VIII.
Don Gaetano Volpini.
Il giorno 3 febbraio 1720, essendo di sabato ed entrando il
Carnevale, la giustizia di Sua Santità Clemente XI per offrire al popolo romano
un po’ di svago pensò bene di mandar a morte l’abate don Gaetano Volpini, altro
degli invisi fogliettanti, precursori degli odierni giornalisti.
Era il Volpini di Piperno, figlio di un macellaio, nipote
d’un canonico e fratello d’un giustiziato. Aveva soli ventidue anni e sette
mesi ed era dotato di molta vivacità e spirito arguto. Venuto in Roma a
studiare dall’abate Paracina, si trovò solo col conte di Sisindolf, gran
cancelliere dell’Imperatore, col quale si legò in amicizia. Partendosi questo
da Roma incaricò il Volpini di inviargli notizie della città e questi segnando
l’impulso naturale del carattere inclinevole alla satira, approfittò di questa
contingenza per far delle critiche acerbe e pungenti contro la corte papale e
giunse per fino a scrivere de’ brevi apocrifi.
Un giorno mentre leggevansi alla Corte imperiale i foglietti
del Volpini, capitò il sovrano in persona e domandò la cagione della ilarità,
in preda alla quale trovavansi gli astanti. Risaputala volle egli stesso
leggere i foglietti e se ne mostrò inorridito. Mandò quindi tosto a chiamare il
Nunzio, monsignor Spinola, al quale comunicò gli scritti del Volpini. Di più
fece ordinare al suo ambasciatore, Cardinale di Sirotembach, di non accordare
più al satirico fogliettante la sua protezione e di lasciarlo fare imprigionare
se così piacesse alla pontificia autorità.
Il Nunzio non appena avuto il piego degli scritti del
Volpini li mandò al Cardinale Paolucci, Segretario di Stato, il quale li rese
tosto ostensibili al pontefice. Presane cognizione papa Clemente XI mandò a
chiamare il Fiorelli Luogotenente Criminale dell’Auditore Camerale e si stabilì
la cattura del Volpini, la quale ebbe luogo in una farmacia prossima agli
Agonizzanti.
Nel contempo fu arrestato il maestro di scuola di faccia
all’Apollinare e un altro prete che pur si trovava e coi quali il Volpini
coabitava. Altri furono parimenti incarcerati, ma poi rilasciati tutti, tranne
il figlio del farmacista a Santa Maria in Campo Carleo, il quale copiava i
foglietti del Volpini e li andava leggendo su tutti i pubblici ritrovi di Roma,
aggiungendovi de’ fronzoli per proprio conto. Operò questa importantissima
cattura il bargello del Vicario, Silvestrucci, il quale lo condusse in
Campidoglio.
Incoato il processo fu deputata a discutere la causa una
congregazione speciale, dalla quale fu condannato. La sentenza avrebbe dovuto
eseguirsi subito, ma la mancanza d’un carnefice, la fece procrastinare fino
all’epoca suindicata.
Quando nella notte gliene diedero partecipazione rispose:
— Me l’aspettavo.
E quando il guardiano lo tolse dalla segreta dicendogli che
gli era stata commutata la pena col perpetuo esilio, sclamò:
— Anche questa burla, dopo tanti strazi!
Fino alle 22 ore non volle saperne da confessarsi e rifiutò
il Cappellano della Misericordia. Poi domandò del padre Angelo Carmelitano di
San Martino. Gli risposero ch’era morto. Il Volpini si mostrò dispiacentissimo
e chiese il gesuita padre Galluzzi, il quale accorse prontamente e lo confessò.
Si lagnò con lui d’essere stato tradito, e che si fossero intercettate le
lettere che scrivevano l’Imperatore e il conte Sisindolf per la sua
liberazione.
Prima d’uscir dalle carceri volle essere vestito nobilmente
da Abate col cappello alzato e ciò gli fu benignamente concesso!
Scese a piedi dal Campidoglio fino al piano dal lato del
palazzo Caffarelli, salutando per via tutti quelli che incontrava, e
altrettanto fece quando fu salito sulla carretta. Giunto al patibolo volle gli
fosse levata la benda, per vedere come doveva morire e ottenutolo, dopo aver
ben guardato, disse:
— Questo è un supplizio da bovi non da esseri umani. Gli
eretici condannati dal Santo Uffizio per aver detto male di Dio, dopo aver
fatto onorevole ammenda con pubblica abiura, vengono assolti, io per aver detto
male del papa dovrò morire.
Fu necessario chiamare di nuovo il padre Galluzzi per
persuaderlo a rassegnarsi al suo destino. Questo gl’impartì l’assoluzione;
quando il carnefice afferratolo per gli scarsi capelli che aveva al disotto
della parrucca lo trascinò per forza sotto il patibolo, l’aiutante gli pose un
ginocchio sulla schiena e caduta la testa la mostrò al popolo, affollato, ad onta
del tempo cattivo, perché il Volpini era uomo assai noto.
Fu compassionato da tutti, dice il Ghezzi, perché si vide
morire così giovane e così generosamente.
E il suo sangue, aggiungiamo noi, lorda d’un onta indelebile
un’altra pagina della trista storia dei papi, e quella in ispecie di Clemente
XI.
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