XIII.
La ghigliottina.
Un capitolo a parte merita la ghigliottina. Sarebbe
importante a questo proposito rintracciare la storia di questo supplizio in
Francia, dove la macchina ha preso la denominazione che le è rimasta, grazie
alle celebri parole pronunziate dal dottor Guillotin all’assemblea nazionale,
nella seduta del 1° dicembre 1789: “Moi avec ma machine je vous fais
sauter la tête d’un clin d’oeil, et vous ne souffrez pas” cioè “Io colla mia macchina
vi faccio saltar la testa in un batter d’occhio senza che abbiate a soffrire”.
La espressione ma machine ha fatto credere che il Guillotin sia stato
l’inventore della macchina. E per colorire la leggenda si disse anche essere
egli stato uno dei primi condannati che ne fecero l’esperimento, anzi
precisamente il primo.
Nulla di questo è vero. Il dottor Guillotin, medico
nato a Secintel nel 1738, morì nel 1814. Fu umanitario e filantropo durante
tutta la vita. Imprigionato nel tempo del Terrore, riebbe la libertà il 9
termidoro.
Il Guillotin non inventò la macchina, alla quale ha dato,
senza sua colpa né merito, il suo nome, e non fu per nulla ghigliottinato.
Anzi, sopravisse lungamente al tempo in cui l’uso della ghigliottina fu, per
così dire consacrato in Francia dalla qualità e dalla quantità delle vittime.
Mal si spiega per altro come l’errore circa l’inventore e la novità della
macchina prendesse piede, non coll’andar del tempo ma subito. Il contemporaneo
Alessandro Verri scrive nelle sue Vicende memorabili dal 1779 al 1801
(Milano e Napoli 1858, pag. 109): Si stancavano i manigoldi e però un medico di
Parigi acquistò perpetua infamia inventando una macchina, la quale troncava il
capo speditamente; questi fu Guillotin, dal quale trasse nome questo strumento,
ghigliottina, invenzione applaudita più di qualunque ritrovamento
salutare di medicina e posta in uso universale per tutta la Francia.
La verità storica reca invece che la macchina era cosa
vecchia, e si trovano ricordi che ce ne mostrano l’uso anche in Francia più di
un secolo prima del 1789. È certo difatti che nel 1637 fu adoperata a Tolosa
nel supplizio del duca di Montmorency, secondo racconta il Puysegur nelle sue Memorie,
scrivendo:
«In quel paese si servono d’una mannaia, che è incastrata
fra due travi, e quando la testa del paziente è posata sul ceppo, si allenta la
corda che regge la mannaia, questa discende e spicca la testa dal busto.»
Abbiamo memorie molto più antiche per la ghigliottina in
Italia; volendo se ne potrebbe seguire la storia nei supplizi celebri dal
principio del secolo decimosesto in poi, per lo meno. È da sapersi
primieramente che diverse incisioni del detto secolo rappresentano uno
strumento di supplizio nel quale è facile ravvisare il primitivo modello della
macchina, che poi prese nome dal deputato francese. Se ne trova uno nel libro
delle Simbolicae questiones de universo genere di Achille Bocchi, 1555,
libro I, Symb. XVIII. Magnanimus sanctis paret vir legib. ultro, e ne
citiamo altre anteriori, una di Giorgio Pentz, morto nel 1550, ed altra di
Federico Aldegrave o Aldegraver con data 1553, le quali rappresentano il
supplizio del figliuolo di Tito Manlio.
Molto più delle incisioni valgono per altro le memorie
scritte, e noi abbiamo memoria certa di un ghigliottinato in Italia nel 1507.
Fu questi Demetrio Giustiniani, di Genova, mandato a morte da Luigi XII re di
Francia.
Il supplizio di costui ci viene descritto nei più chiari
termini dal cronista francese Jean D’Anton, che lo vide, secondo dice egli
stesso, scrivendo: qui lors étois au dit lieu.
Ecco la descrizione:
«Ma avvenne che all’indomani, che fu proprio il
giorno dell’Ascensione di N. S. in punto alle ore 9 del mattino fu dai
Marescialli condotto sino alla Piazza del Moro e fatto salire sul palco d’onde
volle parlare, per dire alcun che al popolo di Genova, incominciando un
racconto. Il Prevosto non volle dargli il tempo di finirlo. Demetrio
capacitatosi che gli sarebbe stato impossibile di farsi udire, mandò un grande
sospiro, ed alzando gli occhi, colla faccia pallida e sparuta, le braccia
consente al seno stette così parecchio tempo, intanto il boia gli bendava gli
occhi. Quindi si pose da se stesso in ginochio e stese il collo sul ceppo. Il
carnefice prese una corda alla quale era attaccato un grosso blocco di legno,
munito di una mannia, scorrente fra due pali. E lasciando scorrere la corda
fece cadere il blocco tagliente fra la testa e le spalle del paziente, in modo
così rapido, che il capo cadde da una parte e il corpo dall’altra. La testa fu
messa in cima ad una lancia e portata sulla torre della Lanterna del modo col
viso rivolto alla città. Il corpo giacque sul palco per tutta la giornata e non
ebbe sepoltura che alla sera.»
Dal principio del secolo decimosesto saltando alla fine e da
Genova a Roma, troviamo la ghigliottina in un altro processo celebre. Beatrice
Cenci e la sua matrigna Lucrezia Petroni nel 1599 furono decapitate con la
mannaia, cioè, come direbbesi oggi, ghigliottinate. Infatti dell’esecuzione di
Lucrezia nella ben nota relazione del supplizio dei Cenci si legge: «Non
sapendo come dovesse accomodarsi domandò ad Alessandro primo boia cosa avesse
da fare, e dicendole che cavalcasse la tavoletta del ceppo e si
stendesse sopra di quella, nel che fare per la mole del corpo, ma più per la
vergogna durò grandissima fatica, ma molto maggiore fu quella di accomodarsi
con il collo sotto la mannaia, perché aveva il petto tanto rilevato che non
poteva arrivare a porre la gola sopra quel legnetto in cui cade il ferro della
mannaia, a cagione che, non essendo la tavoletta più larga di un palmo, non era
capace per l’appoggio delle mammelle.» E di Beatrice: «Subito, quasi fosse
informatissima, cavalcò la tavola e pose il collo sotto la mannaia.
Affrettò questo suo ultimo atto, e questo forse causò la tardanza del colpo.»
Se il colpo non poteva affrettarsi come si era affrettata la paziente, è chiaro
che non doveva venire dal braccio del boia, ma bensì dal congegno di una
macchina.
Passiamo a Napoli, quarant’anni più tardi. Negli Avvisi
di Roma del febbraio 1640 si legge in data di Napoli che era già posta la
mannara in pubblico per doverglisi tagliare la testa. Ma questa mannara
era una ghigliottina? Quantunque le espressioni degli Avvisi accennino
una montatura, vi potrebbe essere qualche dubbio in proposito,
specialmente quando si legge nei giornali dello Zazzera (6 luglio 1618): «Non
ritrovandosi boia, dicono, che facesse fare l’offizio ad un chiacchieraro
(macellaro) con la mannaia della carne.»
Ma ogni dubbio è tolto dal racconto sincrono di un altro
supplizio celebre, quello del principe di Sanza nel 13 gennaio 1640. «È giunto
alla fine del luogo (Piazza del Mercato) salì il doloroso palco. E prostratosi
ai piedi del confessore a dir gli scrupoli occorsigli di nuovo e ricevuta
l’assoluzione amplissima, non mancando quei Padri allora far l’ultimo sforzo,
l’obbediente principe fatta una bocca a riso, prontamente pose il collo al
ceppo; ma ritirollo tosto: credesi perché gli facesse nausea quel ceppo troppo
lordo di sangue, perché sguarnito era di lutto e d’ogni altra cosa il ceppo ed
il palco. Al che uno dei Padri rimediò subito con porre sopra il legno un
fazzoletto. E rincorato il Principe con maggior animo e più ridente ripose di
nuovo la testa sul ceppo. E nello stesso punto tagliato dal manigoldo il
laccio, precipitò la mannaia sul collo e divise dal busto il capo, dalla
cui bocca furo l’ultime parole: perdono, misericordia.
Ecco dunque fino dalla metà del secolo decimosettimo, il
supplizio con la mannaia quale lo trovò al principio del secolo successivo il
padre Labat, che nel suo viaggio in Italia descrive la mannaia come una
macchina veramente perfezionata. Notizie consimili si trovano anche in un altro
viaggio in Italia dal 1736 al 1745, egualmente francese ma anonimo. Poiché i
francesi parlano della macchina come cosa per essi nuova, bisogna dedurne che
la doloire descrita dal Puységur pel supplizio del Montmorency nel 1632
fosse andata del tutto in disuso in Francia, quantunque sia certo che prima
della rivoluzione uno dei privilegi dei nobili era quello di essere, in caso di
condanna a morte, decapitati, supplizio più nobile della forca, riserbata ai
condannati di origine plebea e che dava al supplizio un carattere infamante.
Era così anche in Italia, e specialmente nello Stato
Ecclesiastico ove oltre la forca usava il rogo, lo squarto, la mazzolatura con
variazioni diverse a seconda dei casi.
In Francia nel 1789, il principio d’uguaglianza dinanzi alla
legge doveva portare naturalmente l’uguaglianza dinanzi al castigo. Il dottor
Guillotin, filantropo ben noto, sottopose la questione all’Assemblea
costituente, riassumendola in due punti; euguaglianza nel supplizio,
abbreviamento della sofferenza. Nella seduta del 1° dicembre svolgendo in due
articoli la sua proposta, indicava come mezzo più pronto e meno barbaro di
supplizio, qualunque fosse la condizione sociale del colpevole, venne approvata
ad unanimità. Fu nella discussione del secondo articolo che il dottor
Guillotin, ribattendo le obiezioni con insistere nel dovere di risparmiare al
condannato tutto ciò che ne potesse prolungare e incredulire il supplizio,
pronunziò le famose parole, profetiche senza saperlo per molti dei presenti, i
quali le accolsero con uno scoppio d’ilarità prolungata. Ma dicendo ma
machine, il dottor Guillotin alludeva semplicemente al sistema della
decapitazione mediante una macchina, senza per nulla accennare un meccanismo
determinato.
Di fatti l’assemblea approvò soltanto la decapitazione con
un mezzo meccanico in genere. Furono nella discussione indicati vagamente
alcuni strumenti di supplizio in uso dei tempi andati in diversi paesi, ma
nulla rimase determinato circa il meccanismo da adottarsi per la Francia. Ciò
nonostante le parole, ma machine, del dottor Guillotin ebbero subito
un’eco nelle canzoni popolari. Prima che la macchina fosse trovata ed
approvata, la canzone parigina la battezzò col nome di Guillottine.
Di qui l’errore comune passato anche nella storia.
Prima che la macchina fosse definitivamente scelta,
trascorsero circa trenta mesi. Il Codice Penale, un articolo del quale, votato
sulla proposta di Lepelletier de Saint-Fargeau, portava che qualsiasi
condannato a morte sarebbe decapitato, venne adottato nel 21 settembre 1791.
Restava sempre a cercare e scegliere il modo ad hoc; scartata da tutti
la decapitazione colla sciabola, che faceva orrore perfino al ministro
Duport-Dutertre.
Per tale oggetto il Comitato si rivolse al celebre dottor
Louis, segretario della Facoltà di chirurgia, chiedendogli un rapporto nel
quale fossero ricercati ed indicati i mezzi più acconci per la decapitazione la
più rapida e in tutte le regole.
La relazione del dottor Louis presentata
all’Assemblea il 20 marzo 1792, indicava una macchina allora in uso in
Inghilterra, la quale non era altro che quella usata in Italia da quasi tre
secoli e neppure perfezionata, poiché il Louis dimostrava necessari molti
miglioramenti.
Meglio istruito del Louis, il dottor Guillotin aveva sempre
indicato come mezzo di esecuzione la vecchia macchina italiana, il cui uso in
alcuni luoghi durava anche in quel tempo. Difatti nel libro del senatore
Gozzadini: Giovanni Pepoli e Sisto V, troviamo un ricordo preso dal
libro dei giustiziati in Bologna, nel 1791 il trovato Guillotin non
esisteva; la macchina che si chiamò ghigliottina fu messa in uso in Francia
soltanto nel 25 aprile 1792 sul collo di un brigante, di nome Nicola Giacomo
Pelletier.
La Cronique de Paris l’indomani dell’esecuzione
diceva: «La novità di questo supplizio ha considerevolmente ingrossato la folla
di coloro che una curiosità barbara conduce a questo triste spettacolo. La
prontezza colla quale essa colpisce il colpevole è pure nello spirito della
legge, la quale può essere severa, ma non deve mai essere crudele.»
È notevole che manca la denominazione di Ghigliottina.
Sul principio la nuova macchina fu chiamata anche Luisette e grosse
Luison dal nome del suo non inventore, ma perfezionatore, il quale essendo
morto nel 20 marzo 1792 ebbe la fortuna di non vedere l’uso che se ne fece. Il
buon Guillotin invece fu condannato a vederla infierire e sotto il suo nome.
Non si sa che egli protestasse mai contro tale
denominazione, ma non può a meno di aver lamentata la triste celebrità
appioppatagli quasi in punizione di aver egli preso l’iniziativa umanitaria che
abbiamo veduto sopra.
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