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Eugenio Barbarich
La campagna del 1796 nel Veneto

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  • CAPO I.   Le fonti della milizia veneta.
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CAPO I.

 

Le fonti della milizia veneta.

 

La sera del 2 giugno 1796 deve essere stata assai tragica per i senatori veneziani convenuti al casino del procuratore Pesaro, alla Canonica2, per deliberare intorno a gravi oggetti concernenti la Repubblica. Il provveditore generale in Terra Ferma, Nicolò Foscarini, aveva avuto il avanti, sotto Peschiera, un colloquio burrascoso con il generale Buonaparte, gli era riuscito a rabbonirlo che a prezzo di dolorose abdicazioni per la dignità della vetusta Serenissima. E l'uomo nuovo, con la visione dinanzi agli occhi di sconfinati orizzonti di gloria, si era trovato di fronte all'uomo del passato, che vedeva chiudersi per la sua patria quegli orizzonti medesimi sotto il velo grigio e melanconico del tramonto.

Il generale Buonaparte aveva accusato il Senato Veneto di tradimento per avere permesso giorni avanti agli Austriaci di occupare Peschiera, di slealtà per avere dato asilo in Verona al conte di Lilla, di parzialità colpevole - come egli diceva - per male corrispondere alle pressanti esigenze di vettovaglie e di carriaggi da parte dell'esercito francese, di neutralità violata infine in vantaggio dei nemici suoi, gli Austriaci.

Ora, di tutto questo, Buonaparte aveva dichiarato al vecchio Foscarini di doverne trarre aspra vendetta per ordine del Direttorio, incendiando Verona e marciando contro Venezia. Il rappresentante Veneto, atterrito, era riuscito alla fine a indurre il focoso generale a più umani consigli ed a salvare Verona, ma più con l'aspetto della sua desolata canizie che con la virtù della parola, a condizione però «che le truppe del generale Massona fossero ammesse in città, occupassero i tre ponti sull'Adige,avvertendo che le minime rimostranze che si imaginassero di fare i veneti riuscirebbero il segnale dell'attacco3».

Tra l'incendio e l'occupazione militare non era dubbia la scelta, ed al Foscarini fu giocoforza di cedere. Duramente Buonaparte aveva rifiutato al vecchio provveditore perfino il tempo necessario, per prendere gli ordini dal Senato e lo aveva accomiatato «con i modi che il vincitore detta leggi al vinto4».

Era il principio della fine della Serenissima. All'udire i dolenti messaggi del Foscarini, l'accolta dei senatori veneti alla Canonica, pavida, discorde, sfiaccolata, non trovò altro rimedio al male che spacciare due Savi del Collegio a Verona per assistere il provveditore in altri colloqui con il generale Buonaparte, quasi che il loro mandato fosse quello di sorreggere con le dande gli estremi passi del valetudinario diplomatico e della agonizzante Repubblica.

La fiducia nelle arti della parola e del protocollo rappresentava ancora, agli occhi dei contemporanei, l'ultima àncora di salvezza, perchè i tempi di Sebastiano Verniero e di Francesco Morosini erano trascorsi da un pezzo. Ed i due nuovi eletti in quella tumultuaria adunanza notturna per implorare mercè al vincitore di Dego, di Millesimo e del ponte di Lodi, furono Francesco Battagia e Nicolò Erizzo I. Essi partirono sùbito alla volta del campo francese sotto Verona, recando seco «40 risme di carta di buona qualità, 12 risme di carta piccola da lettere lattesina, 2000 penne, 3000 bolini grandi ed altrettanti piccioli, 36 libbre di cera Spagna, un barilotto di inchiostro, 6000 fogli di carta imperiale, registri, spaghi e spaghetti in grande quantità»5. La burocrazia aulica della Serenissima, in difetto di soldati e di armi, così provvedeva alla difesa delle sue città murate e del suo territorio.

A quel tempo, l'esercito veneto si era oramai consunto per vecchiezza. I lunghi e sfibranti periodi di pace e di neutralità in cui l'inazione suonava colpa e l'assenteismo politico della Repubblica, prolungata offesa alla dignità del vecchio e glorioso Stato italico, l'abbandono, lo scadimento d'ogni istituto, lo scetticismo e l'indifferenza, avevano siffattamente prostrata la milizia veneziana da imprimere sul suo volto, un tempo già gagliardo e raggiante per le vittorie d'Italia e d'Oriente, le rughe più squallide della decrepitezza ed il marchio più profondo della dissoluzione.

La bella e radiosa visione del monumento a Bartolomeo Colleoni, fiera ed energica come il suggello di una volontà prepotente, stupenda come l'annunzio di una vittoria pressochè astratta dall'ordine dei tempi, grado a grado si era dileguata nell'esercito della Serenissima, come svanisce un sogno carezzato alla luce di una triste realtà.

 

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Il nerbo degli armati della Serenissima traeva origine da due provenienze distinte: i mercenari e le cerne. E queste e quelli, per la comunanza del servizio sul mare, ritraevano un tal carattere anfibio che imprimeva alla milizia veneta fisionomia ed atteggiamenti del tutto diversi dalle altre milizie contemporanee.

Queste due fonti si erano nel passato così bene intrecciate assieme, da dar vita ad un fiume ricco d'acque e poderoso nel quale, in determinati e non infrequenti periodi della storia, si erano come trasfuse tutte le tradizioni militari dei Comuni e degli Stati dell'Italia.

Il mercenarismo rampollava dalle antiche compagnie di ventura e ne aveva dapprincipio tutto il sapore e tutto lo spirito, considerate le forme repubblicane della Serenissima e le tendenze della sua società aristocratica e marinara. Questo spirito, a grado a grado, si era modificato e quasi plasmato sotto il ferreo stampo fortemente unitario degli istituti veneziani del Rinascimento; sicchè il mercenarismo, tratto fuori dal martellare delle passioni partigiane e dall'angusta cerchia delle passioni cittadine, aveva alla fine assunto in Venezia una individualità più piena, lineamenti più decisi e sicuri da organismo di Stato.

Infine la medesima stabilità ed unità degli ordini oligarchici veneti, l'èsca dei largheggiati premi, il miraggio delle accumulate ricchezze, il cemento glorioso del sangue prodigato per un vincolo mistico e positivo insieme - quello della fede e della pubblica economia rivendicate sotto i fieri colpi del Turco - avevano contribuito ad imprimere a quel vecchio istituto militare del Trecento una fisionomia veneta. schiettamente originale, che sembrava quasi fusa dentro l'orma formidabile del leone di San Marco.

Nel frattempo il periodo eroico della guerra di Cambrai, delle lotte di Candia e delle campagne del Morosini erano volti al tramonto6. La Serenissima divenuta più sollecita di conservare che di conquistare, aveva stimato savio consiglio quello di fare più largamente partecipi de' suoi beni i propri soldati, specie i mercenari dalmati, allo scopo di meglio stringerseli dattorno con i vincoli della gratitudine e dell'interesse, con quei legami di amorevolezza che suscitano il reggimento paterno e la coscienza della solidarietà delle fonti del comune benessere.

Questo cammino, che sapeva del romano antico, pareva bello e fiorito ma celava non pochi rovi e non poche spine. La Serenissima, fatta vegliarda, largheggiò per troppa debolezza in autonomie, in franchigie e donativi a benefizio de' suoi soldati di mestiere, ed apparecchiò fatalmente a medesima ed alle istituzioni militari quella rovina che, in altri tempi, aveva annientato il vigore delle colonie legionarie di Roma. Anzitutto, quella continua e gagliarda corrente di forze fresche e nuove che, dal littorale dalmata, rifluiva ai dominî di Terraferma e di Levante per rinsanguare le schiere dei così detti reggimenti di Oltremarini - levati in origine per servire sulle navi - cominciò ad inaridire pel tralignare degli ordini feudali in Dalmazia e pel diffondersi del benessere nelle repubbliche marinare e nei municipi liberi. Infine, il difetto di stimolo alle audaci imprese - primo incentivo allo spirito di ventura - e le lunghe paci, lo asfissiarono e l'uccisero come sotto le distrette di una enorme camicia da Nesso. Le angustie finanziarie compirono l'opera.

Così le truppe levate per ingaggio tanto Oltremare che in Italia principiarono a morire a medesime. Francesco Morosini già da tempo aveva avvisata questa lenta ruina, quando per mantenere a numero il suo esercito del Peloponneso aveva dovuto ricorrere ai rifiuti di pressocchè tutti i mercati d'uomini d'armi d'Europa ed incettare, coi Toscani e Lombardi, anche gli Svizzeri, gli Olandesi, i Luneburghesi ed i Francesi; di guisa che con cosiffatta genia - come egli disse - corse rischio non già di dettare legge al nemico bensì di riceverla dai suoi soldati medesimi7.

Nel 1781, come risulta dai piedilista, ruoli organici e stanza dei corpi insieme delle milizie venete redatti dall'inquisitore ai pubblici rolli, mancavano 654 oltremarini nei presidi di Levante, 353 in quelli di Dalmazia, 263 in quelli del Golfo e 42 infine in quelli d'Italia. In totale 1312 soldati oltremarini mancanti, su 3449 che dovevano essere presenti alle armi in quell'anno, suddivisi in 99 compagnie ed 11 reggimenti8.

In questo intervallo i nobili dalmati - feudatari un tempo, poi condottieri eroici e devoti delle milizie venete di ventura, modificate e migliorate nel senso di cui sopra è cenno - si erano venuti imborghesendo grado a grado9. L'antico privilegio loro di levare e di vestire i propri fanti con le vistose casacche cremisine e di donarli poscia, come in simbolo di fede ardente e di accesa devozione alla Serenissima, era degenerato col tempo e diventato un mercimonio tra le mani venali degli ingaggiatori, dei capi-leva e degli ingordi racoleurs.

La Serenissima tentò dapprima di ravvivare i sopiti spiriti bellicosi di quella nobiltà, un po' distratta dalle fortune commerciali della Repubblica ragusèa, dalle libertà comunali di Spàlato e di Zara e dalle autonomie di Poglizza, col largire nuovi privilegi, decime, concessioni e bacili di formento. Ma la prodigalità attizzò alla fine l'avarizia e non accese i desiderati spiriti di patriottismo, talchè i deputati et aggionti alla provvigion del dinaro nell'agosto del 1745 si videro obbligati a porre un freno alla disastrosa ed infruttuosa corrività della Repubblica verso la nobiltà dalmata; corrività che minacciava, di rovinare le «camere (tesorerie) di quelle province, costringendo per questo oggetto a farsi più abbondanti et frequenti le missioni di pubblico danaro per le esigenze di quelle parti»10.

più valeva a risollevare l'intisichito spirito di ventura tra i Dalmati - i mercenari per eccellenza - l'imagine della forza e della potenza guerriera della Serenissima. Le parvenze esterne dell'imperio, alle quali si affidava buona parte del suo prestigio presso le popolazioni soggette, erano precipitate a quel tempo in uno stato di abbandono colpevole. «Le fortificazioni di Levante, della Dalmazia e dell'Albania - scriveva nel 1782 il brigadiere degli ingegneri Moser de Filseck al Doge - sono in uno stato di desolazione tale da commuovere a riguardarle... A Zara, ogni parte delle opere componenti i recinti e le fortificazioni è in rovina... Spàlato è in decadimento, ed un nemico può eseguirvi un colpo di mano, a suo talento... Lo stato infine del forte S. Francesco a Cerigo fa rabbrividire pel decoro del Principato»11.

Le armi vecchie e rugginose avevano dunque disamorato i venturieri a detergerle in Italia, ed Oltremare. Restava soltanto qua e per la Dalmazia ed in Levante qualche guizzo del fulgore antico, raccomandato ad un sentimento di gratitudine giammai sopito nel cuore delle genti d'altra riva dell'Adriatico verso la Veneta Repubblica, che le aveva raccolte sotto le proprie ali nei tempi più travagliati della Cristianità e difesi contro il Turco. Ed a questi sentimenti, le ultime compagnie di ventura italiane avevano raccomandato i loro estremi giorni di vita a Venezia.

 

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L'altra fonte delle milizie venete era rappresentata dalle cerne , che fornivano soldati dei luoghi ordinati con previdenze territoriali, specie di Landwehr che si levava in tempo di guerra o di neutralità a rincalzo dei mercenari, cioè dei provvisionati. Le cerne venete, o soldati d'ordinanza, emanavano adunque direttamente dal pensiero politico e militare di Nicolò Macchiavelli, che volle l'istituto delle milizie nazionali tratto dal popolo pedestremente armato12.

Costituiva il nerbo delle cerne l'elemento rurale dei domini di Terraferma e d'Oltremare, cui la Serenissima aveva fatto larghe concessioni per rinfrancarlo nel suo innato spirito conservatore ed adescarlo a servire, lietamente ed in buon numero, nella milizia regionale. Di queste prime pratiche conservò memoria il Bembo.

«Deliberò il Senato - egli scrisse - che, nel Veronese, l'anno 1507, un certo numero di contadini che potessero armi portare, si scegliesse e descrivesse; i quali all'arte militare si avvezzassero, e costoro liberi da tutte gravezze fossero, acciò più pronti alle cose della guerra essere potessero, e chiamati alle loro insegne incontanente v'andassero. Il qual raccoglimento di soldati di contado agli altri fini della Repubblica (come suole l'uso essere di tutte le cose maestro) in breve passò e si diffuse. Il perchè ora le ville ed i ragunamenti degli uomini del contado di ogni città, parte de' suoi hanno che a questa cosa intendono, di essere armati ed apparecchiati di maniera che, senza spazio, alla guerra subitamente gire e trovarsi e servire alla Repubblica e per lei adoperare si possono. E queste genti tutte soldati di ordinanza, o cernite, si chiamarono»13.

La guerra della lega di Cambrai, combattuta per l'integrità dei domini della Signoria, consolidò questa milizia paesana e la fece popolare, ad onta dei tentativi fatti per denigrarla - più che tutto dopo lo sbaraglio di Vailate - per opera dei troppo interessati fautori delle milizie assoldate, gli industriali della guerra d'allora. In sostanza, si voleva rovesciare sopra i soldati di ordinanza un po' di quel discredito e di quella noncuranza di cui gli eserciti regolari furono sempre prodighi verso le «guardie nazionali».

Il grande vantaggio delle cerne consisteva, anzitutto, nel loro costo sensibilmente minore in confronto del necessario per mantenere un eguale numero di soldati di mestiere. Toccava infatti al comune di descriverle, di armarle e d'inquadrarle in centurie; laddove questo còmpito, per i soldati di mestiere, toccava ai capi-leva che ne ritraevano un utile per e per la compagnia. Anche i gradi delle cerne, fino a quello dei capi di cento incluso, si attribuivano di massima per elezione nei villaggi che contavano il maggior numero di descritti.

Gli obblighi di questi ultimi erano limitati a cinque mostre o rassegne annuali (mostrini), oltre a talune riviste straordinarie (generali) in luoghi designati, con il comune consenso dei soldati medesimi, escluse però le fortezze, le terre murate, i castelli ed i grossi villaggi. Epperciò le rassegne si compievano d'ordinario in rasa campagna.

Le cerne dovevano presentarsi alle rassegne con le armi che avevano personalmente in consegna dai comuni, come si pratica per lunga tradizione nella Svizzera: le assenze erano punite con la descrizione a galeotto, oppure con la multa di 5 ducati14. In queste rassegne le cerne ricevevano la polvere da moschetto, il piombo e la corda occorrenti per confezionare li scartocci, i quali erano poi verificati dai capitani alla presenza dei capi di cento.

Con queste munizioni i soldati si esercitavano al palio, vale a dire al tiro a segno nei campi appositamente stabiliti.

Dal lato economico adunque le cerne rappresentavano un notevole vantaggio per le finanze della Signoria, una vàlvola di sicurezza all'aprirsi delle guerre, perchè esse esimevano lo Stato dal ricorrere - sotto la pressione del bisogno e sotto il giogo della domanda - al mercato sempre sostenuto dei soldati di mestiere.

 

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Ma il vantaggio delle milizie paesane non era solo d'indole economica - cosa per certo non disprezzabile tenuto conto delle angustie finanziarie in cui versava la Serenissima verso la sua fine - ma anche di natura morale. Lo schietto spirito di regionalità di cui erano come impregnate le cerne, il quale traeva origine dai sani e vigorosi succhi della terra, conferiva loro molto prestigio e dava affidamento di moralità grande, laddove i soldati di mestiere, rifiuto della società del tempo, erano rappresentati dal generale veneto Salimbeni come «sentina d'ogni vizio».

Dalle cerne infatti erano esenti i capi di famiglia, per un patriarcale riguardo riferito alle cose della guerra e nelle famiglie stesse non si descriveva più di un soldato per ognuna, tenendo fermo il concetto di non ammettere in questa milizia che sudditi genuini della Repubblica. Dalle cerne erano inoltre esclusi i servitori, i girovaghi, i condannati ed i galeotti, sicchè l'elemento di esse era incomparabilmente migliore di quello dei soldati di mestiere, tra i quali si accoglievano «tutti gli oziosi ed i vagabondi che dalla Terraferma si spediscono in castigo nelle province di Oltremare, per cui cresce la massa dei vizi e delle corruttele nella truppa, e sono cagione della poca disciplina e del fisico deperimento di essa»15.

Passate quindi le guerre unicamente ispirate al concetto della difesa dei dominî italici, prese il sopravvento la presunzione dei riguardi dovuti in uno Stato marinaresco e repubblicano alla libertà individuale dei propri sudditi, che si voleva completamente arbitra di esplicarsi, senza restrizione alcuna, secondo il miglior rendimento delle energie di ciascuno di essi. La tolleranza dei pubblici uffizi, il benessere diffuso, il vezzo delle neutralità ripetute invariabilmente allo aprirsi di ciascuna campagna, a partire dalla sciagurata pace di Bologna (1530), invogliarono le genti già disamorate delle armi a colorire codeste teorie di liberismo militare con le tinte più accese dell'arte tizianesca. E la presunzione, oppure la consuetudine, per l'ignavia degli uomini e per la debolezza dei tempi acquistò alla fine vigore di legge. La Repubblica, ricca ed imbelle, poteva ben concedersi anche il lusso di comperare i soldati di cui abbisognava per la difesa de' propri domini.

Principiò così a diffondersi la costumanza delle tasse militari, o tanse, cioè del prezzo di riscatto dal servizio dovuto nelle cerne, con il cui prodotto componevasi un fondo destinato ad assoldare altrettanti mercenari. Gli artieri ne approfittarono subito, poi i barcaiuoli veneziani e gli ascritti alle scuole di Santa Barbara, da cui levavansi i cannonieri dell'esercito della Serenissima. E le tanse acquistarono fin d'allora la denominazione di insensibili, perchè essendo ripartite per arte su tutte le persona che le componevano, ne venivano a risultare delle quote d'affrancazione individuale dal servizio molto tenui; vale a dire quasi insensibili.

Cresciuto il favore delle tanse, crebbe in parallelo la corrività delle cassazioni, cioè delle esonerazioni tra le cerne, e divenne facile l'esimersi dal servizio facendosi sostituire per denaro da un altro soldato tratto dalla medesima milizia. Le rassegne caddero col tempo in dissuetudine, si trascurò la vigilanza da parte dei comuni, e questo primo e magnifico esempio di landwehr veneta principiò a languire ed a morire16.

Nella Dalmazia le cerne furono introdotte da Valerio Chierigato intorno all'anno 1570, e si denominarono craine o craicinich. Ma per gli stessi motivi dianzi esposti, esse erano scadute sul finire della Repubblica anche da quelle parti e le loro sorti si erano già accomunate con quelle dei soldati oltremarini o di mestiere.

Così delle due fonti essenziali della milizia veneta - eredità dell'arte italica del Cinquecento - i soldati prezzolati e le cerne, gli uni sopravvivevano ancora alle ingiurie dei tempi ma tutti squassati e ridotti come una larva di medesimi, le altre erano pressochè scomparse dalla scena della vita militare veneziana, o si consideravano tutto al più come un rudere di un vetusto edifizio abbandonato da gran tempo. In questa guisa delle due grandi correnti che alimentavano le vecchie armi della Serenissima e formavano, insieme commiste, un fiume regale gonfio d'acque e fecondo d'energie, non era rimasto che l'ampio alveo, tutto pantani ed acquitrini dai quali emanavano miasmi e malaria.

 

 

 




2 Presso alla piazza di S. Marco. Erano detti casini, al tempo della decadenza della Repubblica, luoghi di generale riunione di liete brigate e da galanti ritrovi.



3 Carteggio del prov. generale in T.F. Filza n. 1 (1796). R. Archivio di Stato dei Frari in Venezia.



4 Ibidem.



5 Carteggio del proc. gen. in T. F. Filza n. 1 (1706). B. Archivio di Stato dei Frari in Venezia.



6 Vedasi per i due primi periodi di tempo la bella scrittura dell'avvocato LUIGI CELLI, dal titolo: Le ordinanze militari della Repubblica Veneta nel secolo XVI, nella Nuova Antologia, vol. LIII, serie III, fascicoli del settembre e del ottobre 1894.



7 A. Dell'acqua Giusti. - I Veneziani in Atene nel 1687.



8 Dettaglio sullo stato militare del settembre 1781, per osservare li generi della milizia reggimentata e disposta nei rispettivi dipartimenti del Veneto Dominio, in confronto al voler dei decreti, nonchè per conoscere il numero difettivo di allora. Formato alla Ragioneria sopra ai rolli, dietro comandi dell'Ecc. Savio Francesco Vendramin, Savio di Terra Ferma alla Scrittura (Archivio Stato, Frari. Deliberazioni Senato Militar 1781. Filza 106).



9 I primi riparti di Oltremarini si levarono nel 1507 e servirono più specialmente da fanteria marina. A partire dalla guerra di Candia si accentuò il loro carattere di milizia ingaggiata, da impiegarsi in modo anfibio, epperciò anche nelle guerre terrestri. Francesco Morosini per le campagne del Levante e del Peloponneso li ordinò in reggimenti regolari.



10 Decreto del 26 agosto 1745. - Stampato per li figliuoli del quondam Z. Antonio Pinelli, stampatori ducali. - Sulle condizioni politiche ed economiche delle città dalmate, si veda l'opera del prof. TULLO EBBER, Storia della Dalmazia dal 1796 al 1814, - Zara, 1886, tip. Woditzka (6 fascicoli).



11 Delib. Senato Militar. Filza 107, anno 1782. (R. Archivio Stato dei Frari in Venezia).



12 Documenti per servire alla storia della milizia italiana dal XIII secolo al XVI, raccolti negli archivi della Toscana e preceduti da un discorso di Giuseppe Canestrini. - Firenze, Vieusseux, 1851. (Archivio Storico Italiano, tomo XV).



13 Bembo. - Dell'Istoria Veneta. Libro I, pag. 350. Lodovico Mostardi. - Storia di Verona dall'origine fino all'anno 1668. Verona, A. Rossi, edit., 1668. - Celli. - Op. cit. in Nuova Antologia.



14 Il ducato veneto, moneta d'argento, corrispondeva sul termine della Repubblica a lire italiane 4,189. (Vedi: PAPADOPOLI, - Sul valore della moneta Veneta. - Venezia 1880).



15 Relazione ai piedilista del 1781 del Savio di T.F. alla Scrittura, Francesco Vendramin (29 dicembre 1781). - Delib. Senato Militar. Agosto-Dicembre detto. Senato I. Secreta, Filza 106



16 Verso la caduta della Repubblica, le cerne erano considerate più ne meno di guardie campestri. Si veda a questo proposito qualche episodio citato nelle Memorie di un ottuagenario di IPPOLITO NIEVO.






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