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Anonimo
Mastro Titta, il boia di Roma

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  • Appendice     Le giustizie a Roma
    • XII. La tortura: Corda e Veglia.
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XII.

La tortura: Corda e Veglia.

 

Ma ben più terribili e della frustazione ed anco della morte stessa era la tortura, che si applicava ai giudicandi per estorcere loro la confessione di veri o supposti delitti.

Il padre Labat, un domenicano che viaggiò l’Italia in qualità di provveditore del Santo Uffizio ed assistè alle torture così dette della Corda e della Veglia, le ha descritte de visu e noi traduciamo le sue note, in argomento, dal testo francese, recato dall’Ademollo:

«S’usano in Italia parecchi sistemi di tortura. Io ne ho veduti applicare di due sorta.

La più comune è la corda. La chiamano la regina dei tormenti. E difatti è dolorosissima. Un uomo vi muore se lo si lascia sottoposto troppo a lungo; ne uscirebbe storpiato se si trascurassero le precauzioni necessarie, prescritte onde evitare tali conseguenze.

Prima d’applicarla i medici e chirurghi visitano accuratamente il paziente per vedere se non ha né aperture, né ernie, né altri difetti congeneri, o disposizione a produrne, perché in questi casi si applica una tortura di altro genere, per evitare il pericolo che gli esca l’intestino e che soccomba per lo strangolamento che ne seguirebbe.

Trovatolo capace a subire la corda, il disgraziato vien condotto nella camera della tortura.

Il giudice accompagnato da alcuni assessori, dal cancelliere, dai medici e dai chirurghi, lo interroga sui particolari del fatto che si vuole chiarire, sia che l’imputato sia confesso o persista nella negativa la si applica. Nel secondo caso per avere una confessione di sua bocca; nel primo alfinché confermi tra i tormenti, ciò che ha confessato negli interrogatorii ciò imponendo la legge per lo accertamento della verità. E trattandosi di semplice conferma i tormenti sono più brevi e più miti.

Si spoglia l’imputato, non lasciandogli di tutti i suoi indumenti che i calzoni. Il bargello aiutato dagli sbirri, gli prende la mano sinistra e gli volge dolcemente il braccio dietro il dorso, mentre colla destra gli palpeggia la spalla manca all’articolazione, come per avvezzare la giuntura al movimento che le si fa fare. Quindi si fa mettere il piede sinistro del torturando contro il muro, in modo che possa sostenersi senz’essere fatto a brani se lo si spingesse con soverchia violenza. Un birro prende allora il braccio destro del paziente e lo mantiene nella posizione in cui l’ha messo il bargello, mentre il bargello stesso avendogli fatto stendere il braccio dalla sua parte lo avverte di abbandonarvisi completamente e maneggiando ancora l’articolazione della spalla sinistra, prende colla propria destra la destra del torturando e gli rovescia d’un tratto il braccio indietro.

È qui che si chiarisce l’abilità del bargello, perché se le braccia del paziente vengono rivoltate con saggio accorgimento soffre meno e non corre il pericolo di rimanere storpiato.

Rivoltate le braccia sul dorso, il bargello gli lega insieme i due pugni, fra la mano e l’articolazione dell’avambraccio. Si adopera a quest’uopo una legatura fortissima e morbida ad un tempo, composta di parecchi grossi fili, o di tre piccole cordicelle flessibilissime avviluppate in un involucro di pelle tenera e pieghevole, che formano una corda di nove o dieci linee di diametro; poi attaccata all’anello che ha formato con questa legatura la corda grossa, destinata a tener sospeso in aria il paziente, abbraccia questo a mezzo le coscie e lo solleva, mentre gli sbirri tirano la grossa fune passata sopra una puleggia infissa sul soffitto e lo abbandonano nel vuoto, colla maggior delicatezza possibile, affinché riesca meno doloroso il dislocamento delle spalle e non ci sia pericolo di storpiarlo.

In quel momento il torturato soffre orribilmente, perché il peso del corpo disloca le spalle e gli rompe le braccia al di sopra del capo. Egli deve rimanere in siffatta posizione un’ora, e menoché non cada in uno stato di debolezza, dichiarato pericoloso dai medici, o che per la confessione della sua colpa e la promessa di ratificare la confessione stessa fuori dei tormenti, i giudici non abbrevino la durata del supplizio.

Ci sono stati pur non dimeno degli imputati, e ne fui io medesimo testimonio, che si beffarono della tortura, dei giudici e dei testimoni, perché erano così ben preparati che provavano poco o nessun dolore. Bisogna però avere per ciò delle reni molto gagliarde. Un tale, sentendo il bargello che lo teneva sollevato, abbandonare la corda fece uno sforzo per modo che riuscì a collocarsi colla testa in basso e i piedi in alto, senza dislocazione delle spalle e per tal modo soffriva poco o punto. Tuttavia sudava molto e di quando in quando emetteva de’ gridi, per farsi credere straziato. Così potè rimanere sospeso per un’ora senza confessar nulla. I giudici compresero che erano stati gabbati e dissero al bargello che egli aveva aiutato il paziente a prendere quella posizione. Il bargello rispose che egli aveva fatto onestamente il suo dovere e si lagnò d’essere stato sospettato d’avervi mancato. L’ora era intanto passata e si dovette distaccarlo, né molto si ebbe a fare per rimettergli a posto le braccia poiché non erano state slogate. Io credo che quel galantuomo avesse imparato il suo mestiere da un bravo maestro. Perché non ce ne dovrebbero essere, come in Ispagna, per applicarsi la disciplina? Il giorno seguente si ripetè l’esperimento, ma con esito eguale e dopo mezz’ora dovette essere distaccato, non potendosi prolungare il supplizio oltre questo spazio di tempo, la seconda volta. Così se la scappò per mancanza di prove.

Ma siccome tutti non hanno la sessa robustezza di reni e la stessa disinvoltura, coloro che subiscono codesta tortura penano molto più che non si sappia immaginare. Dopo pochi minuti sono inondati di sudore e hanno frequenti svenimenti. Si richiamano in sensi soffondendo loro il viso con un po’ d’acqua della Regina d’Ungheria, avvertendoli il bargello di non far movimenti, i quali facendo oscillare la corda, produrrebbe loro più acuti dolori.

Benché questa tortura sia molto tormentosa si usa tutta l’umanità possibile verso coloro che devono sopportarla. La camera in cui la subiscono è ben chiusa, i giudici, i medici e i tormentatori, rimangono silenziosi e non fanno il più piccolo movimento. Si compiange il disgraziato e per tema che il movimento dell’aria aumenti le sue pene si prendono tutte le precauzioni; onde il paziente goda della calma più completa.

La tortura chiamata la vegliacontinua il bravo domenicanoprende questo nome perché si suppone che colui cui è applicata per la durata di dodici ore complete, non possa dormire, a cagione degli acuti e continui dolori che soffre. Giudicatene.

L’imputato viene spogliato tutto nudo e rasato, gli si attaccano le braccia dietro il dorso, come abbiamo veduto per la corda. Lo si fa cadere per terra e gli si legano i piedi ad un lungo e grosso bastone, distaccati un dall’altro quanto più è possibile. Quindi tre o quattro uomini lo sollevano all’altezza di quattro piedi; mentre essi lo tengono disteso, si ferma la corda che gli lega le braccia ad un gancio, infisso nel muro a circa sei piedi d’altezza, e si mette sotto le natiche del paziente un tronco di 4 piedi d’altezza, in mezzo al quale sorge un cavicchio alto quattro o cinque pollici, largo da nove o dieci linee, sul quale si appoggia l’osso sacro del paziente: è sovr’esso che deve riposarsi senza muoversi; è sovr’esso che deve gravare il suo corpo per tutto il tempo che dura la tortura. S’egli scivola giù da questo perno, sente subito i dolori della corda che gli disloca le spalle, perché non ha sostegno: lo si rimette tosto su questo doloroso cavicchio, ove deve tenersi in equilibrio il corpo, con sofferenza indescrivibile. Si dice che le prime tre o quattro ore sono le più difficili a sopportarsi, perché i sensi trovandosi ancora nella piena vigorezza, sono più suscettibili del dolore, di quanto si trovano affievoliti, prostrati, ottusi, per adoperare un termine tecnico. Di consueto in queste quattro prime ore il paziente si scarica e questo gli serve di sollievo; se non lo fa c’è da temere per la sua vita.

Qualunque cosa gli accada in quello stato di dolore non gli si porge altro sollievo, che alcune goccie d’acqua della regina d’Ungheria, soffiatagli sul volto, dopo averlo avvertito, affinché non faccia de’ bruschi movimenti per la sorpresa, i quali aumenterebbero le sue pene.

In tale stato suda abbondantemente per effetto della contrazione in cui si trova e dei dolori che soffre. Il sudore della parte superiore della testa gli cala sulle nari e si dice che gli cagioni una inquietezza e un prurito insopportabile.

 

 




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