XXVIII.
L’inesorabile vendetta.
Era una fresca mattina di primavera: il sole levante
spargeva una luce blanda e quasi rosea sulla verzura della campagna; gli
uccelletti gorgheggiavano sulle piante, dalle fronde tuttora irrorate di
rugiada, il saluto al dì nascente. Una lieve brezza montana agitava i
fiorellini sui loro gracili steli e saturava l’aere di aromi silvestri. C’era
una pace d’amore nella natura che incantava e avrebbe reso poeta anche me,
Giovanni Bugatti detto Mastro Titta, che in fatto di versi conosco solo il
rantolo de’ miei impiccati e i queruli lamenti dei giustiziandi paurosi.
Margherita e il suo drudo, levatisi sul far dell’alba,
s’erano incontrati al solito luogo di convegno e si avviavano verso la porta
della città, allegramente cianciando:
— Dunque il tuo uomo?...
— Se ne è andato ieri per certe compere di vaccine e starà
fuori una settimana buona.
— E il vecchio?
— Il vecchio mi tiene il broncio. Da quella notte che venne
a bussare e non gli aprii, non mi ha più importunato.
— Gli fosse nato qualche sospetto?
— Non c’è pericolo. D’altronde che vuol egli? Lo tollero, è
anche troppo. Non ti pare?
— Altro che parere! Per parte mia vorrei che gli pigliasse
un accidente dove si trova.
— A letto, poveraccio.
— Tanto meglio: così non avrebbe a soffrire.
— E chi ci farebbe poi le spese?
— Deve aver del denaro quel macellaro.
— Ne ha di certo. Ma ciò che è suo, non è mio.
— Dovrebbe però diventarlo.
— Così fosse.
— Che faresti?
— Prima di tutto manderei a farsi ammazzare Beppe.
— E se non volesse andare?
— Te ne incaricheresti tu?
Questa domanda lanciata così a bruciapelo dalla formosissima
donna fece correre un brivido per fossa al giovane. Ma eran giunti in quel
punto alla porta ed era naturale che il drudo non rispondesse.
Precedettero in silenzio per parecchi minuti, finché
giunsero all’aperta campagna. La strada era deserta. Soltanto giù per i colli
si vedeva qualche contadino intento ai lavori agrari.
— E poi? — chiese finalmente il giovinotto, nelle vene del
quale ricominciava a fermentare il sangue.
— Poi? Sarei tua, tutta tua, esclusivamente tua.
Il giovane inebbriato da queste parole cinse col braccio
sinistro la vita di Margherita e passatole il destro intorno al collo l’attirò
dolcemente a sé e la baciò con fervore.
La donna corrispose con pari ardore al bacio ed
all’amplesso.
E così continuarono per buon tratto di strada, folleggiando,
cogliendo fiori, abbracciandosi e ripetendosi giuramenti d’amore e
rincorrendosi l’un l’altro, come giovanetti innamorati.
— Oh! se potessimo passar la vita eternamente così — esclamò
in un momento d’ebbrezza la donna, mentre l’amante presala improvvisamente fra
le braccia a tergo le premeva, il turgido seno e la baciava sulla bocca, avendo
ella rovesciata indietro la testa.
— Sempre così? dipende da te.
— Da me? E come mai? — domandò Margherita fermandosi di
botto.
— Incomincia a sbarazzarti del vecchio.
— Vorresti?
— Perché no? Conosco una strega che compone filtri amorosi.
— Ebbene?
— Propinandogliene ogni giorno in dose abbondante...
— Mi annoierebbe anco più del solito — interruppe la donna,
alzando le spalle, come se dalle parole dell’amante avesse tratta una
delusione.
Il giovane si era fermato anche lui. La strada in quel punto
faceva gomito e il fianco coperto d’arbusti, formava una specie di chiosco
aperto sul davanti, chiuso dietro, con una banchina naturale nel mezzo.
— Vieni qui al mio fianco, ascoltami: — riprese l’amante
andando a sedersi sulla banchina e traendosi dietro Margherita per una mano.
— Continua pure. Ma mi pare una grande pazzia quella che tu
pensi.
— È il mezzo più sicuro per togliersi dai piedi un uomo
innanzi negli anni, senza aver poi impicci. Il filtro amoroso agisce, tu
l’assecondi con quanto maggior ardore ti è dato. Nel delirio della passione,
fra un trasporto amoroso e l’altro, ottieni da lui tutto ciò che ti piace e in
brevi giorni il vecchio, disfatto, se ne va.
— E tu vorresti?...
— Voglio averti mia, tutta mia, esclusivamente mia, come
dicevi poc’anzi, mormorò il giovanotto cingendola di bel nuovo colle braccia, e
suggellandole la bocca colle proprie labbra.
Ma in quel mentre s’udì un fruscio di fronde dietro il
chiosco e i due amanti balzarono in piedi spaventati.
— Che c’è? — domandò Margherita sgomenta; e l’altro per
chetarla, prontamente rispose:
— Nulla, qualche lepre, od altro selvatico...
Non terminò la frase, perché due uomini sbucati dietro la
fratta si gettarono sopra di lui e lo buttarono a terra, prima che potesse
rinvenire dalla sorpresa e porsi sulla difensiva.
Il più accanito era il più anziano. Non aveva quasi più
aspetto umano, tanto l’odio che gli gonfiava il petto lo aveva trasfigurato.
Inginocchiato sopra il giovane lo teneva colla sinistra
afferrato per il collo, e colla destra gli vibrava coltellate su coltellate.
L’altro assalitore, pur ansioso di colpirlo, teneva il coltello sollevato sopra
l’infelice e studiava il posto in cui ferirlo. La donna si cacciava disperata
le mani nelle chiome, non sapendo decidersi, né a far cessare quella
carneficina, né a fuggire.
Aveva riconosciuto Beppe e il macellaro e sopraffatta dallo
spavento, pareva attendesse a sua volta la morte, conscia d’averla meritata.
I due assassini non tardarono molto a rialzarsi. Sfogata la
libidine del sangue, saziata la sete di vendetta, essi compresero che dovevano
provvedere alla loro salvezza.
Beppe le si avvicinò, e presala per una mano, mentre essa
faceva con ambedue schermo alla vista, la trascinò innanzi al cadavere
dell’ucciso amante, e gli disse:
— Bada bene! Questa fine faranno tutti gli amanti che
arrischiassi di prendere. Quanto a te, ben altro ti aspetta, se osassi fiatare
su quanto hai visto.
Il macellaro s’era frattanto recato il cadavere sulle spalle
e disse a Beppe:
— Andiamo a seppellirlo.
— Vattene! — intimò il Brunelli a Margherita — e se qualcuno
ti interrogasse, mozzati la lingua coi denti, piuttosto che parlare!
Soffriresti meno.
Margherita si mosse automaticamente, quasi obbedisse a
tutt’altra volontà che la sua. Pareva in istato di sonnambulismo. Pallida come
una morta, cogli occhi spenti e cerchiati di nero, le labbra livide e cascanti
agli angoli, rifece quella strada che pochi momenti prima aveva percorso,
inebbriata d’amore, gaia, festosa, ansiosa di piaceri e di godimenti.
Brunelli smosse co’ piedi la terra inzuppata di sangue e ne
fece scomparire le traccie; quindi s’avviò dietro il Paoletti, che si era messo
per una stradicciuola traversale. Camminarono per un quarto d’ora, Beppe aveva
chiesto al macellaro:
— Volete che vi aiuti? Il fardello dev’essere pesante.
— Non occorre, aveagli risposto il Paoletti, lo porterei
volentieri in capo al mondo: è un piccolo servigio che gli rendo.
La stradicciuola menava ad una spianata ov’erano parecchi
pozzi di calce.
— Adesso dammi una mano, disse il macellaio.
Beppe si fece innanzi e prese per i piedi il cadavere, che
l’altro aveva deposto a terra, il macellaro lo afferrò per le spalle e, dopo
averlo bilanciato un po’, lo gittarono nel pozzo più ampio.
— Terminato! esclamò, emettendo un sospiro di soddisfazione,
Agostino Paoletti.
— Ed ora? domandò il Brunelli.
— Ora è meglio che tu te ne vada pe’ tuoi affari e resti
fuori per una settimana ancora, come avevi annunziato. Eccoti del denaro, se ti
serve. E porse una borsa al sensale, il quale se la pose tranquillamente in
tasca, dopo averla per un istante palleggiata in mano.
— Io, continuò il macellaro, torno a Gubbio. Non istare in
pensieri. Se ci saranno novità te ne farò avvertito.
Così i due complici si lasciarono.
Rientrando in casa la sera il Paoletti, trovò Margherita
seduta su di una scranna, silenziosa, immobile. Le si accostò e parve ch’ella
non lo riconoscesse. La scosse con una mano e non mostrò avvertirlo.
Tutti gli sforzi fatti per richiamarla in sentore furono
frustrati. Il macellaro pensò bene di andarsene a letto, sperando che durante
la notte, o si sarebbe scossa da sé, o un’idea sarebbe venuta a lui. Ma
all’indomani mattina, la trovò tuttora immobile, silenziosa e cogli occhi
sbarrati sempre allo stesso posto.
Convenne chiamare un medico il quale la dichiarò alienata di
mente e la fece trasportare all’Ospedale, non potendosi lasciarla abbandonata a
se stessa.
Due giorni dopo venne trovato nel pozzo della calce il
cadavere dell’assassinato: ad onta delle bruciature sofferte si riconobbero sul
suo corpo le ferite infertegli dai coltelli di Paoletti e di Brunelli e tosto
la voce pubblica accusò costui del delitto.
Il fiscale ne ordinò la ricerca e l’arresto che venne
prontamente eseguito. Tradotto in Gubbio dai sbirri fu tosto posto a confronto
della ganza; la quale alla sua vista fu assalita da una crisi nervosa,
susseguita da un deliquio quasi mortale.
La prova era assai grave, ma non definitiva e il Brunelli
negava ostinatamente, dicendo di non saperne nulla. Continuarono le indagini.
Si trovò l’oste, dal quale Margherita si recava coll’amante, e questi abilmente
interrogato finì per confessare che il macellaio era stato da lui e aveva
voluto una camera vicino a quella in cui si trovavano i due amanti, che vi era
pur tornato col sensale e che nella medesima camera avevano pranzato insieme.
Posto a confronto anche con costui, Beppe Brunelli negò
tutto e trattò l’oste da pazzo. Intanto era stato arrestato anche Agostino
Paoletti, perché dalle investigazioni fatte risultò che egli aveva una tresca
con Margherita, della quale il Brunelli doveva essere informato e consenziente.
Così l’istruttoria pervenne a ricostruire il dramma. Anche il macellaio fu
condotto innanzi alla pazza e questa appena lo vide si rizzò a sedere sul
letto, sul quale si trovava, e fulminandolo collo sguardo, che aveva ripreso in
quel momento tutti i suoi bagliori, gridò:
— Assassino! Assassino!
Quindi ricadde riversa sul letto.
Ma le prove indiziarie per quanto schiaccianti non
bastavano, né poteva valere l’asserzione di una demente.
Si dovette ricorrere ad uno stratagemma. Si fece credere al
Brunelli che il macellaro aveva tutto confessato. E siccome l’istruzione aveva
assodato i fatti, il colpo riuscì magistralmente. Beppe dopo lunghe
tergiversazioni, finì per fare una confessione ampia del delitto, precisandone
i particolari. E alla sua tenne dietro quella del Paoletti.
Fu un trionfo per i giudici che avevano condotto innanzi il
processo. E la condanna alla forca per entrambi, non si fece aspettare. Io la
eseguii, come dissi, la mattina del 6 luglio, con grandissimo concorso di
gente, che restò ammirata dal contegno dei due delinquenti, i quali chiesero ed
ebbero i religiosi conforti e morirono da buoni cristiani, senza spavalderia e
senza viltà. L’eco del processo si ripercosse da un capo all’altro d’Italia.
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