Silvio Pellico
Dei doveri degli uomini

CAPO DECIMOSETTIMO.   Pentimento ed ammènda.

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CAPO DECIMOSETTIMO.

 

Pentimento ed ammènda.

 

Raccomandandoti di bandire l'inquietudine, t'ho accennato che non dèvi impigrire, e principalmente non dèvi impigrire nell'assunto perpètuo di migliorarti.

L'uomo che dica: «La mia educazione morale è fatta; e le òpere mie l'hanno corroborata», s'inganna. Noi dobbiamo sèmpre imparare a regolarci pel giorno presènte e pe' venturi; dobbiamo sèmpre tener viva la nòstra virtù, producendone nuovi atti; dobbiamo sèmpre por mente a' nòstri falli e pentircene.

Sì, pentircene! Nulla di più vero di ciò che dice la Chièsa: che la nòstra vita debb'èssere tutta di pentimento e d'aspirazione ad ammendarci. Il cristianesimo non è altro. E lo stesso Voltaire, in uno di que' momenti che non era divorato dal furore di schernirlo, scrisse: - «La confessione è còsa eccellentissima, un freno alla colpa, inventato nella più remota antichità; regnava l'uso di confessarsi nella celebrazione di tutti gli antichi mistèri. Noi abbiamo imitato e santificato quella savia costumanza: ella è òttima per condurre i cuòri ulcerati d'odio al perdono. (V. Quest. encicl., tomo III).»

Ciò di che Voltaire osò qui convenire, sarèbbe vergogna che non fosse sentito da chi s'onora d'èssere cristiano. Porgiamo ascolto alla cosciènza, arrossiamo delle azioni che ci rimprovera, confessiamole per purificarci o non cessiamo da questo santo lavacro sino alla fine de' nòstri giorni. Se ciò non s'eseguisce con volontà sonnolenta; se i falli da chi li rammèmora non si condannano colle sole labbra; se al pentimento va congiunto un verace desidèrio d'ammènda, rida chi vuòle, ma nulla può essere più salutare, più sublime, più degno dell'uòmo.

Quando conosci d'aver commesso un tòrto, non esitare a ripararlo. Soltanto riparandolo avrai la cosciènza contènta. L'indugio della riparazione incatena l'anima al male con vincolo ogni più fòrte e l'avvezza a disistimarsi. E guai allorchè l'uòmo internamente si disistima! Guai allorchè finge stimarsi, sentèndosi nella cosciènza un putridume che non dovrebb'èssere! Guai allorchè crede che, avendo tal putridume, non siavi più altro a fare che dissimularlo! Ei non ha più un grado fra i nòbili ènti; egli è un astro caduto, una sventura della creazione.

Se qualche impudènte giovine ti chiama debole perchè non t'ostini, com'egli, ne' mancamenti, rispondigli, èsser più fòrte chi resiste al vizio che chi lasciasi da esso strascinare; rispondigli l'arroganza del peccato èssere falsa fòrza, dacch'è certo che al letto della mòrte, salvo un delirio, ei la pèrde; rispondigli, la forza di cui sèi vago èssere appunto quella di non curare lo scherno, quando abbandoni il sentièro malvagio per quello della virtù.

Quand'hai commesso un tòrto, non mentir mai per negarlo od attenuarlo. Debolezza turpe è la menzogna. Concèdi d'aver errato; qui vi è magnanimità: e la vergogna che ti costerà il concedere ti frutterà la lode dei buòni.

Se t'avvenne d'offèndere alcuno, abbi la nòbile umiltà di chiedergliene scusa. Siccome tutta la tua condotta mostrerà che non sèi un vile, nessuno ti chiamerà vile per ciò. Ostinarsi nell'insulto, e piuttosto che onoratamente disdirsi, venire a duèllo od a perpètua inimicizia sono buffonate d'uòmini supèrbi e feroci, sono infamie cui mal si sforzano d'apporre il nome brillante d'onore.

Non v'è onore che nella virtù, e non v'è virtù, che a patto di continuamente pentirsi del male e proporsi l'ammenda.

 

 

 


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