XXIX.
Omicidio brutale.
Il giorno 12 dicembre 1807 chiusi le mie operazioni di
quell’anno impiccando a Narni Giuseppe Romiti, al quale toccò l’onore di
iniziare il secondo centinaio delle mie esecuzioni di giustizia, nello Stato
Pontificio.
Il delitto commesso dal Romiti è per i suoi particolari, uno
dei più feroci, dei più barbari e dei più strani che nel lungo corso della mia
esistenza io abbia avuto incarico di punire colla morte. Era Giuseppe Romiti un
vignarolo dei dintorni di Narni. Avaro, egoista, crudele, egli era odiato,
quanto temuto. Viveva solo come bestia, senza un amico, senza porsi mai nel
consorzio dell’altra gente. Si assoggettava a privazioni di ogni maniera per
accumular danaro. Aveva moglie, ma il suo matrimonio non era stato benedetto
dalla prole. Convivevano con lui due sorelle e non aveva voluto maritarle mai,
per non sborsare un soldo di dote. Aveva pure un fratello minore, che aveva
condotta in sposa una onesta e laboriosa fanciulla, che lo aveva reso padre di
due bambini, ma per questi pure non aveva un sorriso mai, sebbene fossero i
soli in casa, ai quali usasse qualche riguardo e non limitasse il vitto. Egli
avrebbe voluto educarli tristi, come lui e soleva dire che quando si sarebbero
fatti grandicelli, li avrebbe tolti ai loro genitori, perché non crescessero
disutili com’essi.
Fra tante cattiverie aveva solo un sentimento buono ed era
quello di voler continuata e ricca la sua famiglia.
Da qualche tempo Giuseppe Romiti si era accorto che si
commettevano dei piccoli furti agresti nel suo poderetto. Ma per quanta
vigilanza esercitasse, non era mai riuscito a cogliere i ladri.
— Se mi vien fatto di pigliarli, ripeteva ad ogni tratto,
giuro d’impiccarli colle mie mani.
Nel podere aveva un frutteto, coltivato con grande cura, ed
amava i superbi alberi ai quali dedicava di giorno le sue fatiche, di notte i
suoi pensieri. Fra questi alberi primeggiava un magnifico pero, carico di
frutti, che il sole autunnale andava indorando e che formava la sua delizia e
il suo orgoglio. Aveva calcolato, che raccogliendo i frutti ben maturi ne
avrebbe ricavata una somma per lui non indifferente e il buon tempo lo faceva
indugiare all’opera.
Un bel mattino levatosi più presto del consueto e recatosi
ad esaminare il suo piccolo tesoro, lo trovò completamente spogliato. I ladri
non avevano lasciate sulla pianta che le poche pere danneggiate ed immature.
La sua rabbia salì all’altezza del furor bianco. Non disse
verbo tutto il giorno. Non chiese notizie a nessuno. L’ira gli dava una specie
di chiaroveggenza. Gli era entrata nell’animo la persuasione che avrebbe colto
i ladri e che avrebbe potuto finalmente vendicarsi di tutti i furti patiti.
Calata la sera, finse d’andarsene a letto e ci si buttò
infatti, ma vestito. E quando il silenzio profondo che regnava nella casa lo
avvertì che tutti erano andati a dormire, scese pian piano nell’orto e andò a
rimpiattarsi in un vivaio d’alberi nani. Aspettò lunghe ore, senza fare un
movimento. Aspettò colla certezza nel cuore che i ladri sarebbero venuti e con
essi il momento di sfogare il livore che aveva nell’animo.
Incominciavano le stelle a impallidire e la tinta del cielo
a farsi un po’ più chiara, quando udì uno stormir di foglie, dal lato della
siepe, che divideva il frutteto dalla strada. Tese l’orecchio e sentì il rumore
di passi, benché lievissimi. Il rumore si avvicinava. Alzò la testa e vide un
giovinetto a pochi passi da lui, con un canestro sotto il braccio, che si
avvicinava ad un albero di pere, meno bello di quello spogliato, ma pur
promettente.
Non si mosse. Volle che il furto avesse un principio
d’esecuzione. Non attese molto: il giovane scalzo, abbracciato il tronco
dell’albero, vi si arrampicava. Aveva già afferrato un grosso ramo e stava per
prendere lo slancio e salirvi sopra, quando Giuseppe Romiti balzò fuori del suo
nascondiglio.
Rizzarsi, afferrare il disgraziato ladro per le gambe,
tirarlo a terra e montargli colle ginocchia sul petto, fu un affare di pochi
secondi.
— Pietà, padron Beppe, pietà di me e della mia povera mamma
— mormorava supplicando l’infelice.
Il Romiti non udiva, o almeno non rispondeva: stette un
momento in forse, pensando qual morte dovesse fagli fare. Una truce idea gli
balenò alla mente: lo denudò, quindi legatogli i polsi e i piedi, salì lesto,
come uno scoiattolo, sopra l’albero, passò il capo della corda attraverso due
grossi rami, le cui cime colla forza poderosa delle sue braccia riuscì a
riunire: quindi sciolto il nodo che gli avvinceva le gambe, legò i due piedi
ognuno ad uno dei capi dei rami. Questi abbandonati a se stessi si staccarono e
il corpo dell’infelice fu spaccato come quello di un agnello, appeso ai ganci
da un macellaro e tagliato a mezzo.
Compiuta l’orribile vendetta, Giuseppe Romiti, scese dall’albero.
Passava in quel momento suo fratello che recavasi al lavoro; egli lo chiamò e
gli offrì la vista di quel tremendo spettacolo.
Poche ore dopo si consegnava da se stesso al bargello di
Narni. Eretto il processo fu condannato all’impiccagione per «barbaro
omicidio», ed io la eseguii. Morì impenitente, coraggiosamente e soddisfatto
dell’opera propria.
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