III.
Un bargello e due guardie
assassini.
L’anno 1801 fu per me fecondo di lavoro fin dal suo
esordire, giacché incominciai coll’impiccarne e squartarne tre il 19 gennaio ed
otto giorni dopo dovetti ripetere l’operazione medesima sopra quattro
delinquenti. Procediamo per ordine.
Da parecchio tempo le aggressioni di pubbliche corriere e di
vetture private sulle strade conducenti a Roma, s’erano fatte frequentissime e
sempre più ardite. Ma per quante indagini si facessero non si riusciva mai a
scoprirne gli autori né ad averne le traccie.
Si supponeva l’esistenza di una banda di masnadieri, la
quale si riunisse per compiere i misfatti, quindi si sciogliesse tornando i
suoi componenti agli usati lavori dei campi o ad altre funzioni. I più esperti
esploratori erano stati inviati nelle campagne e nei paesi circonvicini; ma per
quanto battessero quelle e cercassero di raccogliere notizie in questi, non
venivano a capo di nulla.
Un bel mattino giunse a Roma la notizia di una grassazione patita
sulla strada da Baccano a Calcata, da un colonnello napoletano, il quale
recavasi ad Ancona, per affari diplomatici, munito di credenziali del suo
Sovrano, e accompagnato da suo fratello e da un servitore.
Il fatto era avvenuto così.
Ad un miglio circa dell’Osteria del Pavone, presso Baccano,
al sopraggiungere della carrozza di viaggio, che portava il colonnello ed i
suoi, sbucarono da una siepe tre individui. Quello che pareva il capo fermò i
cavalli ed ordinò al vetturino di scendere da cassetta. Nel frattempo altri due
giovanotti imberbi si presentarono agli sportelli del legno e spianando i
fucili intimarono ai viaggiatori di consegnare i denari e gli oggetti preziosi
che avevano.
Il colonnello che si teneva in petto una discreta somma in
argento e desiderava salvarla, rivoltosi ai masnadieri, disse loro:
— Io non ho denaro sopra di me, frugate nel cassetto della
carrozza e ne troverete. I masnadieri così fecero e presero cinque o sei scudi
di rame; ma poi si accorsero che il colonnello teneva una mano sul petto e che
questo era rigonfio.
— Datemi quel denaro che cercate di nascondere in seno o vi
ammazzo — gli intimò il capo-banda spianandogli contro il pistone di cui era
armato.
Il colonnello allora impaurito trasse dalla tasca in petto
dell’abito una cinquantina di scudi che teneva e li consegnò ai grassatori, i
quali gli tolsero pure il cappello a tre punte gallonato d’oro, con una nappina
dello stesso metallo, sulla quale era la sigla F. R. (Ferdinando Re).
Al fratello tolsero poche monete, le fibbie delle scarpe e
una sottoveste di seta che portava.
Al vetturale che guidava la carrozza tolsero pure i pochi
spiccioli che possedeva. Il domestico invece fu lasciato in pace. Probabilmente
avevano preveduto che non possedeva il becco d’un quattrino.
Quindi vennero lasciati proseguire il viaggio.
Giunti a Baccano, il colonnello mandò subito un rapporto del
fatto al governatore di Monte Rosi e questi lo trasmise al governo centrale in
Roma, il quale ordinò ad un bargello di partire con alcuni birri di campagna
pel teatro del delitto, il che fu subito fatto.
Giunto il bargello a Calcata, si seppe che la notte stessa,
erano state commesse, evidentemente dalla medesima banda due altre aggressioni.
La prima contro il conduttore della corriera postale fra Roma e Guarcino, cui
erano stati presi pochi paoli; la seconda contro alcuni mulattieri, ai quali
erano stati tolti i ferraioli e le robe che avevano nelle bisaccia, i pochi
denari; e a uno d’essi i bottoncini d’oro che portava all’orecchie, a un altro
le scarpe nuove.
Assunte alcune informazioni il bargello co’ suoi birri andò
subito ad arrestare in Calcata il suo collega, bargello del paese, che godeva
pessima fama ed era indiziato di aver rubato di notte al farmacista di Calcata
un mulo, mandato poi a vendere in piazza Montanara a Roma da’ suoi complici. E
col bargello di Calcata, Giuseppe Zuccherini, arrestò due guardie da lui
dipendenti, Giuseppe Sfreddi, romano, già contumace per altri reati, e Giacomo
D’Andrea, veneto, già fornaio disoccupato, e come l’altro assunto in servizio
dallo Zuccherini.
Il bargello di campagna, trovò i summenzionati in possesso
di una bisaccia, contenente tutta quanta la re furtiva. Ma
nell’interrogatorio che gli arrestati subirono in Calcata, dissero che quella
bisaccia l’avevano tolta la notte stessa a tre malandrini, sorpresi sulla
strada, coi quali s’erano colluttati, e che erano poi fuggiti lasciando la
bisaccia sul terreno. Quanto alle scarpe nuove del mulattiere, che il D’Andrea
s’era messe, questi si scusò dicendo, che non potendo camminare colle proprie,
tanto eran rotte e malconcia, aveva prese provvisoriamente quelle dalla
bisaccia.
Tradotti a Roma e sottoposti a nuovi interrogatori, il
D’Andrea, giovane ventenne appena, confessò tutto: gli altri negarono
recisamente. Ma fu vana opera. Convinti del reato, vennero condannati alla
forca ed allo squartamento, anco per dare una soddisfazione al re di Napoli,
Ferdinando di Borbone, che strepitava per averla.
È impossibile descrivere la densità della folla, che s’era
agglomerata in piazza del Popolo la mattina del 19 gennaio 1801, quando eseguii
la sentenza. Scesi dalla carretta coi confortatori, la gente ci circondò d’ogni
parte e a stento i soldati poterono aprirci il varco per salire sulla
piattaforma del palco. Ma i condannati erano solidamente legati colle mani
dietro le reni: i cappuccini stavano loro intorno e sarebbe riuscito vano
qualsiasi tentativo di fuga.
Sarebbe inutile ripetere i particolari dell’esecuzione, che
non offrì nessuna varietà. Morirono coraggiosamente e cristianamente, dopo aver
chiesto perdono dei loro delitti. E questo, come sempre accade, conciliò loro
le simpatie della folla, ammirata dal franco portamento.
— Che peccato — mormoravano specialmente le donne — così
giovani!
I loro resti rimasero appesi al palco tutta la giornata.
Solo nella notte vennero ritirati e il patibolo fu disfatto.
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