XXXIV.
Ultime parole di un
condannato.
Quando il giudice ebbe mostrato a Francesco Perelli il
ritratto di Virginia e questi lo aveva riconosciuto, il compito dell’istruzione
del processo divenne facilissimo. L’accusato narrò per filo e per segno la
storia degli amori di sua sorella coll’assassinato, quale l’aveva risaputa dal
vicinato. Virginia venne chiamata in testimonianza. Il suo incontro col
fratello fu straziante.
Ella completò le deposizioni di Francesco, senza cercare di
aggravarne la posizione, né di offendere la memoria dell’ucciso suo amante, del
quale vantò l’affezione e la nobiltà del trattamento fattole, in espiazione
della seduzione.
Francesco sbuffava d’ira, udendola parlare in favore della
vittima e diede in escandescenze feroci, facendola segno di contumelie e
vituperi ed imprecando alla sorte che non gli permetteva di uccidere pure lei,
come il suo drudo.
Questo alienò all’accusato l’animo dei giudici e Francesco
Perelli ad onta delle circostanze che attenuavano la parte del suo misfatto fu
condannato a morte, mediante strangolamento. Udì imperterrito la sentenza, ed
esortato a prepararsi ad una buona morte rispose che vi si era preparato fin
dal momento in cui aveva deliberato l’uccidere il traditore della sua famiglia,
il seduttore di sua sorella. Invitato a perdonare se voleva essere perdonato,
replicò che avrebbe perdonato se avesse potuto uccidere anche la Virginia,
perché così avrebbe cancellata l’onta di cui s’era coperta. Sollecitazioni,
preghiere, minaccie a nulla valsero. Non volle saperne di confessarsi, respinse
i confortatori e morì impenitente, movendo francamente dalla carretta ai
gradini del patibolo. Mentre stavo per buttargli il laccio al collo, si scansò
rapidamente e rivolgendosi alla folla gridò:
— Popolo impara come si vendica dei nobili e come ben si
muore vendicati.
Pochi momenti dopo era lanciato nell’eternità.
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