V.
Lo stupro d’una
vergine.
Il fatto del Puerio mi richiama alla mente un altro delitto,
nel quale la foia erotica, la libidine dei godimenti sensuali ebbe parte
precipua e che condusse il reo nelle mie mani. E poiché la memoria in questo
momento mi soccorre meravigliosamente, tanto da ricordarmi i più minuti
particolari, interrompo l’ordine cronologico delle mie esecuzioni per narrarlo
qui e descriverlo.
Viveva in città di Castello, nei primi anni del secolo un
tal Francesco Conti, giovinotto aitante della persona, appartenente a famiglia
d’agricoltori dei dintorni agiata, ma non ricca, che mandava a vendere in città
i prodotti delle sue coltivazioni, erbaggi, frutta, derrate di vario genere.
Francesco che aveva abitudini dissipate e amava poco la vita
campagnuola, ottenne dai suoi di trasferirvisi e di aprire un negozio per lo
spaccio delle loro merci. E quivi cominciò a darsi alle gozzoviglie ed a
contrarre relazioni con facinorosi e farabutti d’ogni specie.
Fra le pratiche del negozio del Conti, era una
leggiadrissima giovinetta, orfana di madre, alla quale il genitore lasciava la
gestione dell’azienda domestica, di nome Elvira Fontana. Costei si recava ogni
giorno a far la spesa, accompagnata da una fantesca, e si tratteneva spesso a
discorrere col Conti, ch’era un bel giovanotto dalle forme erculee, dal colore
olivastro pallido, dagli occhi neri fiammeggianti, dalle labbra carnose e
sensuali, fra le quali intravedevansi, quando sorrideva, denti piccoli e
bianchi.
L’umor faceto, le gaie proposizioni e i modi cortesi del
bottegaio piacevano alla giovinetta; ma era dessa ben lontana dal supporre
quali strani pensieri egli mulinasse nel cervello, quando posava gli sguardi
avidi sopra di lei, e fu ben sorpresa, quando dai complimenti usuali, Francesco
passò ad espressioni molto più esplicite e dirette.
Un giorno mentre la fantesca era uscita dal negozio per un
bisogno accidentale, il Conti trasse l’Elvira con un pretesto in fondo al
negozio e, cingendole la vita con ambe le braccia, la baciò e ribaciò
freneticamente sulle labbra, dicendole:
— T’amo! T’amo, e devi esser mia a qualunque costo.
La servente tornò in tempo e non s’accorse, o non volle
accorgersi, del rossore che avvampava le gote della fanciulla.
Elvira all’indomani mutò l’ortolano, né più tornò da
Francesco Conti; ma si guardò bene di raccontare l’accaduto a chicchessia.
L’ardito giovanotto tentò di riavvicinarla; ma non essendovi
riuscito, pose il cuore in pace e s’ingolfò sempre più nella sua vita
sconsigliata. In breve giunse a tale che si associò a una compagnia di ladri,
coi quali scassinava di notte case e botteghe.
Una notte s’introdusse in un palazzotto signorile, con altri
cinque amici, ove gli era stato detto che c’era buon bottino a fare. Girando al
buio per gli appartamenti, videro attraverso le commessure d’una porta filtrare
un filo di luce. Entrarono. Era la camera da letto, ove dormiva discinta Elvira
Fontana. Francesco Conti alla vista di quella formosissima creatura fu preso da
una specie di delirio erotico, che gli tolse ogni lume di ragione. Dimenticando
i compagni e la causa che li aveva condotti in quella casa, non pensò che a far
sua la fanciulla vincendone la coraggiosa resistenza.
Alle grida della infelice, che indarno il Conti cercava
reprimere, accorsero il padre e un vecchio servo; ma nulla poterono fare in sua
difesa, perché gli altri banditi li trattennero finché l’orribile misfatto fu
consumato. Né basta: i cinque compagni del Conti vollero pur essi possedere la
disgraziata giovinetta, che fu così ludibrio di tutti quanti sotto gli occhi
del genitore.
Incominciava ad albeggiare, quando l’oscena masnada lasciò
la preda: non c’era tempo da perdere: legarono il padre ed il domestico, e
frugando alla lesta, poiché il tempo incalzava, non riuscirono a trovare che
una trentina di scudi, coi quali fuggirono dal teatro delle loro turpi gesta.
Francesco Conti tornò, come se nulla di nulla avesse fatto,
al suo negozio, dove dietro denuncia del Fontana, fu sull’imbrunire arrestato.
Sottoposto a processo tentò sulle prime di negare; ma la
testimonianza dell’Elvira lo schiacciava e incominciò col confessare lo stupro
della fanciulla, dicendo però di non aver fatto parte della banda, che abusò
poi di lei e rubò i trenta scudi. E in questo proposito fu irremovibile. Tutti
i tentativi per fargli declinare i nomi dei complici riuscirono frustranei.
Fu nondimeno condannato alla forca, senza altro inasprimento
di pena e io lo impiccai a Città di Castello, la mattina del 26 aprile 1803,
dopo che fu ben confessato e confortato religiosamente, essendosi mostrato
pentito del suo delitto. Morì coraggiosamente e la sua salma venne tosto
distaccata dai parenti e portata al paese, ove le diedero onorata sepoltura.
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