XXIV.
Un masnadiero di buon
cuore.
Il giorno 13 agosto del medesimo anno 1806, dovetti
trasferirmi a Terracina per giustiziare due grassatori, Giuseppe Pistillo detto
Fatino, e Giuseppe Chiappa, condannati all’impiccagione e successivo
squartamento.
Pistillo, godeva di una grande popolarità, perché era uno di
que’ tipi di masnadieri simpatici, dei quali si sono create le leggende. Egli
non incrudeliva mai contro le persone; se non vi era costretto da necessità di
difesa non faceva mai uso delle armi. È vero che possedeva una forza erculea e
due mani più salde e più stringenti d’una morsa. Se afferrava uno per il collo,
quel disgraziato era tanto sicuro di rimanervi, quanto fosse capitato nelle mie
mani, per essere trasmesso all’altro mondo. Non molestava mai i poveri
viandanti, né i carrettieri. Egli si riservava soltanto gli affari grossi.
Aveva un debole per le carrozze da viaggio signorili e per le corriere di
posta. Quando capitava in qualche casa, o capanna contadinesca e chiedeva
ricovero o vitto, era sicuro d’essere servito come un principe, perché pagava
lautamente, se non al momento, alla prima occasione che gli fosse data di
ritornarvi, ben provveduto di quattrini.
Largheggiava anche in elemosine ai poveri. Si narrano di lui
una quantità di aneddoti che fanno onore al suo cuore e tratteggiano
magnificamente il suo carattere. Ne raccolgo uno dei più commoventi.
Pistillo soleva capitar di frequente in una tenuta
principesca affittata ad un padre di numerosa famiglia, che ritraeva onesto
guadagno lavorandolo e facendola lavorare dai coloni. Il suo arrivo alla tenuta
era sempre salutato con gioia, perché portava regalucci alle donne ed ai bimbi
e faceva compagnia al capo di casa ed agli uomini, ai quali porgeva altresì
saggi consigli sulle coltivazioni e sul momento, più o meno opportuno, di
procurarsi ciò di cui abbisognavano e di vendere i loro prodotti.
Assente da oltre un anno, perché le molestie dell’autorità
lo avevano indotto a mutar paese, una notte Pistillo arriva alla tenuta e vi è
come di consueto affabilmente accolto. Gli servono da cena e l’affittaiolo gli
tiene compagnia, mentre gli altri tutti se ne vanno a dormire.
Pistillo s’accorge però che qualche cosa di straordinario e
di non lieto dev’essere accaduto in quella casa. Per quanto si sforzi non
riesce al padrone di mostrarsi ilare e contento. Beve, ma il vino gli resta nella
strozza e depone il bicchiere vuoto solo a metà.
D’un tratto Pistillo si ferma con in pugno il coltello, col
quale andava tagliando un pezzo di cacio, e guardando fissamente il campagnolo,
gli dice in tono secco e severo.
— Paolone tu m’inganni.
— Mi credete capace? — risponde tosto il campagnolo
evidentemente corrucciato.
— Tu non hai più confidenza in me — prosegue il masnadiero —
tu mi celi qualche cosa.
— Che vi ho mai da nascondere? — chiede con un profondo
sospiro Paolone.
— Non lo so; se lo sapessi non te lo chiederei. Qualche
affanno, qualche segreto dispiacere ti ha mutato. Paolone, non facciamo ciarle
inutili: che cosa t’affligge?
— Forse non ci vedremo più.
— Perché?
— Perché domani verranno gli uscieri a scacciarmi di qui.
Sono rovinato. Non ho pagato l’affitto, perché l’annata è andata a male e
l’amministratore del Principe mi ha intimato lo sfratto.
La fronte di Pistillo si corrugò. Le tempie gli
martellavano. Le vene della fronte s’ingrossavano. I suoi occhi si iniettavano
di sangue. Le sue labbra erano frementi. Ma non articolava parola. Finalmente
mormorò, quasi discorresse con se stesso:
— Si sfratta un uomo colla sua famiglia perché non può
pagare qualche migliaio di lire, lo si mette sulla strada, si strappa il pane
di bocca a lui ed a’ suoi figli!... È una indegnità. E chiamano me brigante!
Paolone udiva e non fiatava. L’ira che trasudava da tutti i
pori del Pistillo lo commoveva.
— Non c’è modo di aggiustare le cose?
— Un solo, ha detto l’amministratore, dal quale mi sono
recato ieri ad implorar pietà.
— Quale?
— Pagare. Capite? Pagare sei mila scudi, quando non ne ho
cento in cassa; quando mancano le provviste per l’annata; quando si sono fatti
tutti i sacrifici per tirare innanzi, sprovvedendosi di tutto il superfluo.
— Pagare eh? ha detto l’amministratore.
— Pagare o andarsene.
— Ebbene pagherai.
— Scherzate?
— Giuseppe Pistillo non ischerza mai, quando è in gioco la
vita d’una famiglia. Pagherai.
— E chi mi darà i denari?
— Io, te li darò.
— Ma io ve li potrei rendere chissà poi quando. Ci vorranno
almeno dieci anni buoni per risparmiare tal somma.
— Non curarti di questo. Ci penserò io compensarmi.
— La mia vita è vostra.
— No, è della tua famiglia. Per che ora ti servono i sei
mila scudi?
— L’amministratore m’ha detto che verrà domani dopo pranzo
cogli uscieri.
— Sta bene: andiamo a dormire.
Sul far dell’alba Giuseppe Pistillo lasciava la fattoria.
La povera famiglia di Paolone, passò una giornata in
ambascie inenarrabili. Il campagnolo s’era chiuso in un impenetrabile silenzio.
Solo di tratto in tratto domandava che ora fosse.
In punto a mezzogiorno fu annunziato l’arrivo di un
cavallaro che chiedeva del padrone.
Paolone gli mosse incontro sfavillante di speranza e di
gioia.
Pistillo aveva mantenuto la sua parola. Il cavallaro rimise
al campagnolo un grosso involto, dicendogli:
— Da parte di chi sapete.
Quindi, voltato il cavallo, scomparve.
Paolone salì coll’involto nella sua camera e chiusosi dentro
l’aperse.
C’erano tremila zecchini d’oro.
Il povero campagnolo, cadde ginocchioni e piangendo come un
fanciullo, ringraziò la divina provvidenza.
Si trovava ancora in quello atteggiamento, quando venne
bussato alla porta.
L’affittaiolo aperse e si trovò faccia a faccia colla
moglie, che lagrimando gli annunziò la venuta dell’amministratore, di un
usciere e due testimoni.
— Siamo perduti! Siamo perduti! esclamava la disgraziata
donna — Poveri figli miei!
— Siamo salvi — disse Paolone — mostrandole l’oro, cacciando
le mani nel quale trovò un biglietto manoscritto che diceva:
«Trattieni l’amministratore e i suoi quanto più ti è
possibile.»
Paolone rinchiuse gli zecchini nel suo scrigno e discese
colla moglie incontro ai nuovi venuti.
— Ebbene? — domandò con piglio sciolto e un po’
motteggiatore l’amministratore, strizzando l’occhio — Come va?
— Come Dio vuole — rispose l’affittaiolo. Ma loro signori
staranno non meglio di me, dopo sì lunga strada.
— Abbiamo il legno nella vostra rimessa, e i cavalli nella
vostra stalla.
— Impartirò gli ordini opportuni, perché siano ben trattati.
Quanto a loro spero, vorranno farci l’onore di pranzare in compagnia.
— Purché non ci facciate morir di fame; sogghignando rispose
l’amministratore.
— Non siamo ancora a tale.
La massaia volò in cucina e in breve parecchi polli
passarono dalla stia alle pentole ed alle casseruole, per ingrossare il pranzo.
Intanto venne imbandita la tavola e si servirono i principi.
Il pasto fu abbondante, squisito e inaffiato di ottimo vino. L’amministratore e
i suoi fecero onore, mangiando e bevendo senza risparmio.
— Peccato che non si possa pranzar da voi tutti i giorni!
esclamò l’amministratore, sempre con piglio canzonatorio. Ma così mi spiego le
difficoltà...
— Difficoltà — interruppe con piglio quasi altero Paolone
possono presentarsi a tutti. L’abilità di un uomo è di saperle superare.
— Parlate come un libro stampato. E voi sareste di quegli
uomini.
— A seconda dei casi. Che cosa desiderate ora, a cagione
d’esempio?
— Oh! una cosa da nulla, una miseria, una bazzecola, che non
valeva quasi la pena d’incomodarsi: sei mila scudi, somma rotonda.
— È appunto quella che vi ho preparata.
— Eh? Dite?
— Dico che i sei mila scudi sono a vostra disposizione.
— E dove li prenderete!
— Dalla mia cassa, con vostro permesso.
— Giusto, regolare, perfetto! Non c’è che dire.
— In tal caso, se permettete, farò venire qualche altra
bottiglia.
— Ma padronissimo, sor Paolone. Già io l’ho sempre detto,
pagherà, pagherà. Che diamine! È sempre stato puntuale. Non può mancare: Eh! si
sa, la tenuta frutta bene: non volevate tirar fuori i vecchi risparmi. Vi
compatisco. Stando io al vostro posto avrei forse fatto altrettanto... Ma al
mio, dovevo fare il mio dovere. Alla vostra salute, Paolone!
Così concluse il suo discorso l’amministratore.
L’affittaiolo andò a prendere gli zecchini e porgendoli all’amministratore, con
un foglio di carta, la penna ed il calamaio, gli disse:
— Favorite rilasciarmi ricevuta di pieno saldo,
controfirmata da questi signori, per maggior regolarità.
— Ben volentieri.
I denari furono riscontrati la ricevuta stesa e firmata.
Ma prima di lasciarli partire Paolone tirò fuori altre
bottiglie, alle quali l’amministratore e i suoi fecero le migliori accoglienze.
Quando si risolsero ad andarsene incominciava ad imbrunire.
Il sacco de’ zecchini venne deposto nella cassetta sotto il sedile posteriore
del legno, in cui entrarono l’amministratore, l’usciere ed uno de’ testi;
l’altro passò a guidare il cavallo. Poco dopo quei dell’interno dormivano
saporitamente, il cocchiere improvvisato sonnecchiava e l’animale ne
approfittava per allargare e allentare sempre più il trotto.
Furono destati di soprassalto dal Pistillo, che in compagnia
di quattro amici, li attendeva al varco, e mise tosto loro le mani addosso per
ridurli all’impotenza. L’amministratore tentò di salvare gli zecchini, offrendo
tutto quello che aveva indosso. Ma gli aggressori erano troppo ben informati; e
siccome, dopo tutto, non era roba loro, si lasciarono depredare senza troppa
mala grazia.
Così il generoso masnadiero ricuperò i suoi tremila zecchini
e all’indomani mandò a Paolone la ricevuta di saldo.
Ma ad onta delle sue buone opere Giuseppe Pistillo doveva
finir male la sua carriera. Incalzato dalla forza pubblica si nascose con tre
amici in una fattoria. Assaliti, resistettero e due caddero morti; Pistillo e
Giuseppe Agnone furono dopo accanita lotta arrestati, condotti a Terracina,
processati, condannati e giustiziati, come avvertii, il 13 agosto. Non vollero
saperne di religiosi conforti e morirono come due stoici antichi, destando
l’ammirazione della folla immensa che si accalcava sulla piazza per assistere
al supplizio, convenutavi da tutti i paesi circonvicini, chiamata dalla grande
notorietà del Pistillo.
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