VI.
La vendetta di un marito
oltraggiato.
Dopo i quattro di Camerino che avevano grassato e
assassinato la principessa spagnuola il 9 febbraio 1801, compii la mia 28ma
giustizia impiccando e squartando in piazza del Popolo Teodoro Cacciona,
condannato per aver rubato a un carrettiere un ferraiuolo, un paio di stivali e
dodici scudi. Cinque giorni dopo dovetti trasferirmi in Albano, dove il 14
febbraio 1801 ebbi a mazzolare e squartare un tal Fabio Valeri il quale aveva
grassato il pizzicagnolo dell’Ariccia. La settimana appresso, mi recai a
Viterbo, dove il 21 febbraio 1801 dovetti impiccare e squartare Francesco
Pretolani, il quale aveva grassato ed ucciso un oste e sua moglie. Dopo un
riposo di quattro mesi, il 6 giugno 1801 ho impiccato, a piazza del Popolo a Roma,
Giovanni Fabrini, il quale aveva commesso un omicidio per vendetta, alla Pace.
Nessun particolare è degno di nota né per i delitti, né per le esecuzioni, di
tutti costoro. Volgari malfattori, perendo per mia mano, ricevevano il giusto
guiderdone delle loro opere malvagie, e se ne andavano all’altro mondo,
persuasi essi medesimi di dover saldare il conto colla giustizia, senza troppo
disperarsi e rassegnandosi al proprio destino. Tanto valeva per loro morir sul
patibolo che in letto.
Molto interessante ed eminentemente drammatico fu invece il
processo di Domenico Treca, che, in seguito a sentenza del tribunale che lo
condannava alla forca, fui chiamato ad impiccare in Subiaco, come di fatto lo
impiccai la mattina del 4 luglio 1801.
Domenico Treca era un giovinotto che si guadagnava la vita
facendo il merciaio ambulante, girando per villaggi e frequentando i mercati e
le fiere. Lucrava discretamente, e tutti i suoi denari li spendeva intorno alla
moglie, che amava svisceratamente, e che ben meritava d’essere amata per
l’incomparabile sua bellezza.
Si chiamava costei Felicita ed era dotata di un personale
molto appariscente: densa di forme, ma aggraziata, col petto torreggiante, le
anche poderose, ben tornite e candide le braccia e pingui i lacerti. La testa
avvenentissima, impiantata sopra un collo taurino, di niveo splendore, aveva
movenze seducentissime. Ricca, prolissa e naturalmente ondeggiata la bruna e
lucida capigliatura. La bocca sempre sorridente. Le gote pienotte e rosee, gli
occhi pieni di un fascino irresistibile. Le orecchie piccole, diafane, ben
disegnate, che invitavano a sussurrarvi dolci parole d’amore.
Quando Domenico era fuori, stava in casa con Felicita una
vecchia parente. L’aveva voluto ella stessa, per allontanare qualsiasi sospetto
da parte del marito, il quale valutava adeguatamente i suoi pregi, e benché la
sapesse onesta, ne era naturalmente geloso.
Molti fra i più bei giovani di Subiaco avevano tentato di
avvicinarsi a Felicita, ma da brava ed onesta moglie ella li aveva sdegnosamente
respinti.
— È proprio la perla delle spose, dicevano tutti, uomini e
donne, non senza una punta di gelosia.
Se nonché Felicita era pia e devota: frequentava la chiesa;
ascoltava messa tutti i giorni, tutte le settimane si confessava e comunicava,
ed era il curato stesso che aveva presa la sua direzione spirituale.
Quando una donna è giovane e bella è di leggieri sospettata.
Le pettegole, che non potevano soffrire la superiorità fisica e morale di
Felicita incominciarono a notare l’assiduità di lei alla chiesa, e commentarla
e malignarne. Si diedero a spiare i suoi passi e la sua casa, e giunsero a
sapere che il curato la visitava e si intratteneva con lei lungamente.
— C’è in casa la parente, obbiettavano coloro che volevano
assumerne le difese.
— Le farà da mezzana, ripetevano le male lingue.
E così, in breve, di bocca in bocca, si diffuse la notizia
che Felicita era l’amante del curato.
Domenico, come sempre accade, fu l’ultimo ad essere
informato delle voci che correvano in paese intorno sua moglie. Quando glie ne
giunse contezza provò uno schianto al cuore: egli comprese che tutto era finito
per lui; non più felicità, né pace, non più avvenire, poiché felicità, pace,
avvenire per lui si compendiavano nella donna adorata e infedele. Meditò la
vendetta. Ma prima di compierla volle sincerarsi delle cose per filo e per
segno. Il castigo doveva scendere inesorabile su tutti i colpevoli. La sua vita
era infranta? Avrebbe infrante pur quelle de’ suoi traditori tutti.
Con una forza di dissimulazione della quale soltanto l’odio
più acerrimo potea renderlo capace, chiuse il suo segreto negli imi penetrali
della sua anima piagata. Non uno sguardo, non un gesto, non una parola rivelò
in lui, né alla moglie, né ad altri, la terribile cognizione della sua rovina
morale, cagionatagli dal tradimento. Attese. Attese finché gli fu dato di
raccogliere tutti i particolari della sua sventura.
Un giorno partì come di consueto colla carrozzella che gli
serviva per il trasporto delle sue merci, annunziando che recavasi ad una fiera,
la quale doveva durare otto giorni. Ma la notte medesima tornò pedestre, ad
insaputa di tutti, a Subiaco, penetrò nella sua casa e si nascose in una stanza
vicina alla camera da letto.
Vide giungere il curato ed entrarvi: vide tutti gli
apprestamenti di una baldoria fatti da sua moglie e dalla parente di lei e non
si mosse; udì il tintinnio dei bicchieri cozzanti e i lieti evviva e i
propositi fescennini che uscivano dalla bocca del curato mezzo ebbro, e non si
mosse; assisté al trasporto dei resti della cena e alla preparazione del nido
d’amore e non si mosse.
Solo quando ebbe la materiale certezza che il curato si
trovava nelle braccia di sua moglie, uscì dal nascondiglio e armato di un lungo
pugnale, si avviò nel buio, alla camera nuziale. In quel mentre tornava la
parente con un lume: il terrore le tolse la parola. Non poté mandare un grido,
ma si gettò attraverso la porta per contenderne l’accesso all’oltraggiato
marito.
Domenico Treca non disse verbo: gli infisse il pugnale nel
cuore fino all’elsa e lo ritrasse fumante di sangue; quindi, con un balzo di
pantera fu addosso al prete, che era sceso dal letto, al rumore prodotto dalla
caduta della parente, e pur d’un colpo lo spense.
— Menico! Pietà! Pietà! — urlò Felicita levandosi a sedere
seminuda sul letto maritale contaminato — protendendogli le bellissime braccia,
quasi in atto d’invitarlo ad un amplesso.
Treca stette un momento a guardarla. Forse la lasciva donna,
satura di fluido magnetico, esercitò un fascino erotico sopra i suoi sensi e
gli fece balenare il pensiero orribile di godersi ancora una volta l’amore di
quella femmina, intriso del sangue che per lei aveva versato. Ma lo respinse
tosto, perché colla passione si risvegliò subito in lui il furore geloso.
— No! No! — esclamò, con un rantolo di morte che gli serrava
la gola. No!
E precipitandosi su Felicita gli piantò il pugnale nel
petto, sfiorandole prima il braccio col quale la disgraziata aveva tentato di
farsi schermo. Ma, per quanto fiero, il colpo non la uccise tosto, e con quella
fittizia energia che dà la disperazione tentò la lotta contro l’assassino.
Ma il contatto di quelle carni che egli avrebbe voluto
coprir di baci, accendeva viemaggiormente la rabbia del tradito.
Treca non era più un uomo, era una belva inferocita.
Continuò a straziare quel corpo bellissimo coprendolo di
ferite. Il sangue spillando con violenza gli aveva soffuso il viso e bagnate le
labbra. Treca ne gustava il sapore e se ne ubbriacava.
Il delirio omicida gli durò finché non cadde estenuato e
privo di sensi al suolo.
Rinvenuto dopo parecchio tempo, gli parve svegliarsi da un
sogno: si alzò, si guardò attorno e tutta la tremenda verità gli apparve
dinanzi agli occhi. Un senso di ribrezzo l’invase; volle fuggire, inciampò nel
cadavere del curato e cadde; si rialzò, mosse alcun frettoloso passo ed
inciampò ancora nel cadavere della parente. Si rialzò un’altra volta e
barcollante giunse sulla via, sempre col pugnale stretto nella destra.
Albeggiava e la luce smorta piovendogli sul volto
contraffatto da convulsioni spasmodiche dei muscoli visuali, lo rendeva
cadaverico. Pareva un colpito da mala morte, che uscisse dal sepolcro. Il
sangue che gli grondava dai vestiti, cosparsi di grossi grumi, compiva il
quadro scellerato.
Alcune donne che lo videro prime in quello stato fuggirono
gridando spaventate e facendosi il segno di croce; alcuni uomini che pur lo
scorsero non ebbero il coraggio di accostarsegli e andarono in traccia dei
birri, i quali giunsero di corsa e mentre lo ammanettavano e legavano
solidamente, gli chiesero:
— Che avete fatto?
Quella fredda domanda parve ridargli la conoscenza
dell’esser suo.
— Mi sono vendicato — rispose e non aggiunse verbo.
Tratto in carcere dormì parecchie ore d’un sonno affannoso.
Solo quando si svegliò, dopo il riposo, ebbe il beneficio delle lagrime, che
salvò la sua ragione vacillante.
Proruppe in dirotto pianto e chiese instantemente di essere
subito giustiziato.
— Mi pesa troppo la vita! mormorava.
Ma dovette attendere che le formalità del processo si
esaurissero. Non durarono però molto, essendo confesso, e il 4 luglio 1801 lo
impiccai a Subiaco, con immenso concorso di gente colà convenuta da tutte le
parti, perché il rumore sollevato dal misfatto, aveva destato l’universale
curiosità.
Domenico Treca era caduto parecchi giorni prima della sua
impiccagione in uno stato di completa apatia. Si confessò e ricevette i
conforti della religione, e salendo il patibolo non era più un uomo, era un
automa.
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