CAPO
II.
L'amministrazione
centrale della guerra.
Il Savio di
terraferma alla scrittura e le magistrature militari.
Come il rendimento di una macchina
ottimamente costituita si commisura dalla somma di attriti che riesce a
vincere, sicchè il suo lavoro procede rapido, silenzioso e produttivo, così
l'opera proficua di uno Stato si arguisce dall'armonia degli sforzi de' suoi
organi direttivi e dal loro coordinamento, in modo che tutte le energie abbiano
impiego e non si smarriscano in sterili conati, o per superfluità di uffizi o
per contraddizione di còmpiti.
Ora la macchina statale veneta della
decadenza era complicata e rugginosa, epperciò assai pigra e poco produttiva.
Aveva addentellati con molteplici sopravvivenze feudali, intrecci con privilegi
oligarchici, vincoli con un proteiforme organismo amministrativo burocratico e
cancelleresco onusto d'impiegati; sì che tutto impaludava nello apparecchio e
nelle forme e poco o nulla rendeva nella sostanza17. L'amministrazione
della guerra poi - che per il suo istituto più risentiva delle sopravvivenze
del passato - era così multiforme e farraginosa da incontrare attriti ed
intoppi ad ogni passo.
Le cose della guerra mettevano capo al Collegio,
ossia al Consiglio dei ministri della Repubblica, composto di 16 membri, o Savi18.
Di questo Collegio facevano parte il Savio di terraferma alla scrittura
ed il Savio di terraferma alle ordinanze; i due centri esecutivi
dell'amministrazione delle milizie di mestiere e delle milizie paesane, cioè
delle cerne.
Il Savio alla scrittura era preposto, oltre
che all'ordinamento delle milizie stanziali, anche a quello delle
fortificazioni, delle artiglierie e delle scuole militari, e traeva il nome
dall'antico suo ufficio di tenere cioè al corrente i ruoli dei soldati
ingaggiati. Era, in sostanza, il ministro della guerra della Serenissima.
Il Savio alle ordinanze sopravvegliava invece
al governo delle cerne e corrispondeva ad un vero e proprio ministro alle Landwehr,
cioè ad un centro organatore della difesa territoriale.
Queste supreme magistrature militari, come le
altre del Collegio, erano elettive. Più antica - per ragione di precedenza
storica delle milizie prezzolate sulle paesane - era la carica di Savio di terraferma
alla scrittura, il cui istituto venne riordinato al principio del XVI secolo,
quando cioè le armi della Serenissima più sfolgoravano per i domini d'Italia ed
oltremare19. Più recente era invece il saviato alle ordinanze,
largamente citato nella riforma di quelle milizie dettata da Giovanni Battista
Del Monte (1592).
Il Savio alla scrittura (come gli altri
membri del Collegio) durava in carica un semestre, ma poteva essere rieletto
quando fosse spirato un intervallo di sei mesi almeno dal decadimento
dell'ultimo mandato. Ne derivava perciò una specie di oligarchia
politico-amministrativa, vincolata o ad una determinata consorteria oppure ad
un monopolio nei pubblici affari. La molteplicità degli uffici burocratici
accentuando i danni di tale esclusivismo rendeva la macchina statale rigida,
lenta ed improduttiva.
Per le cose della milizia questo monopolio
politico ed amministrativo doveva essere temperato, in origine, dalla carica
del generale in capo. Straniero, di regola, esso era destinato ad impiegare le
truppe in guerra - sotto la responsabilità dei provveditori del Senato
incaricati di sorvegliarlo a mo' dei commissari della Repubblica di Francia -
ed in pace a suffragare della sua autorevole esperienza l'apparecchio delle
armi e degli armati20. Il generale in capo doveva essere infatti una
specie di responsabile tecnico, mentre il Savio alla scrittura non era altro
che un semplice amministratore dei fondi destinati dalla Serenissima al
mantenimento ed all'armamento dei propri soldati. Ed essendo la carica di
generale in capo vitalizia, non pareva gran male che gli uffizi amministrativi
si alternassero attorno ad essa, con vicenda più o meno frequente, emanando da
una ristretta base nella scelta delle persone a ciò deputate.
Ma poichè si resero sempre più rare le guerre
ed il vezzo delle neutralità le confinarono alla fine tra i ferrivecchi, la
benefica influenza moderatrice del generale in capo sulle magistrature
militari, politiche e burocratiche, cominciò a scadere, fintantochè scomparve
del tutto. Rimasero i danni ed i pericoli delle consorterie, senza argine e
senza riparo.
Dopo lo Schoulemburg, distinto generale
sàssone cui la Signoria aveva conferito il titolo di maresciallo e l'incarico
della difesa di Corfù, nel 1716; dopo i generali Greem e Witzbourg - tutti
stranieri ed eletti generali in capo delle forze venete - per amore di
economia21 o per mal concepite diffidenze verso una carica che sembrava
oramai destituita di ogni significato pratico, essa passò in dissuetudine con
il tacito consenso del Collegio, del Senato e del Doge. Da quel punto, il Savio
alla scrittura si rinchiuse senza controllo nelle sue funzioni burocratiche e
cancelleresche e diventò, alternatamente, o una carica monopolizzata dalle
medesime persone - -salvo l'intervallo legale nella rielezione - quando si
trovavano coloro che volentieri la disimpegnassero; oppure un caleidoscopio di
persone diverse prive di competenza e di pratica22 -
Sulla cooperazione del collega alle ordinanze
non v'era oramai più da contare alla fine della Serenissima, perchè questa
magistratura si era completamente atrofizzata. Per formarsi un'idea circa
l'attività e l'importanza di quel Savio, basta citare alcune cifre relative al
maneggio che esso faceva del pubblico denaro per l'amministrazione dipendente.
Nel bilancio pel militar dell'anno 1737, solo 9511 ducati e grossi
21 erano assegnati al Savio alle ordinanze per le cerne, e ducati 309 e grossi
17 per le loro mostre e mostrini; e ciò sopra una spesa totale di
2,060,965 ducati e grossi 11 effettivamente fatta in quell'anno dalla
Signoria per le cose della milizia23.
I migliori Savi avvicendatisi
nell'amministrazione veneta della guerra, non mancarono di levare la loro voce
contro la soppressione della carica di comandante in capo; mancanza che
abbandonava quei magistrati a sè medesimi senza l'appoggio di spiccate capacità
militari che rappresentassero la continuità nello apparecchio degli uomini e
delle armi; e più che tutti, Francesco Vendramin, il miglior Savio alla
scrittura della decadenza della Repubblica. Questi nel 1785 dichiarava infatti
al Doge che il malessere dell'esercito dipendeva dalla rinunzia, fatta da
tempo, «di eleggersi un commandante supremo, dalla cui sapienza e virtù si
possano ritrarre quei lumi e direzioni che valghino a sistemare in buon modo le
truppe»24.
Ma, ad onta di queste franche parole - come
sempre le usava il Savio Vendramin - il generalissimo tanto invocato non venne
a rialzare i depressi spiriti militari dei Veneti, e rimase la burocrazia che
non passa25. Questa intensificò anzi l'opera sua, così da avvolgere il
Savio alla scrittura in una rete inestricabile di intralci e di formalità
innumerevoli.
Esaminiamo in particolare codesto viluppo,
congegnato a bella posta per troncare i nervi ad ogni energia. Il Savio alla
scrittura nell'esercizio delle sue funzioni aveva rapporti con tutte le
magistrature politiche, marinare e civili d'Italia e d'oltremare. Quanto al
reclutamento ed agli assegni in ordine alla forza bilanciata, egli aveva
relazioni con l'Inquisitore ai rolli, con il Savio Cassier e con
i magistrati sopra camere, o tesorerie provinciali: quanto al
reclutamento ed all'ordinamento delle cerne, egli doveva accordarsi con il
collega deputato ad esse. Per le cose attinenti il servizio anfibio
dell'esercito sulle navi armate, egli doveva intendersi con i Savi agli
ordini per le milizie, con i Provveditori generali da Mar, con
quelli in Dalmazia ed Albania, con i Provveditori att'Arsenale ed,
infine, con il Capitanio del Golfo (contado delle Bocche di Cattaro).
Per il riparto ed il servizio territoriale
delle truppe, il Savio alla scrittura doveva prendere accordi con i capitani
e podestà delle province, con il magistrato e con il sopraintendente
all'artiglieria, con il provveditore alla cavalleria, con il sopraintendente
del genio e con i provveditori alle fortezze.
Lo sfruttamento dell'industria privata -
usato sempre in buona misura dalla Serenissima per le cose della guerra -
obbligava inoltre il Savio competente ad una continua vigilanza sui deputati
alle miniere, per quanto si riferiva l'industria metallurgica della
Bresciana e del Bergamasco, e sui capi delle maestranze per le industrie
estrattive dell'alto Cadore26.
Oltre a ciò, per quanto riguardava il
servizio sanitario, l'amministrazione della guerra era in rapporti continui con
i provveditori agli ospedali e con i capi religiosi di talune
confraternite incaricate dell'assistenza degli infermi27; per quanto
concerneva il servizio di commissariato, con i magistrati sopra biade e
frumento, con i Savi alla mercanzia e con i provveditori
all'agricoltura; per quanto rifletteva infine l'amministrazione della
giustizia, con il missier grande, o capo della polizia esecutiva, e con
i governatori alle galere dei condannati.
Nè si arrestava a questo il frantumamento
delle autorità militari venete, spesso discoste l'un l'altra ed animate da
interessi contradditori, e l'intralcio con le magistrature civili. Nei rapporti
aulici e cancellereschi, era deputato ogni settimana un Savio designato a turno
nel Collegio - epperciò detto Savio di settimana - per esporre al Senato
le proposizioni ed i decreti deliberati dal Consiglio. Tale costumanza, per
certo assai comoda, non era però in pratica molto giovevole per la trattazione
degli affari - specie dei militari - rimettendo il patrocinio di essi a mani
del tutto inesperte o ignare.
*
* *
Consideriamo ora un poco questa mastodontica
macchina burocratica in azione. Nel 1784, solo per riformare alcune parti del
vestiario e dell'equipaggiamento della fanteria veneta, riputate o troppo
incomode o troppo costose, convennero assieme in più conferenze il Savio alla
scrittura attuale ed uscito28, i Savi alla mercanzia in numero
di cinque ed il magistrato sopra camere. Ciò nondimeno, dodici anni
dopo, la riforma non era ancora del tutto attuata tra le file dell'esercito
veneto.
Fino dal 1775 il Savio alla scrittura e
l'Inquisitore ai rolli, concordi, deploravano in Collegio e presso il
Principe le tristissime condizioni in cui versavano le artiglierie e le armi
portatili, alle cui deficienze non era più in grado di porre rimedio il vetusto
Arsenale di Venezia. Soltanto sette anni dopo il grido d'allarme venne raccolto
da Francesco Vendramin, in una delle sue riconferme al Saviato alla scrittura,
e la questione venne finalmente da lui posta dinanzi al Doge con criteri da
industria di Stato meglio che moderni.
L'industria militare privata aveva tenaci e
floridissime radici a Venezia, e le armi bianche venete, assai pregiate nella
tempra e nel lavoro del cesello29, avevano una fama incomparabile.
Cresciuto poi il favore delle armi da fuoco, degli archibugi e delle
artiglierie navali e terrestri, le fucine della Bresciana vennero procacciandosi
nell'industria manifatturiera quel nome che si è tramandato fino ai giorni
nostri.
La trasformazione decisa e cosciente
dell'industria militare privata in industria di Stato, avrebbe quindi
corrisposto in modo mirabile alle esigenze economiche e tecniche della
Serenissima, poichè avrebbe consentito di ridurre con immenso vantaggio
economico l'improduttivo organismo dell'Arsenale e di sostituire al suo lavoro,
o lento o negativo, quello più proficuo delle maestranze dei metallurgi e degli
artieri, organizzati e disciplinati in forme corporative tradizionali, vigilate
per di più di continuo dalle magistrature apposite.
Così fu concluso, nel 1782, un contratto con
la Società mercantile di Girolamo Spazziani, mediante il quale essa si
assumeva l'obbligo - usufruendo delle due migliori fonderie e miniere dal
Bergamasco30 - di fornire alla Serenissima entro 14 anni, in lotti
proporzionali, le artiglierie di cui abbisognava; e cioè 35 cannoni da 30
libbre31, 52 da 14, 24 da 12, oltre le munizioni, gli attrezzi e gli
armamenti necessari. Lo Stato si sarebbe garantito della buona qualità delle
forniture, obbligando la ditta Spazziani ad uniformarsi strettamente nella
fondita dei pezzi alle regole all'uopo prescritte dal maresciallo Schoulemburg,
e con l'assoggettare le bocche da fuoco a speciali prove forzate da
compiersi al Lido, a spese esclusive della società assuntrice ed alla presenza
del magistrato all'artiglieria.
Queste prove dovevano essere da due a quattro
per ogni pezzo da collaudarsi, ed i pezzi rifiutati si dovevano restituire alla
ditta per essere rifusi e nuovamente esperimentati. Nel contratto infine erano
comminate penalità e multe alla ditta Spazziani, al caso di inosservanza di
impegni da parte della medesima32.
L'artiglieria veneta, con il concorso
dell'industria privata, poteva e doveva quindi rinnovarsi tra il 1782 ed il
1796. In questo periodi di tempo dovevano inoltre rifondersi o ristaurarsi le
bocche da fuoco dichiarate inservibili, e non erano poche in quel tempo: 82
cannoni di diverso calibro, 85 colubrine, 63 sacri e passavolanti, 180
petrieri, 5 mortai, 9 trabucchi ed 1 bastardo33.
Se così fosse stato, la Serenissima
all'aprirsi della campagna del 1796 avrebbe avuto 536 bocche da fuoco
disponibili, nuove del tutto o riparate; e non si sarebbero visti sui rampari
di Verona «i pezzi così malandati, i letti (affusti) «così rôsi dal
tempo... che se fosse occorso di maneggiarne taluno non si saprebbe come
eseguire l'ordine»34.
Ma per assicurare tali vantaggi all'esercito
sarebbero occorsi continuità di vedute nell'amministrazione della guerra,
preparazione, vigore di energie da parte delle persone elevate all'ufficio di
Savio alla scrittura, accordo infine deciso e cosciente di tutti nell'attuare
una riforma finanziaria ed industriale che avrebbe legato il nome della
Serenissima ad un grande e razionale progresso nella pubblica economia.
Ora la vecchia e già tanto sapiente
Repubblica, ridotta a lottare indarno contro la morte vicina, non poteva più
trovare nel consunto organismo lo rinnovate energie capaci di redimerla dalla
triste eredità del passato. Fino al 1786, cioè durante il periodi delle
riconferme al Saviato di Francesco Vendramin - il ministro riformatore della
decadenza militare veneta - le consegne della ditta Spazziani procedettero con
ordine e regolarità, ma da quell'anno in avanti gli impegni cominciarono ad
allentarsi finchè non ne rimase più traccia. Ai lagni in materia delle
pubbliche cariche militari si rispondeva invariabilmente con delle buone
promesse, con caute direzioni, con voti e parole, mentre i mali
reclamavano urgentemente fatti, mentre gli ufficiali attestavano «che in
Dalmazia ed in Levante vi sono ancora compagnie di fanti armate ancora dei
fucili dell'ultima campagna35... si che il solo smontarli e rimontarli,
ogni volta che pulir si debbono, basta a renderne un gran numero fuori di
servizio»36.
Vero è che per i fatti, oltre che alla ferma
e cosciente volontà dei deputati a compierli, occorre anche il danaro; e questo,
come succede del sangue in ogni organismo indebolito, è il primo a scarseggiare
nei governi travagliati dalla decadenza. Alla fine della seconda neutralità
d'Italia - cioè subito dopo la guerra per la successione di Polonia - lo sbilanzo,
o deficit delle finanze veneziane, era infatti salito a 770-784 ducati
all'anno, ed all'amministrazione della guerra toccò di scontare queste falle
con sacrifizi e con lesinerie le quali finirono per annientare del tutto la
compagine materiale e morale dell'esercito.
«Con queste riduzioni - diceva un rapporto al
Principe - il corpo delle truppe non può oramai più supplire con la propria
forza agli essenziali bisogni dello Stato... e quindi occorre sia tolto da quel
languore e miseria in cui presentemente esso si trova, somministrandogli i
mezzi di cui ha bisogno»37.
Ma anche sa questo punto la voce del Savio
Vendramin predicò invano, ed i denari non vennero - ironia del caso - se non
quando si trattò non già di apparecchiare armi ed armati in difesa della Repubblica,
ma di mantenere lautamente due eserciti sul suo suolo, nemici l'uno dell'altro,
della Serenissima, ed entrambi emuli nell'opera triste di taglieggiarla e di
calpestarla.
Ma ritorniamo al Savio alla scrittura ed alla
sua fisionomia burocratica.
Quale magistrato supremo alla milizia esso,
di regola, non abbandonava la Dominante - cioè Venezia - se non per
compiere l'annuale visita al Collegio militare di Verona, in Castelvecchio, dal
quale uscivano i giovani ufficiali di artiglieria e genio della Repubblica. Era
questa una comparsa periodica all'epoca degli esami finali, che circondavasi a
bella posta di solennità, sia nell'intento di lasciar traccia nell'animo dei
futuri ufficiali delle milizie venete, sia in quello di ravvivare, a scadenza
fissa, il prestigio ed il nome del Savio alla scrittura nella principale
fortezza dei domini d'Italia. Ma le apparizioni erano troppo rapide e,
sovratutto, affogate sotto il cumulo delle formalità proprie del manierismo
incipriato del tempo.
Di una di queste visite si conserva traccia
nel diario del Collegio militare di Verona. «Il Savio Alvise Quirini - dice il
diario - partì da Venezia un mercoledì dopo pranzo del luglio 1787, alle ore
20, per Mestre. Aveva seco due staffieri ed un furier. Il legno era
pronto a Marghera, con quattro cavalli ed il furier davanti, pure a
cavallo. Al Dolo si cambiarono i cavalli: a Padova il Savio pernottò nel
palazzo Quirini ed il provveditor straordinario di colà, Zorzi Contarini, gli
diede scorta di due soldati a cavallo. Il giorno appresso (giovedì), alle ore
22 suonate, il Savio arrivò a Verona»38.
In quella città un ufficiale della
guarnigione venne subito comandato a disimpegnare la carica di aiutante
presso il Savio Alvise Quirini, ed un'ora dopo l'arrivo di questi il tenente
Zulatti, ufficiale di guardia alla piazza, venne a felicitarsi seco lui
per l'ottimo viaggio compiuto e ad esibirsi, cioè a profferire servigi. Ma il
Savio alla scrittura, congedati bellamente gli ufficiali venuti per fargli onore,
andò ad alloggiare in casa del cugino Marin Zorzi, e la «tavola fu servita per
quella sera dal locandier alle Due Torri39, essendo stato
convenuto il prezzo di tutto dal brigadier Mario Lorgna, governatore militare
del Collegio. La sera stessa venne il brigadiere Lorgna a fare ossequio al
Savio alla scrittura, e si combinò subito per verificare la scuola ed
incominciare gli esami lo stesso giorno seguente. La sera poi il Savio andò
alla comedia al Nobile Teatro ed il vescovo mandò il suo nome a
casa Zorzi»40.
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