IX.
L’assassinio di un frate
cappuccino.
Il giorno 8 maggio 1802 compii la mia quarantatreesima
esecuzione, mazzolando ed impiccando, ne’ modi di pratica, a Perugia un tale
Antonio Nucci, condannato a tal pena per aver assassinato e derubato un frate
cappuccino, priore del convento di quella città.
Era il Nucci un giovane caposcarico, assai noto per la sua
giovialità e per le pazzie burlesche che commetteva, ogniqualvolta se gliene
presentava l’occasione.
Il cappuccino era in fama di libidinoso e dedito a piaceri
contro natura. Veduto il Nucci e ammirate le sue forme belle e tondeggianti si
lasciò cogliere dalla tentazione di trarne godimento.
Gli si mise attorno col pretesto di ricondurlo a miglior
vita e di avviarlo sul sentiero della virtù. Nucci prendeva la cosa in ischerzo
e fingeva di assecondare il frate, che finì col persuaderlo a recarsi da lui
per confessare e fare ammenda de’ suoi peccati. Ma quando il giovane si fu
accostato al tribunale di penitenza, il priore pare gli tenesse dei propositi
osceni e gli desse convegno per la sera fuori della città, in una piccola
osteria sulle rive del Trasimeno, ove solevano convenire di consueto i
pescatori del lago.
Non mancò il Nucci all’appuntamento: mangiarono
allegramente, abbandonandosi a copiose libagioni, poiché l’osteria a quell’ora
era deserta, non essendo ancora giunti i soliti frequentatori.
Sull’imbrunire lasciarono l’osteria e per un sentiero
traversale risalirono il colle.
Così deposero concordemente in giudizio parecchi testi, che
li avevano veduti insieme, l’oste per il primo. Ma da quel momento in poi non
si può riposare che sulle asserzioni del Nucci, il quale aveva troppe buone
ragioni per raccontar le cose a suo modo.
Udiamolo:
— Che cosa avete fatto, gli domandò il giudice, quando avete
lasciato la strada maestra per prendere la stradicciuola montana?
— Ci siamo inoltrati nella macchia; il priore era bevuto
parecchio e tornava sulle proposte che mi aveva fatte al confessionale.
— Avevate voi aderito a quelle proposte?
— Sì, ma per celia. Volevo burlarmi del frate sozzone.
— Come avete risposto in quel momento alle nuove insistenze
del priore?
— Risposi obbiettando che il luogo non era opportuno e che
avremmo potuto esser sorpresi.
— E il cappuccino?
— Tirò innanzi fino ad una piccola spianata, cinta d’alberi
fronzuti, e là mi disse: Riposiamo un po’ qui.
— E voi?
— Acconsentii.
— Dunque eravate ben disposto?
— Tutt’altro.
— Almeno vi fingevate tale?
— Io non dicevo nulla. Lui mi raccontava delle storielle
lubriche, che diceva accadute in convento; io ascoltavo e ridevo.
— In quale posizione vi trovavate?
— Sdraiati sull’erba, sopra un piccolo pendio, costeggiante
lo spianato, dove più fitta era l’alberata.
— Continuate.
— Sentendomi assalito da un bisogno, chiesi perdono al
priore, il quale mi disse: «Fa pure il comodo tuo». Ma mentre mi accingevo a
farlo, mi sentii afferrare a tergo per le braccia dal frate, che con un colpo
di ginocchio mi fece cader supino.
— Perché non vi svincolaste
subito, se non eravate annuente?
— Tentai, ma le sue braccia erano
più vigorose delle mie.
— Dovevate chiamare aiuto.
— Avrei buttato il mio fiato: in quell’ora non si trova mai
nessuno nella macchia.
— Breve: come finì?
— Cacciai il coltello che tenevo nelle tasche dei calzoni.
— Per uccidere il cappuccino?
— No: solo per fargli paura.
— E per fargli paura semplicemente lo avete ammazzato?
— Vedendo che il priore ci si metteva per davvero, gli tirai
un colpo, perché mi lasciasse.
— Un piccolo colpo che gli spaccò il cuore.
— Non è colpa mia.
— Eravate sempre supino?
— Sì.
— La perizia medica esclude la vostra asserzione, perché la
ferita parte dall’alto al basso. Quello che voi narrate, non è che un’oscena
favola colla quale sperate indarno di ingannare la giustizia. Voi avete tratto
il disgraziato priore, chissà con quale pretesto, per quel sentiero deserto,
nel fitto del bosco e quando vi siete ritenuto al sicuro, approfittando di un
momento in cui egli si era chinato, gli avete vibrato la coltellata che lo
freddò.
— La favola è questa, non la mia.
— La tabacchiera d’oro che apparteneva al cappuccino, che vi
fu trovata, all’atto del vostro arresto, prova esuberantemente che lo avete
assassinato per depredarlo.
— L’ho veduta luccicare per terra e la raccolsi; forse gli
sarà uscita dallo sparato della tonaca nella colluttazione.
— E il danaro che gli avete tolto?
— Io non gli ho tolto denaro di sorta.
— I testi sono concordi nel dichiarare che il priore usciva
sempre con una borsa di pelle ben fornita, per fare le spese della comunità. E
ne’ primi giorni dopo il delitto foste veduto scialarla sprecando denari in
gozzoviglie più del consueto e più che non comportassero le vostre finanze.
Antonio Nucci tentò schermirsi, ma le testimonianze erano
schiaccianti per lui. La mancanza del priore fu tosto constata al convento, ma
il suo cadavere non venne trovato nella macchia che dopo otto giorni, da alcuni
boscaiuoli. La voce pubblica tosto accusò il Nucci, col quale il frate era
stato veduto. Il Nucci fu arrestato e sottoposto al processo. Ma non si trovò
che la tabacchiera. Forse il denaro lo aveva seppellito, per andarlo poi a
prendere di mano in mano quando gli serviva. Condannato, accettò i conforti
religiosi e subì il supplizio senza viltà.
Durante l’esecuzione però avvenne un fatto curioso. Due
garzoni, tratti dal carcere per aiutarmi nella costruzione del palco, vennero a
litigio dietro il medesimo e si azzuffarono. Dovettero essere separati dai
birri.
Questo fatto ne ricorda uno congenere accaduto a Palermo più
tardi, del quale corse la fama per tutto il mondo.
Mentre sul palco il giustiziere ghigliottinava un marito che
aveva ucciso la moglie per motivo di gelosia, due rivali, amanti entrambi
dell’assassinata, che erano riusciti, per diversa via, a penetrare sotto il
palco medesimo, per meglio assistere all’esecuzione, accesi di subito furore,
si avventarono uno sull’altro armati di coltello, impegnando un terribile
duello, dal quale uno dei due uscì morto; l’altro, gravemente ferito, di poco
gli sopravvisse.
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