
Libro di tutte le
Giustizie eseguite in Roma dall’anno 1674
à tutto l’anno 1739
con di più tutto quello che è su
cesso di notabile
nelli giorni
che sono state
eseguite; registrate dall’Abbte.
Placido Eustachio
Ghezzi, Confratello
della Venerabile
Arciconfraternita della SS. Nati
vità di N. S. Gesù
Cristo degli Agonizzanti
di Roma
Principiando dal
tempo di Papa Clemente
X dal quale ottenne
la sudd. Arciconfraternita
il Breve di esporre
il SS. ogni volta
che si eseguiva le
predette giustizie con indulgenza.
Qui giova avvertire che i condannati, recandosi al patibolo,
passavano di consueto innanzi alla Chiesa degli Agonizzanti e soffermavansi
alquanto per adorare il SS. Sacramento. Alla porta della Chiesa si affiggeva
una tabella col nome del condannato e l’indicazione del delitto. Appena finita
l’esecuzione si spegnevano i lumi, si riponeva il Sacramento, e toglievasi la
tabella. Per il centro di Roma era questo il segnale che tutto era fatto.
Quando l’esposizione si prolungava, era indizio che il condannato non voleva
acconciarsi alla morte colla confessione.
Da questo libro del Gherzi togliamo i particolari di
un’altra esecuzione, quella di Antonio Nicola d’Angelo, detto Sciarretta, che
fu portato semiestinto sulla forca e nondimeno «stentò molto a morire».
Eccoli:
«Sabato, 18 marzo 1689. Antonio Nicola d’Angelo, detto
Sciarretta, della Villa Palazzati, Diocesi di San Severino, impiccato di
mattina a Ponte Sant’Angelo per Grassatore, giovane di 25 anni, e
particolarmente per essere stato in casa del suo curato, per assassinarlo con
alcuni altri compagni, quali furono impiccati, e questo si rifugiò in Chiesa,
ma perché non capitò in mano della Corte, fu condannato in contumacia; s’intese
però dal Sant’Offizio, che quest’Antonio haveva proferito più volte derisioni
contro la Nostra Santa Fede; lo fece prendere in Chiesa, e lo ritenne per tre
mesi carcerato; nel fine dei quali lo condannò alla galera per cinq’Anni. In
questo mentre saputosi dalla Consulta essere questo catturato, lo domandò al S.
Offizio, il quale, terminato il suo processo, lo consegnò; fattasi pertanto la
ricognizione delle persone, fu condannato alla forca; doveva seguire la
giustizia tre giorni prima, ma perché nella giornata destinata N. S. volse per
Concistoro per il Decanato del Sacro Collegio; fu perciò trasportata a questa
giornata. Alle 4 ore della notte gli fu portata la citazione ad mortem,
al quale avviso diede un calcio all’anguinaia al Cursore, quale fu miracolo che
non morisse, et al Capitano delle Carceri con le manette diede in testa, e si
avventò anche verso li Confortatori, quali se non scappavano pativano qualche
disastro; ordinorno pertanto che fosse meglio ligato sicché gli furno messi li
Ceppi; e mentre si faceva questa operazione portò via con un morsico una polpa
di braccio ad uno sbirro. Diceva che erano matti, che Lui non doveva morire,
perché era stato preso in Chiesa, che non era esaminato, e che non doveva avere
altra pena, che quella assegnatagli dal Sant’Offizio; al qual effetto fu
mandato a chiamare anche il P. Commissario per capacitarlo. Quando li
Confortatori gli parlavano di conversione; gli rispondeva levatemi dal culo, e
quando gli dicevano che Christo era morto per noi, per redimerci da’ peccati,
rispondeva: Chi gli l’ha comandato? e diceva che S. Agostino haveva lasciato
scritto, che di cento pazienti non se ne salvava uno, che però lo lasciassero
stare che lui havrebbe lasciato il corpo al Boia e l’anima al Diavolo, per il
che, vedutolo così ostinato, furno fatti venire altri Confortatori più
provetti, ma tutto invano; fu chiamato il carnefice per vedere se si atterriva
con fargli mettere la corda al collo, e li carboni alle mani, ma tutto invano,
anzi, si stimò bene mettergli due manette, perché le prime le spezzò, furono
mandati a chiamare li Religiosi, e particolarmente il P. Galluzzi Gesuita, al
quale con l’aiuto del Signore riuscì convertirlo verso le ore 16, intese la sua
Messa e si communicò. Finalmente, prolongata più di due ore la giustizia, uscì
dalle Carceri ad ora di mezzogiorno, e fu strascinato sopra la carretta, perché
si era indebolito, et è da considerarsi, che appena haveva spuntata la barba, e
la mattina l’haveva più longa di un dito. Andiede al patibolo con li P. P.
Gesuiti predetti a piedi avanti la carretta, e dietro andavano due mascherati
con maschere di traccagnino, et abito da pulcinella inferraiolati con girelle e
corde sotto per tirarlo sopra il patibolo, se bisognava.
Arrivato alla Cappelletta si riconciliò, et arrivato alla
scala, non potendola salire, gli aiutanti gli mettevano i piedi nelli piroli,
et il Boia lo tirava di sopra, essendo quasi morto, ma gettato dalla schala,
stentò infinitamente a morire: quasi che il Popolo cominciava a tumultuare. Non
passò avanti la nostra Chiesa, perché l’ora era tarda verso le 18, ma dalla
medesima gli furono fatti li soliti suffraggij. Si seppe poi haver commesso il
suddetto 15 omicidij».
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