VIII.
Due donne impiccate —
Infanticidio e assassinio d’un marito.
Confesso candidamente che di tutte le mie esecuzioni quelle
che mi sono andate meno a versi sono le esecuzioni sopra le donne. E questo non
per un manifesto spirito di pietà morbosa, o perché mi lasciassi in qualsiasi
modo dominare dalle attrattive muliebri. Gli è che io ho sempre considerato la
donna come un essere intellettualmente e fisicamente inferiore all’uomo e mi
disgustava di dover esercitare la mia azione sopra tale inferiorità. Ma devo
pur constatare che la donna, che è pure sì gentile e graziosa creatura,
talvolta eccede in ferocia l’uomo stesso, segnatamente quando è invasa dalla
passione.
In sull’esordire di maggio dell’anno 1802 fui chiamato ad
Orvieto per l’impiccagione di Agostina Paglialonga, condannata all’estremo
supplizio per aver barbaramente trucidato tre figli.
Era l’Agostina rimasta vedova con tre bambini, una appena
svezzato dal latte, il secondo di due anni e mezzo, il terzo maggiore di undici
mesi a questo. Bella e appariscente nelle forme, simpatica di fisionomia e
sufficientemente agiata, ebbe presto molti corteggiatori, alcuni per semplice
vaghezza di godimenti, altri animati dall’onesto intendimento di farle deporre
le gramaglie vedovili, riconducendola all’altare. Fra questi era un giovane
macellaio, una specie di Ercole, gagliardo e promettitore di eccellenti
risultamenti per una donna inclinata ai rapporti sessuali. Naturalmente costui
ottenne la preferenza dall’Agostina: ma quando ebbe raggiunto l’intento di
possederla, incominciò a lungheggiare sul proposito del matrimonio.
Messo finalmente dalla Paglialonga fra l’uscio e il muro, si
scusò dicendo che non si sentiva di sposare una donna con tre figli, non suoi.
— È questo l’ostacolo unico? gli chiese una sera l’Agostina
— Questo soltanto.
— Senza figli...
— Ti sposerei anco domani.
La donna non insisté con altre domande. Passate tre ore in
frenetici amplessi il macellaro se ne andò, dimenticando sul tavolo un’ascia,
di quelle che si adoperano per spezzare le ossa, che aveva portato ad
arruotare.
Rimasta sola, la Paglialonga, prese in mano l’ascia: un
terribile pensiero le balenò alla mente e in breve l’invase in modo tale da
soggiogarla.
Afferrò l’ascia ed entrata nella camera dove dormivano i
suoi bambini li tolse uno per uno dal letticciuolo e li assassinò, spaccando
loro il petto ed il cranio coll’arma fatale e buttandoli estinti uno sopra
l’altro come tanti abbacchi macellati. Poi li fece a pezzi, li portò in cucina
e li mise a bollire nella caldaia, colla quale soleva fare il ranno per il
bucato. Coll’acqua stessa levò le macchie di sangue del pavimento e ripulì
l’ascia in modo da renderla tersa, e rilucente come nuova.
Compiuto l’orribile misfatto trasse le carni cotte dalla
caldaia e andò a disperderle pei campi, affinché servissero di pasto ai cani ed
alle altre bestie vaganti, e sopravvenuto il mattino riportò l’ascia al
macellaio, annunziandogli che i suoi bambini era venuto a prenderli un fratello
del defunto marito, il quale li aveva condotti seco in un lontano villaggio
delle provincie meridionali. E tale notizia ripeté a quanti le chiedevano conto
dei suoi figliuoletti.
Ma Dio non volle lasciare impunita quella scellerata mano:
un grosso cane entrato in Orvieto con un osso in bocca richiamò l’attenzione di
un medico, che riconobbe in quell’osso la tibia di un bambino. Si fecero delle
ricerche e si trovarono altri resti. La voce pubblica incominciò ad accusare la
Paglialonga dell’eccidio dei suoi bambini e venne arrestata.
Arrestata confessò cinicamente il delitto. Venne condannata
e la mattina del 5 maggio 1802, io l’ebbi ad impiccare. La fama del delitto
aveva chiamato ad Orvieto una folle enorme dai paesi circonvicini.
Quando uscimmo colla carretta dalle carceri per recarci alla
piazza dove doveva compiersi l’esecuzione, temetti per un momento che ad onta
della scorta, mi togliessero di mano la delinquente, tant’era il furore onde
erano invasi gli spettatori e segnatamente le donne. Ciò nullameno Agostina
Paglialonga non impallidì, salì sul patibolo accompagnata dal confessore, con
fermo passo e morì coraggiosamente.
Un’altra donna, pur bella di sembianze e di forme mi toccò
d’impiccare a Todi il 6 luglio 1808, Rosa Ruggeri, insieme ai fratelli Angelo e
Paolo Caratelli ed Antonio Scarinei, dai quali aveva fatto assassinare il
proprio marito.
Antonio Scarinei era suo amante e la Rosa n’era pazza: lo
voleva per sé, tutto per sé, senza che avesse a staccarsi un momento dal suo
fianco. Egli le propose di fuggire con lui; ma la donna, dopo averci lungamente
pensato e calcolato tutte le conseguenze, rifiutò.
— Dunque non mi ami? le disse Scarinei.
— Sbarazzami di mio marito e sposiamoci.
— Vuoi?
— Senza dubbio.
Combinarono di simulare un’aggressione in casa. La Rosa fece
nascondere l’amante e i suoi complici nella propria casa e quando vide il
marito ben addormentato li chiamò. Scarinei uscì di sotto il letto ove s’era
nascosto e inferse al disgraziato il primo colpo che lo fece cadere al suolo;
sopraggiunti alle sue grida i complici coi coltelli impugnati, lo finirono
mentre i due amanti orribile a dirsi, si gettarono uno nelle braccia dell’altra
sul talamo stesso.
I due Caratelli fecero poi bottino del bello e del buono e
se ne andarono, lasciando la Rosa e Scarinei in preda al loro delirio amoroso.
Ma sorpresi dai birri col bottino, e interrogati a parte lì per lì, si
confusero, si contraddissero ed ispirarono dei sospetti al funzionario innanzi
al quale erano stati portati. Messi alle strette, col miraggio dell’impunità
confessarono il fatto nei più minuti particolari, di modo che la Rosa Ruggeri e
l’Antonio Scarinei, furono sorpresi nel letto, appié del quale giaceva ancora
il cadavere del marito assassinato.
Furono tutti condannati all’impiccagione, la quale dovetti
eseguire in quest’ordine: prima Angiolo, poi Paolo Caratelli, terzo Antonio
Scarinei, ultima la Rosa Ruggeri, affinché lo spettacolo della morte de’
complici inasprisse gradualmente la pena. Gli uomini morirono con sufficiente
coraggio, assistiti dai confortatori, ai quali s’erano cristianamente
confessati. La donna diede in ismanie terribili e pur col capestro al collo,
urlava come una dannata. Ma non durò a lungo: in un fiat la spedii a
raggiungere i suoi compagni.
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