VII.
L’assassinio di un Giudìo —
Parricidio.
Le prime esecuzioni dell’anno 1802 furono in persona di
grassatori. Il primo, Domenico De Cesare, lo impiccai sulla piazza di Ponte
Sant’Angelo, il giorno 8 febbraio. E se vi fu mai uno che meritasse d’andarsene
al diavolo colla fune intorno al collo, era lui. Aveva grassato un povero
spazzino per togliergli i pochi baiocchi, coi quali doveva comprare il pane a’
suoi figliuoli. Arrestato, confessò il delitto cinicamente, senza mostrarsene
menomamente pentito. Respinse il primo confortatore che gli si presentò, sputandogli
in volto, e mentre io gli legavo le braccia, dissemi:
— Attento Mastro Titta, perché se non mi tieni saldamente,
scappo e vengo a farti una visita di notte a Borgo Sant’Angelo.
Parimenti a Ponte, dodici giorni dopo, cioè il 20 febbraio
1802, impiccai e squartai Ascenzo Rocchi e Giovanni Battista Limiti, che
avevano aggredito sulla strada di Bracciano alcuni carrettieri, tolti loro i
denari, i ferraioli, e perfino due copelle di vino che portavano per il proprio
consumo. Uno dei carrettieri aveva tentato di difendersi e gli diedero un colpo
di bastone sulla testa che la mandò tramortito al suolo.
Sorpresi dai birri fuggirono, ma furono agguantati non guari
dopo, processati, condannati e giustiziati. Morirono muniti dei religiosi
conforti e sinceramente pentiti, mostrandosi coraggiosi anche in faccia al
patibolo.
Più ardua bisogna fu quella che mi toccò il 15 marzo del
1802, nel qual giorno ebbi a mazzolare, scannare e squartare, sempre a Ponte
Sant’Angelo, Giovanni Francesco Pace di Venanzio che aveva grassato ed ucciso
un ebreo.
L’affare era andato così:
Il Pace, oriundo napoletano, aveva messo bottega di sartore
a San Carlo ’a Catinari e prendeva la roba a credito da un mercante giudìo di
nome Abramo, in Ghetto. Non venendogli fatto di strappargli i denari, il
mercante lo costrinse un giorno a firmargli delle obbligazioni a lunga
scadenza. Una sera rincasando il Pace incontrò Abramo al ponte Quattro Capi:
una triste idea lo assale. Si guarda attorno e non vede anima viva; faceva
freddo, un fitto nevischio cadeva e nessuno usciva di casa. L’idea del sartore
era di farsi restituire le obbligazioni. Non appena concepita volle tradurla in
atto, e afferrandolo subitaneamente per il collo gli intimò:
— Fuori le carte.
— Non le ho — rispose atterrito, colla voce nella strozza il
giudìo.
— Fuori le carte — ripete il Pace.
E l’altro pur sotto quella potente stretta si serra le mani
al petto, per impedire all’aggressore di frugargli addosso. Questo allora trae
di tasca le forbici che portava sempre con sé e ne inferisce più colpi alla
gola del giudìo.
Abramo cade, intriso del sangue che gli sgorgava dalle
ferite, e muore colle braccia sempre conserte al petto e irrigidite.
Pace si china allora sopra di lui e gli toglie dal pastrano
un portafogli pieno di valori fiduciari e una borsa con alcune monete. Quindi
se ne va tranquillamente a casa a dormire.
Le aggressioni anche in città erano allora all’ordine del
giorno, o più precisamente all’ordine della notte e non destavano gran rumore.
Trattandosi poi d’un israelita la cosa pareva quasi naturale. Si fece qualche
indagine dall’autorità e non essendosi potuto scoprire nulla non se ne parlò
più.
Incoraggiato dall’impunità il Pace, dopo aver spese le
monete, pensò di servirsi dei valori ed andò ad offrirli ad un cambiavalute al
Corso. Questi insospettitosi avvertì il fiscale che fece una perquisizione alla
bottega del sartore, gli trovò il portafogli con delle carte che ne indicavano
il legittimo proprietario. Pace fu tratto in arresto e mandato alle carceri.
Sulle prime negò sfrontatamente e disse che il portafogli lo aveva trovato per
terra in via Rua. Ma messo alle strette finì per confessare ed ebbe come dissi,
la ricompensa degna del suo misfatto. Il 3 aprile 1802, recatomi a Fermo,
mazzolai e squartai Domenico Zeri, il quale aveva ucciso il proprio padre, in
seguito ad un litigio insorto per la divisione di un piccolo fondo venuto loro
in retaggio per la morte di un lontano parente.
Stavano entrambi cenando in cucina e accalorandosi ne’
discorsi avevano bevuto di molto vino cotto, che dà al capo ed abbrutisce
bestialmente. Da una parola acerba ad un’altra il padre minacciò Domenico Zeri
di privarlo anco di quel poco che gli avrebbe dovuto lasciare alla sua morte.
— Voi non lo farete! — esclamò d’un tratto rizzandosi minaccioso,
e cogli occhi iniettati di sangue Domenico Zeri.
— E perché no? — gli chiese il padre alzandosi pure lui,
quasi in atto di sfida.
— Perché non ve ne lascerò il tempo — rispose allontanandosi
qualche passo dalla tavola, accostandosi all’ampio camino, e stendendo la mano
dietro di sé, per cercare qualche cosa.
Il vecchio sempre più irritato afferrò il boccale di
terraglia ormai vuoto, che si trovava sul desco e lo scagliò al figlio
ferendolo alla fronte. Sentendosi il volto irrigato di sangue questi perdette
il lume della ragione e afferrata la pala del fuoco ne assestò un terribile
colpo sulla testa al padre, che cadde boccheggiante al suolo. A quel truce
spettacolo, Domenico Zeri fuggì; errò parecchi giorni per le campagne e finì
coll’essere arrestato dai birri a Recanati.
Ricondotto a Fermo più morto che vivo per la paura e lo
strazio del rimorso, confessò subito il suo misfatto e manco tentò difendersi.
I giorni trascorsi fra la condanna e l’esecuzione furono per lui una continua
agonia, lenta e crudele. Delirava giorno e notte in preda a violentissima
febbre, refrattaria ai più potenti antipiretici. Convenne affrettare
l’esecuzione della sentenza, per tema che se ne andasse all’altro mondo
defraudando l’umana giustizia. Agli ultimi momenti confortato dai cappuccini
parve riaversi alquanto e s’avviò al patibolo recitando preghiere e
raccomandazioni alla pietà dei fedeli. Ma era una vita, dirò così, fittizia la
sua; quando gli bendai gli occhi era diaccio, e giurerei che non ha sentito il
colpo della mazzola.
Squartato, i suoi resti rimasero esposti sul palco per tutta
la giornata, appesi ai ganci infissi nella travatura.
Durante la notte furono distaccati ed ebbero sepoltura, per
opera de’ cappuccini stessi, in un appezzato di terreno vicino al cimitero, non
potendo essere in questo inumato.
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