XVI.
La confessione e la
morte.
A notte alta si fa condurre innanzi Domenico Guidi e,
rimasto solo con lui, così l’abborda:
— Ho una notizia a darvi: Pepita la vostra amante è stata
riconosciuta gestante.
La lampada posta sullo scrittoio dell’inquirente proiettava
sopra di lui la luce; il giudice invece, coperto da un paralume di seta verde,
restava all’ombra e studiava attentamente sul volto dell’imputato l’effetto
delle sue parole. A quell’uscita il colore del Guidi s’era fatto cadaverico.
— Persisterete a negare — riprese il giudice collo stesso
tono di voce aspro e secco — d’aver ucciso il fratello della vostra ragazza?
Guidi non rispose.
— Ben più consigliata di voi, Pepita ha confessato tutta la
verità, nulla occultando alla giustizia, né della vostra tresca, né del
progetto di matrimonio, concepito da suo padre e comunicatole dalla madre e da
lei respinto, né delle conseguenze che ne scaturirono.
L’imputato pareva fulminato: le sue forze morali erano
paralizzate e le fisiche del pari. Credeva tutto scoperto e si sentiva morire.
— Domenico Guidi — continuò il giudice, dando alla sua voce
un’inflessione meno severa e parlandogli in modo quasi paterno — la sincerità
solo può migliorare la vostra sorte, attenuare la gravità del delitto.
L’imputato cadde nel laccio e, sperando di sfuggire al
patibolo, del quale gli pareva rizzarsi l’immagine innanzi a lui, balbettò:
— Fu per legittima difesa.
— Lo so. Foste sorpreso...
— E replicatamente colpito. Se non erano i due involti di
Pepita nei quali si affondò la lama del suo coltello l’ucciso sarei stato io.
Quella rivelazione dei due involti aprì la mente del
giudice. Li aveva dati all’amante Pepita. Che cosa potevano contenere?
Certamente i suoi effetti. A quale scopo? Per portarli con sé. Era dunque a una
fuga che si erano preparati. L’assassinato aveva colpito il Guidi? La sorpresa
risultava evidente.
— Dove intendevate di portar Pepita, dopo la fuga? — domandò
il giudice a bruciapelo.
— Non lo so. La cosa era stata così improvvisa, che non
avevo avuto tempo di pensare a nulla. Si voleva andar via da Viterbo. Saremmo
usciti di città per andar poi lontano.
— Col fardello della roba che Pepita portava con sé, non è
vero?
— Io non possedevo mezzi. Fu lei che lo volle. Mi disse che
avrebbe portato con sé la sua roba. Null’altro che la sua roba.
L’idea di esser ritenuto complice di un furto domestico, per
parte della ragazza, ripugnava al Guidi più dello stesso delitto di sangue che
aveva commesso.
Man mano, l’abilissimo inquirente, sempre fingendosi già
informato di tutto, dalle supposte rivelazioni di Pepita, trasse di bocca al
prigioniero tutti i più minuti particolari del fatto, dall’inizio delle sue
relazioni colla fanciulla, fino alla sua fuga disperata, dopo aver assassinato
il fratello. Emerse così chiaro che questi aveva avuto cognizione della tresca
della sorella e che la vigilava, per modo, che non potesse andar a monte il
progettato di lei matrimonio.
Ottenuto un così grande, quanto insperato successo,
l’inquirente licenziò il Guidi, esortandolo a confermare al domani innanzi al
consesso giudicante, le sue confessioni e facendogli intravedere la possibilità
di una mite condanna e della grazia fors’anco.
Il giorno seguente il reo ripetè la sua confessione ampia:
quindi fu fatto ricondurre in carcere. Il tribunale, per evitare uno scandalo,
trattandosi di una fanciulla chiusa in un chiostro, sorvolò nella motivazione
della sentenza ai fatti antecedenti e condannò il Guidi alla forca per
omicidio.
E la condanna ebbe subito corso, come avvertii.
Quando Guidi, giunse ai piedi del patibolo, era più morto
che vivo. L’intimazione della sentenza lo aveva siffattamente colpito, mentre
era così lontano dall’aspettarla, che non proferì più verbo. Aveva perduta la
favella.
Dovetti portarlo su di viva forza per la scala, mentre il
mio aiutante lo sorreggeva per le gambe.
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