CAPO
III.
Ufficiali grandi e
piccini.
Perduto è quell'organismo il cui cuore si
attarda di spingere il sangue nelle vene. Ed il cuore ed il cervello si erano
da tempo intorpiditi nell'esercito della Serenissima nelle persone de' suoi
generali.
Quando il brigadiere Fiorella41 nella
notte dell'8 agosto 1796, all'avanguardia della divisione Serurier, reduce
dalla vittoria di Castiglione si riaffacciava a Verona abbandonata giusto una
settimana innanzi per rioccuparla d'ordine di Buonaparte, il generale Salimbeni
comandante di quella piazza indugiò alquanto nel riaprire ai Francesi la porta
di San Zeno. Il brigadiere Fiorella l'abbattè allora con alcune volate di
mitraglia, e si trovò comoda scusa per il ritardo dei Veneti di rovesciare la
colpa sulla tarda vecchiaia del Salimbeni.
Questo generale - si disse - oramai
ottuagenario, incapace di montare a cavallo, costretto a servirsi di un carrozzino42,
non poteva trovarsi ovunque in quel trambusto della notte dell'8 agosto. E
Buonaparte lieto delle riportate vittorie e del riacquisto di Verona, non fece
gran caso di questi fiacche scuse dei Veneti, ondeggianti tra gli Austriaci
padroni dell'interno della città ed i Francesi padroni delle campagne,
oscitanti tra i vincitori ed i vinti.
La vecchiaia dei generali veneti esisteva
nondimeno, e grave. Il Savio alla scrittura Francesco Vendramin l'aveva
denunciata al Principe come il male precipuo che rodeva l'esercito, e
scongiurava di provvedervi in tempo:
«Di eguale impedimento - egli così scriveva
nel 1785 - alle buone disposizioni della milizia in genere si è pure
l'impotenza di non pochi ufficiali, specie delle cariche generalizie, che
giunti alla più fredda vecchiaia, ritenuti dalle viste del proprio vantaggio,
vogliono ancora continuare nel servizio sino alla fine della vita.....Sicchè,
malgrado quella riverenza che si conviene alle pubbliche deliberazioni, mi è
forza dire che, spesse volte, questo Augusto Governo è più commosso dalla pietà
che dal proprio interesse, cui talvolta antepone le convenienze particolari di
coloro che godono la distinta fortuna di essergli soggetti»43.
Non si pensò però con questo a svecchiare gli
alti gradi dell'esercito Veneto.
Fino dal 1786, allo scopo di ripartire in
modo equo e vantaggioso per il servizio i beni ed i mali delle diverse
guarnigioni d'Italia e d'oltremare, il Senato aveva stabilito un turno di
generali; ossia un determinato ordine di successione dei generali medesimi
al comando dei quattro grandi riparti militari in cui si suddivideva il
territorio della Repubblica44.
Fu assegnato allora in Levante il
sergente-generale Maroti, con i sergenti maggiori di battaglia Bubich e Craina;
in Dalmazia il sergente generale Salimbeni - ricordato più sopra - con i
sergenti maggiori di battaglia Nonveller ed Arnerich; in Italia il tenente
generale Pasquali, con i sergenti maggiori di battaglia Stràtico e Bado. Dopo
quattro anni questi generali dovevano mutare residenza, ma nel 1790 - cioè allo
spirare del primo quadriennio dacchè la determinazione fu presa - il sergente
maggiore di battaglia Arnerich faceva sapere al Savio alla scrittura che egli
non era più in grado di muoversi dalla Dalmazia, perchè diventato più che
nonagenario.
E non soltanto i generali erano incapaci di
viaggiare dall'Italia, oltremare e viceversa. Nello stesso anno 1790 anche i
colonnelli brigadieri Macedonia e Gazo si dovettero lasciare alle rispettive
guarnigioni, stante la loro tarda vecchiezza.
La gerarchia generalizia era poi troppo
ristretta in confronto degli aspiranti. La piramide gerarchica nell'esercito
Veneto si restringeva talmente verso il vertice da rendere necessaria una
longevità pressochè biblica per raggiungerla. Nel 1781 i quadri dello stato
generale erano: 1 tenente generale, 2 sergenti generali, 6 sergenti
maggiori di battaglia, oltre ai sopraintendenti del genio e della cavalleria
con il grado di colonnelli brigadieri. Il tenente generale era Alvise
Fracchia-Magagnini di 85 anni, di cui 68 di continuato servizio; i sergenti
generali erano Pasquali e Rade-Maina, vecchi colonnelli dei fanti
oltramarini; i sergenti maggiori di battaglia Arnerich, Salimbeni, Maroli,
Nonveller, Rado e Stràtico.
Non pochi di questi occupavano ancora le cariche
generalizie nel 1796, vale a dire che erano infeudati nell'ufficio da oltre tre
lustri.
*
* *
Teoricamente i metodi per la elevazione degli
ufficiali agli alti gradi dell'esercito dovevano essere di garanzia sicura per
la bontà dei quadri. La procedura per la nomina delle cariche generalizie -
esclusivamente devolute alla scelta - era infatti assai minuta, abbenchè non
scevra di sospetti di favoritismo. A tenore della così detta legge di Ottazione,
cioè di avanzamento45, le vacanze nei gradi dovevano ripianarsi entro
tre mesi dacchè avvenivano; tempo più che necessario per una scrupolosa
valutazione dei titoli dei concorrenti, ma anche più che sufficiente per dar
modo alle consorterie di raggiungere i propri fini.
I titoli presentati dai candidati formavano,
nel loro assieme, i così detti piani di prova. Vi figuravano i lunghi e
buoni servigi prestati sotto la vermiglia bandiera della Repubblica, le ferite,
le malattie sofferte a motivo del contagio, le azioni di merito e - ove ne era
il caso - anche le prigionie passate sotto i Turchi, i naufragi patiti e la
perdita degli averi. Gli ultimi tempi imbelli della Serenissima avevano
naturalmente assottigliato di molto il bagaglio eroico di codesti titoli,
surrogandoli con i più modesti e comuni dell'anzianità e della età dei
candidati, e su questi titoli si esercitava la retorica degli ufficiali
concorrenti.
Il sergente maggiore di battaglia Antonio
Maroli così faceva, ad esempio, nel 1782 l'apologia di sè medesimo, aspirando
al grado del valetudinario Rade-Maina collocato finalmente a riposo:
«Fino dai primi anni Antonio Maroli si
incamminò alla professione delle armi. Passato per la trafila dei vari gradi,
con l'assiduità del servizio e con la provata sua abilità giunse, nell'anno
1768, ad occupare il grado di colonnello. Le attestazioni delle primarie
cariche da Mar e degli ufficiali dello Stato generale e di molti altri
graduati, rilevano di avere egli utilmente servito nel laborioso carico di
sergente maggiore nella importante piazza di Corfù, impiegandosi pure, per varî
anni, nella istruzione del reggimento, negli esercizi e nella militare
disciplina anche in pubblici bastimenti in mar.
«Imbarcato sopra la nave San Carlo che
tradusse a Tenedo il fu Ecc.mo Kav. Correr, bailo46, si fermò
sulla medesima in attenzione dell'arrivo dell'altro Ecc.mo bailo
Francesco Foscari, ed in questo frattempo attaccatasi grave epidemia
nell'equipaggio di detta nave si maneggiò egli presso i comandanti turchi per
avere ricovero in terra... Nel sostenere i governi delle armi (comandi di
presidio) di alcune città e fortezze nei differenti riparti di terra e di
mar, eguale fu la di lui attenzione ed attività, che gli conciliò approvazione.
Molto fu poi riconosciuta la di lui direzione nel seguito ammutinamento di
prigionieri di Brescia per metterli a dover, nel quale malagevole incontro per
18 ore sostenne con coraggio il fuoco degli ammutinati, e gli toccò vedere ai
suoi piedi ucciso un caporale e ferito un soldato»47.
Le apologie più salienti dei piani di
prova erano pubblicate per le stampe dai candidati più audaci o facoltosi,
e diffuse per la Dominante ad apparecchiare terreno per le deliberazioni finali
del Savio alla scrittura e del Senato. Era una specie di gara a foglietti, dai
tipi vistosi e dalla studiata mostra delle benemerenze personali; una vera
rassegna pubblica alla quale dovevano interessarsi non poco gli spettatori
dell'epoca ciarliera e spensierata dei casini, dei caffè e delle gazzette.
Per troncare gli effetti della mala pianta il
Senato, nel 1783, volle abolite codeste costumanze alquanto teatrali. Vietò ai
candidati di rimanere a Venezia durante le elezioni delle cariche generalizie,
e nel periodo di tempo immediatamente anteriore, ed in luogo dei piani di
prova commise al Savio alla scrittura di compilare delle apposite note
personali, da produrre alla Consulta al caso di ciascuna vacanza. La
Consulta poi, avuto l'elenco dei migliori candidati, votava o ballottava
su ciascuno di essi, in Pien Collegio, con quattro quinti dei voti e
l'elezione si confermava da ultimo in Senato.
Eletto il nuovo generale, con le ducali
di nomina se ne fissava anche lo stipendio.
*
* *
Scendiamo ora dal vertice della piramide
gerarchica verso la grande e massiccia sua base. Gli ufficiali veneti erano
troppi per i soldati che avevano da comandare e per le attribuzioni che
dovevano compiere.
Nel 1776 si trovavano nei reggimenti attivi
33 colonnelli, altrettanti tenenti colonnelli, 30 sergenti maggiori, 203
capitani, 31 capitani-tenenti, 184 tenenti, 237 alfieri o cornette per la
cavalleria e 163 cadetti. In totale, 964 officiali sull'effettivo di 10,605 fazionieri
o comuni che contava l'esercito veneto di quel tempo; e ciò senza tener
conto degli ufficiali in servizio sedentario, alle fortezze, al corpo del
genio, all'Arsenale, ai governatorati delle armi, alle scuole e di quelli
infine con riserva di anzianità.
In sostanza, i quadri degli officiali della
Serenissima avevano tutta l'aria di un grande stato-maggiore a spasso.
Il grosso di questo stato-maggiore proveniva
dalla trafila della troppa, come ne fa fede lo scarso numero dei cadetti
presenti alle armi nel 1776. Delle scuole militari esistenti a quell'epoca, il
collegio di Verona provvedeva al reclutamento dei corpi di artiglieria e genio:
quello di Zara, per la fanteria oltremarina, era ancora allo stato rudimentale.
Riformatisi in appresso questi due istituti,
quello di Verona nel 1764 e quello di Zara nel 1784, una nuova ondata, di
formidabili competitori venne ad affiancarsi alla vecchia corrente dei
provenienti dalla troppa nello aspirare ai gradi, di ufficiale48.
Dal Militar Collegio di Verona - come
è noto - uscivano gli alfieri dell'artiglieria e del genio ed, accessoriamente,
anche quelli di fanteria e di cavalleria. In queste ultime armi si transitavano
però quegli allievi che, al termine dei corsi, riportavano una classificazione
inferiore alla minima ritenuta necessaria per servire nelle armi dotte, o
coloro infine che - per mancanza di posti - non trovavano più luogo nelle armi
medesime. In questo caso i diseredati dalla sorte potevano aspirare a far
ritorno alle armi cui aspiravano, concorrendo in turno ogni anno con i nuovi
licenziati dall'istituto veronese.
Dal collegio militare di Zara uscivano gli
alfieri dei reggimenti oltremarini e le cornette dei reggimenti di cavalleria.
L'istituto esisteva fin dal 1740, ma per difetto di concorrenti aveva vissuto
una vita stentata ed anemica fino al 1784, perchè la massa dei Dalmati
aspiranti ai gradi dell'esercito preferiva la via più lunga ma più avventurosa
del servizio anfibio sui pubblici legni e verso i confini turcheschi, a quella
più tediosa e nuova degli studî e dei riparti d'istruzione.
Ma poiché - sotto l'impulso di Angelo Emo e
del Savio Francesco Vendramin - l'amministrazione veneta della guerra accennò a
battere nuove vie, ed il reclutamento degli ufficiali usciti dalle scuole parve
destinato a soppiantare ogni altra provenienza, il conflitto tra il vecchio ed
il nuovo, tra la pratica e la teoria, scoppiò clamoroso ed inevitabile. Si
accese allora la guerra tra i fautori del tirocinio, dell'esperienza e dei
titoli acquisiti, e quelli delle accademie delle prove e degli esami. I tempi
grigi e fiacchi non offrendo verun'altra distrazione, fecero sì che gli
ufficiali dell'epoca si ingolfassero in queste lotte sterili ed acerbe con
l'ardore che proviene dall'ozio.
Mèta del tirocinio nei gradi di truppa era l'alfierato.
Ad esso si perveniva pel tramite dei cadetti, da parte dei giovani provenienti
dalle scuole, o per quello dei sergenti per parte dei borghesi e dei gregari di
truppa. Gli aspiranti alla carriera delle armi usciti dalle buone famiglie
veneziane, per essere ammessi nelle file dell'esercito quale cadetti dovevano
contare almeno 14 anni di età. Per raggiungere lo stesso grado nella truppa
occorrevano invece dai sei agli otto anni.
Dopo tre anni di buon servizio come
cadetto, questi era promosso alfiere, se di fanteria e cornetta se di
cavalleria; e con l'alfiere, detto per antonomasia il primo grado di goletta,
cominciava il lungo e faticoso calvario dell'ascesa ai gradi di
ufficiale49.
Questi si conferivano nell'interno del
reggimento fino al grado di sergente-maggiore. Ed i gradi erano quelli di
tenente, di capitano-tenente, o comandante della compagnia del colonnello,
di capitano, di sergente-maggiore, o comandante di battaglione: i gradi di
tenente colonnello e di colonnello si conferivano a ruolo unico sulla totalità
della rispettiva arma o riparto50.
Per progredire nella carriera si doveva
tenere conto delle prove comparative, dell'abilità, del merito e
della anzianità dei singoli concorrenti51; requisiti tutti
codesti domandati sia dalle anteriori leggi di ottazione, compilate da
Francesco Morosini, sia da quelle redatte dal generale Molin (1695).
Nella pratica delle cose però l'anzianità ed
il merito avevano la preminenza, comprendendosi sotto questo ultimo titolo le
campagne di guerra, le ferite e le «occasioni vive», come dicevasi a quel tempo
con vocabolo comprensivo per dinotare tutte le benemerenze dei candidati dovute
comunque al rischio personale.
Ma cresciuto il favore delle scuole
professionali, il merito e l'anzianità dovettero cedere di fronte all'abilità
comprovata dagli esami, e con questi e per questi il Savio si proponeva di svecchiare
i quadri dell'esercito.
L'alfiere doveva dar saggio di comandare in
modo inappuntabile tutti gli esercizi della compagnia, in presenza del sergente
maggiore, del colonnello e del tenente colonnello del reggimento. Egli doveva
inoltre rispondere a tutte le interrogazioni che i detti ufficiali avessero
creduto di rivolgergli sul Libretto Militar, ossia catechismo degli
esercizi, e sul servizio in campagna compilato dal maresciallo Schoulemburg.
Infine doveva rivelarsi provetto nel maneggio delle armi, della picca e della sargentina,
conoscere la suddivisione del reggimento in plotoni, divisioni, ali, centro,
dare ragione di tutti i tocchi di tamburo e superare alcune prove sulle
matematiche elementari e sul disegno. Il tenente - oltre che dimostrarsi come
l'alfiere idoneo nel maneggio del fucile e della picca - doveva saper compilare
polizze di scansi, ossia liste di deconto individuale, redigere
quietanze dei depositi di danaro che, eventualmente, i soldati gli avessero
confidato, tenere al corrente la vacchetta, o giornale di presenza della
compagnia, infine comprovare un'abilità professionale pari alla richiesta nelle
prove degli alfieri.
In questi semplici esperimenti s'accanì
quindi la lotta tra conservatori e novatori in materia di avanzamento, quando i
programmi furono rimaneggiati con criteri restrittivi, specie per i gradi
superiori. Nel giugno 1785, rendendosi vacante il posto di sergente-maggiore
nel reggimento di fanti italiani Marin Conti, aspirarono ad esso tre
capitani del corpo medesimo. Il verbale giurato di idoneità a sostenere
le prove di uno dei candidati così si esprimeva:
«Facciamo fede, con nostro giuramento et
vincolo di onore, noi qui sottoscritti graduati nel reggimento colonnello
Marin Conti, dei fanti italiani, come il capitanio Michiel Antonio Gosetti
ha sempre adempiuto alle parti tutte del suo dovere, con puntualità ed abilità
in tutto quello che appartiene al pubblico servizio. Come anche nella
subordinazione et obbedienza con i suoi superiori e con nostra intera soddisfazione
egli non è mai incorso in verun militar castigo, nè si abusò di licenze per
stare lontano dal proprio reggimento, adornato essendo di onorati costumi,
degno adunque delle nostre veridiche attestazioni, per cui gli rilasciamo la
presente perchè possa valersene»52.
*
* *
Gli esami da capitano a sergente-maggiore
erano insieme pratici e teorici. Nei primi il candidato doveva sottoporsi alle
prove seguenti:
«1°) Riconoscerà il battaglione in tutte le
sue parti e lo ripartirà con i bassi uffiziali - 2°) Farà la disposizione degli
uffiziali e li manderà in parata - 3°) Farà passare ufficiali e sottufficiali
in coda per il maneggio delle armi - 4°) Ordinerà e comanderà il maneggio delle
armi, con li necessari avvertimenti - 5°) Ordinerà due raddoppi di file, uno
sulla sinistra in avanti, per mezzo-battaglione, l'altro che le divisioni delle
ali raddoppino quelle del centro - 6°) Si ridurrà in istato di battaglia - 7°)
Farà fuoco con quattro plotoni, principiando dalli quattro plotoni del centro -
8°) Farà fuoco con due mezze divisioni dalle ali al centro - 9°) Staccherà la
marcia per mezze-divisioni in fianco, e si ridurrà in divisioni con passo
francese (accelerato) - 10°) Formerà il quadrato in marcia - 11°) Farà una scarica
generale - 12°) Disfarà il quadrato e ridurrà il battaglione in istato di
parata»53.
Gli esami teorici comprendevano i doveri
degli ufficiali di ogni grado, cominciando da quelli dell'alfiere e terminando
con quelli del sergente maggiore, tanto nel reggimento che nella brigata. Le
tesi trattavano del giornaliero servizio di piazza, del modo di accampare ed
acquartierare il reggimento, di marciare con il reggimento da un luogo ad un
altro, di imbarcarlo e di sbarcarlo in buon ordine, della maniera di tenere
disciplinati gli ufficiali, i sottufficiali e la truppa, dei sistemi di
redigere piedilista, dettagli, di passar rassegne, di distribuire
infine i riparti nei quartieri e di raccoglierli nelle piazze d'armi54.
Più caratteristiche erano le prove per l'arma
di cavalleria, in quanto quest'arma poteva considerarsi esotica in un esercito
a base marinaresca come era quello della Serenissima, anche nei tempi dello
splendore. Così, nel marzo del 1795, rendendosi vacante in Verona il posto di sergente-maggiore55
nel reggimento dei dragoni Colonnello Giovanni Antonio Soffietti, si
presentarono candidati alle prescritte prove sei degli otto capitani comandanti
di compagnia, e ad essi furono proposti i seguenti quesiti, da estrarsi a sorte
in numero di quattro per ogni esaminando:
«1°) Data una distanza di 100 miglia, data la
premura del comandante che il nostro squadrone arrivi quanto più presto
possibile ad unirsi ad un'altra cavalleria colà esistente, e data infine la
qualità del cammino, si ricerca in quanti giorni, senza troppo disagio,
sarà compiuta la marcia e di quali avvertenze abbia a far uso durante il
viaggio - 2°) Acquartierata la cavalleria in una grossa terra in prossimità del
nemico, quali saranno le precauzioni contro le sorprese - 3°) Con quali
avvertenze si custodiscono i prigionieri di guerra mentre si conducono al luogo
loro assegnato - 4°) In qual modo si scorta un convoglio di vittuarie passando
per i luoghi sospetti - 5°) Come si marcia alla sordina - 6°)
Contromarce per righe - 7°) Come si mettono in contribuzione i villaggi nemici,
vigente sempre il timore che il nemico ci sia alle spalle - 8°) Se lo squadrone
arrivasse ad un fiume inguadabile, che ripieghi si farebbero - 9°) Lo
squadrone, in colonna di divisioni, si trova su di una strada dove i cavalli
non possono che marciare di passo: esso è forzato a ritirarsi facendo fuoco. Si
effettui la relativa ritirata - 10°) Modo di caricare contemporaneamente il
nemico sulla fronte e sulle ali: la parte più forte sulla fronte, due parti
minori sulle ali - 11°) Attacco di cavalleria in un bosco - 12°) Come si fa a
foraggiare - 13°) Cammin facendo, se si trovasse uno staccamento (distaccamento)
nemico trincerato che ci impedisse di marciare, quale sia il partito
migliore»56.
Esaminiamo da ultimo le prove prescritte per
l'artiglieria, allo scopo di formarci un giudizio esatto sull'entità degli
esperimenti e sul grado, di istruzione degli ufficiali Veneti del tempo. Nel
1782, per gli aspiranti al posto vacante di capitano-tenente nel Reggimento
Artiglieria si richiedevano le prove seguenti:
«1°) Le quattro prime operazioni aritmetiche,
frazioni, radici quadrate e cubiche, regola del tre diretta ed inversa - 2°)
Sui primi sei libri della geometria - 3°) Sulla trigonometria piana - 4°)
Sull'uso delle tavole balistiche per i tiri orizzontali ed obliqui - 5°) Sopra
la proprietà della parabola relativamente ai tiri di bomba - 6°) Sull'uso della
tavoletta pretoriana - 7°) Sopra i vari generi di calibri dell'artiglieria -
8°) Come si prendono le misure di un pezzo di artiglieria per farvi un letto (affusto)
- 9°) Quali sono gli apprestamenti usati nell'artiglieria veneta per il
servizio delle artiglierie navali, murali e campali - 10°) Quale è il modo di
numerare le palle, bombe, granate, unite in piramide o in altra figura - 11°)
Come disporre le cose spettanti all'artiglieria sopra i legni armati al caso di
combattere - 12°) Come si forniscono le racchette ad uso di segnali e le
candele ardenti ad uso delle minute artiglierie, le spolette e le bombe ad uso
dei cannoni, mortai ed obusieri - 13°) Come si misura il tempo in cui una bomba
percorre un dato spazio - 14°) Esercizi campali ed evoluzioni del Reggimento
Artiglieria, giusta le istruzioni del brigadiere conte Stràtico»57.
Per gli aspiranti al grado di
sergente-maggiore nell'arma58 alle menzionate prove si aggiungevano
esami di meccanica, di stàtica, di resistenza delle bocche da fuoco, di potenza
degli esplosivi, oltre ad esperimenti sulle manopere di forza e relativi
comandi, sulle opere difensive e di fortificazione59.
*
* *
Si spiega adunque come col crescere di tale
florilegio scientifico, sbocciato come un'oasi nel campo uniforme degli umili
fiori campestri dell'anzianità e delle occasioni vive, i giovani
ufficiali usciti dalle scuole venete del tempo si trovassero in condizioni
spiccatamente favorevoli in paragone dei canuti colleghi passati per i gradi
inferiori di truppa. Molti di questi erano invecchiati nelle scolte sui diruti
rampari della Repubblica, a Corfù, a Parga, a Zante ed a Cefalonia, si erano
temprati ai miasmi mortiferi dì Prevesa, di Vonizza e di Butrinto, avevano
scritto infine l'ultimo capitolo - per quanto assai mutato nel decoro guerresco
- dell'epica lotta accesasi tra la Cristianità ed il Turco, dalle crociate a
Lepanto e da Candia in Morea, vigilando come sentinelle perdute verso i confini
musulmani sui lontani castelli di Dernis, di Clissa e di Knin.
Ed il bilancio del servizio di queste scolte
fedeli - quasi fatte simbolo di una potenza della quale più non rimaneva che il
nome - era solenne come un piccolo monumento di storia individuale. Storia dei
tempi, fatta non già di novità sibbene di lunga e paziente attesa.
Sfogliamo un poco tra le pagine di codesti
titoli vetusti. Dagli stati di servizio prodotti dai capitani Zorzi Rizzardi e
Donà Dobrilovich al Senato per ottenere la loro giubilazione, risulta che il
primo di questi era soldato dal 1734, cadetto nel 1740, alfiere nel 1753,
tenente nel 1766, capitano-tenente nel 1778, capitano nell'anno medesimo; vale
a dire che aveva impiegato ben 51 anni di servizio per ottenere quest'ultimo
grado, dei 68 di età che contava il postulante. Il collega Dobrilovich era
soldato dal 1733, caporale nel 1739, sergente nel 1742, alfiere nel 1745,
tenente nel 1766, capitano-tenente nel 1773 e capitano pure nello stesso anno:
gli erano quindi occorsi 51 anni per raggiungere la desiderata mèta di
comandante di compagnia, accumulando per via il fardello di ben 68 anni di età.
Nè gli accademici, per dir così, erano
i soli a far concorrenza ai vecchi soldati della Repubblica. Oltre ad essi si
dovevano contare gli ufficiali sopranumerari, cioè quelli il cui rollo
di anzianità era per un motivo qualsivoglia sospeso, i provenienti dai nobili e
dai figli degli ufficiali, ed infine i titolati, cioè coloro che in
virtù di una grazia sovrana, per benemerenze personali o di famiglia,
ricevevano un grado ed i relativi emolumenti senza però disimpegnarne gli
uffici.
Ingrossata così la schiera dei competitori -
talchè i cadetti nel 1781 erano cresciuti a 605, laddove nel 1776 toccavano il
centinaio e mezzo appena - il malcontento dei vecchi ufficiali non ebbe più
ritegno.
«Quando - dice un'istanza avanzata al Senato
dal tenente Teodoro Psalidi, del Reggimento di Artiglieria - dovetti fare le
prove anche nelle scienze matematiche, volendo aspirare al grado di
capitano-tenente, e mi venne imposto di prestarmi in tali studi che non mi
erano mai stati prescritti, mai insegnati dai miei superiori, cui infine non
ebbi mai il tempo di applicarmi, mi cadde l'animo. Pensi dunque l'E. V. quanto
inaspettato mi giungesse il nuovo precetto, grave e difficile, di immergermi in
quei ardui studi nel periodo ristretto di 18 mesi, termine alle prove
assegnato, e quanto fosse il mio svantaggio rimpetto ai giovani tenenti di me
meno anziani, che tratti recentemente dal Militar Collegio di Verona avevano
avuta la fortuna di essere da valenti maestri istrutti con ottima disciplina in
quelle scienze»60.
Nelle armi di linea, si impugnava in luogo
delle tesi scientifiche il valore delle prescritte prove, per quanto si
riferivano alla parte teorica del regolamento di esercizi e di quello sul
servizio delle truppe in campagna. Il Senato ed il Savio, imbarazzati di fronte
a questa selva di proteste che rimpinzavano di suppliche e di lagni le
voluminose filze del carteggio, ordinarono infine alle commissioni reggimentali
di rassegnare i titoli dei candidati e le prove di esame al Savio stesso,
acciocchè questi potesse giudicare con uniformità, di criteri, come in ultimo
appello. Ma non per questo i lagni cessarono: occorreva un rinnovamento
profondo di uomini e di principi per porre rimedio al male, e questo rimedio
non poteva essere nelle mani della vetusta Serenissima.
Era l'estate del 1796, quando il Savio alla
Scrittura Leonardo Zustinian - già denominato in alcuni reclami con il vocabolo
giacobino di cittadino - si risolse di proporre al Senato uno schema di
svecchiamento dell'esercito, mercè una larga applicazione del sistema dei
limiti di età, visto che quello degli esami aveva ormai dichiarato la sua
bancarotta.
«Occorre - diceva il Savio Zustinian al
Principe - purgare una buona volta la milizia dagli ufficiali inetti, di età
troppo avanzata, ovvero affetti da mali incurabili... prescrivendo la
giubilazione di questi con intera paga del rispettivo grado, a moneta di ogni
riparto. E le norme che sembrano da stabilirsi, sono quelle di 70 anni di età
per i graduati (ufficiali superiori), di 60 anni per i capitani,
capitani-tenenti ed alfieri»61.
Ma era troppo tardi. L'esercito Veneto cadeva
giusto allora sotto la rovina della Repubblica, ed i provvedimenti escogitati
dal Savio alla Scrittura Leonardo Zustinian non servirono ad altro che a
formare argomento di curiosità nella storia della vecchia organica militare dei
Veneziani, ed a fornire oltre a ciò un buon esempio atto a comprovare come
talvolta ad eguali difficoltà, o molto simili, ad onta dei mutati tempi, si
procura di far fronte con espedienti assai affini.
*
* *
Sparpagliati nei diversi presidi d'Italia e
d'oltremare, gli ufficiali della Serenissima non erano tra loro in eguali
condizioni d'istruzione e di addestramento professionale. Quelli poi che
soggiornavano nella Dominante, per le loro occupazioni da guardia oligarchica e
per i loro contatti con le primarie cariche dello Stato, godevano di un
prestigio che non aveva riscontro con gli altri colleghi dell'esercito.
Lo stesso carattere della milizia veneta -
prevalentemente levata per ingaggio - contribuiva oltre a ciò a creare attorno
agli ufficiali stessi un ambiente molto affine a quello in cui trascorrono
oggigiorno la loro esistenza gli ufficiali di taluni eserciti delle libere
repubbliche d'America.
Nullameno, ad onta di queste circostanze poco
favorevoli dell'ambiente - cristallizzato nelle vecchie pratiche e nei vetusti
pregiudizi, sopravvissuti ancora dal tempo delle compagnie di ventura e del
Quattrocento - la decadenza militare della Serenissima brilla ancora per il
nome di qualche ufficiale, salito in fama unicamente per virtù propria; ciò che
è garanzia del suo merito indiscusso. E sono nomi cari non soltanto nel
ristretto cerchio della Repubblica oramai moritura, ma eziandio in quello più
vasto e luminoso della storia militare italiana.
Tra essi primeggia il brigadiere del genio
militare Anton Mario Lorgna, da Cerea, fondatore di quel corpo; architetto,
idraulico, topografo e matematico di gran fama, il cui nome va indivisibilmente
congiunto alla riputazione del Collegio Militare di Verona, già grande prima
della caduta di Venezia, talchè non pochi eserciti stranieri facevano a gara
nel richiederne gli allievi al Senato62 ed egregia anche dopo la
caduta, talchè non sdegnò di occuparsene il Foscolo. Meritevoli di nota in
questo periodo di tempo sono pure i nomi del maggiore di artiglieria Domenico
Gasparoni, veneziano, ordinatore del Museo dell'Arsenale ed autore di una
pregevole opera sull'artiglieria veneta dedicata al doge Paolo
Senior63; del sergente maggiore di battaglia Stràtico, introduttore di
considerevoli riforme nei regolamenti militari Veneti, ed infine di Giacomo
Nani, per quanto quest'ultimo appartenga per provenienza alla marina, ma per
anima e per circostanze della gloriosa sua camera delle armi all'esercito,
intorno al quale scrisse il volume inedito dal titolo Della Milizia
Veneta64 e l'opera perduta relativa alla difesa di
Venezia65.
Gli stimoli per suscitare una nobile gara di
emulazione e di benemerenze tra gli ufficiali Veneti erano ben pochi. Le stesse
ristrettezze del bilancio impedivano perfino di assolvere il sacrosanto obbligo
contratto dalla Serenissima verso i prodi combattenti sotto le bandiere di
Angelo Emo, assegnando loro quel grado e quello stipendio che erano stati
decretati dal Senato per merito di guerra66. Per questo titolo -
abbenchè con molta minor frequenza - si assegnavano agli ufficiali anche delle
medaglie d'oro, con l'impronta del leone di San Marco, del valore medio di 30
zecchini67.
Ma per l'assenza di clamorose imprese, verso
la fine della Repubblica anche questa costumanza, derivata dai tempi eroici,
cadde in disuso, sicchè se ne ricorda a mala pena qualche raro caso. Tale è
quello del capitano Gregorio Franinovich, del Reggimento Cernizza,
decorato per speciali benemerenze ed atti di valore compiuti dal detto
ufficiale in Levante68.
E passiamo al rovescio della medaglia. Le
punizioni degli ufficiali Veneti avevano, in prevalenza, il carattere di
coercizione morale. Così l'ammonizione, l'arresto semplice, l'arresto
più lungo, la sospensione dal grado, la notazione speciale
sul libro-registro del servizio - della quale si teneva conto a suo tempo per
la compilazione dei titoli di esame - infine l'esclusione o la sospensione
temporanea dalle adunanze, o circoli di persone per grado e per nobiltà
distinte69.
* * *
L'antica foggia di vestire degli ufficiali
era stata riformata nel 1789 sull'esempio degli Austriaci e dei Prussiani. In
seguito a questa riforma introdotta dallo Stràtico, che compilò la relativa «Ordinanza
contenente la prammatica e la disciplina relativa all'uniforme della fanteria
italiana», tutti gli ufficiali veneti, dall'alfiere al colonnello, dovevano
indossare la nuova divisa, non soltanto in servizio ma anche nelle
presentazioni, negli spettacoli e nelle pubbliche solennità. Erano comminate
punizioni a chi non ottemperasse a questi precetti o alterasse la foggia del
vestire. E che tali mancanze non fossero rare, lo attestano le minuziose cure
con cui l'Ordinanza sopra citata prevedeva i relativi casi.
«Tutti - soggiungeva l'Ordinanza -
dentro un triennio dovranno avere la nuova uniforme, pena la sospensione dal
servizio e la sottomissione a ritenute, finchè la nuova uniforme non sia
fatta, oltre le notazioni da farsi sul Libro Registro, a pregiudizio
dello avanzamento».
La pettinatura degli ufficiali veneti era
liscia, con due bucali (riccioli), uno per parte delle tempia, sostenuti
dalle forchette che giungevano fino a mezza orecchia: i capelli dovevano essere
bene incipriati (polverizzati) e la chioma raccolta in una rete (fodero)
di pelle nera.
Il principale capo di vestiario della
fanteria italiana era la velada, o abito a coda di rondine di panno blò,
foderato di roè bianco70, guarnito di un collarino e di balzanelle,
o manopole, pure di panno bianco, adorno di grossi bottoni di metallo dorato
con impresso, in cifre romane, il numero del corpo cui gli ufficiali
appartenevano71. Gli ufficiali dei fanti oltramarini avevano
l'abito di panno cremisi, come i soldati, e quelli di artiglieria di panno gris
di ferro.
Nella stagione fredda si indossava da tutti
un cappotto di panno bianco, della stoffa di quello usato per il bavero della velada,
guernito di bottoni pure di metallo dorato e foderato assai spesso di una buona
pelliccia. I calzoni d'inverno erano di panno blò e nella stagione calda
di rigadino bianco forte.
L'abbigliamento degli ufficiali veneti era
completato dal colletto di pelle nera lucida, dai manichini di buona
tela batista, dai guanti di pelle gialla lavabile, dagli stivali
di bulgaro cerato, dagli stivaletti di pelle nera da usarsi in estate,
allacciati dalle cordelle, e dal cappello a tricorno.
I distintivi di grado si portavano sul
cappello. L'alfiere non recava sopra di esso alcuna distinzione, i tenenti ed i
capitani-tenenti si riconoscevano invece per una rosetta, o coccarda,
mista d'oro e di seta azzurra, assicurata sull'ala sinistra del tricorno
mediante un bottone ed un'asola (laccio) di seta nera. I capitani si
distinguevano per due rosette simili alle anzi descritte, assicurate sopra
ciascun'ala del copricapo: i sergenti maggiori, i tenenti colonnelli ed i
colonnelli infine recavano tutti, senza distinzione alcuna, due rosette come i
capitani, intessute però per intero di solo filo d'oro. Oltre a ciò il
bavero degli abiti degli ufficiali superiori era ornato di un largo gallone
d'oro mentre quello degli ufficiali inferiori ne era sprovvisto.
Anche i fiocchi delle spade e dei bastoni
erano differenti per ogni grado. I bastoni dei subalterni erano guerniti di un pomo
d'avorio, quelli dei capitani di un pomo di metallo liscio dorato: i
bastoni degli ufficiali superiori non avevano altro distintivo che un risalto
anulare disposto verso l'attacco del pomo alla canna. Le cinture ed i pendoni
(tracolle) delle spade erano di pelle bianca lucida, con scudetti di metallo
recanti in rilievo l'emblema del leone di San Marco: gli scudetti degli
ufficiali subalterni erano semplicemente inargentati, quelli dei capitani
inquartati dentro un ribordo dorato, quelli degli ufficiali superiori infine
erano tutti dorati72.
Quanto alle armi, abolita definitivamente la
picca nel 1790, le lame delle spade, le fasce ed i puntali dei foderi
dovettero, in tutto e per tutto, uniformarsi al modello prescritto dall'Ordinanza
dello Stràtico.
*
* *
Prima di lasciare l'argomento degli ufficiali
veneti, occorre aggiungere ancora qualche cenno che valga a lumeggiare la loro
posizione interiormente ed esteriormente all'ambiente militare del tempo.
I sistemi di ingaggio delle truppe -
sopravvissuti a Venezia per lunga tradizione fino dall'epoca delle compagnie di
ventura - riflettevano di necessità sugli ufficiali la fisionomia particolare
di comandanti non tanto d'uomini, quanto di custodi di merce acquistata a suon
di quattrini dalla Serenissima sul mercato dei soldati di mestiere.
Si spiega quindi come, dato tale ambiente, le
occupazioni dell'ufficiale fossero in prevalenza amministrative, anzichè
tecniche, educative e morali. Le tradizioni del reggimento, i ricordi dei
principali fatti di guerra - che solevano tramandarsi egregiamente in Piemonte
tra le milizie paesane - non avevano quindi un equivalente riscontro morale tra
i Veneti, neppure tra le cerne dei migliori tempi della Serenissima. I soldati
di mestiere avevano anzi smarrite tutte queste tradizioni, a motivo
dell'avvicendarsi dei nuovi ingaggiati nei corpi, del frantumarsi dei riparti
nelle varie guarnigioni e degli atteggiamenti diversi assunti dalle milizie
venete della decadenza, divise di continuo tra il servizio di sentinella,
quello ai daziere, di guardia confinaria e campestre, oppure di rincalzo ai
satelliti degli Inquisitori di Stato.
Epperciò, all'infuori del comandante di
compagnia, il cui compito era quello di amministrare il mezzo centinaio di
uomini che la Repubblica gli confidava, per essere equipaggiato, armato e
nutrito, nessun altro ufficiale aveva attributi speciali nell'ordine
dell'educazione e dello apparecchio morale dei propri dipendenti. Neppure il
colonnello aveva sotto questo riguardo particolari incarichi; che anzi, per
l'uniforme costume di ridurre tutto quanto aveva attinenza al soldato al
denominatore comune dell'amministrazione, seguendo la moda del tempo anche
nell'esercito veneto sopravviveva la compagnia colonnella, alle cui
funzioni contabilesche non potendo accudire di persona il capo del reggimento
venivano da lui delegate ad un tenente anziano, detto perciò capitano-tenente.
In analogia si regolava il tenente colonnello ed il sergente maggiore, che
avevano pure essi la rispettiva compagnia, confidata figuratamente al governo
di un capitano che ne faceva in realtà le veci amministrative in tutto e per
tutto.
Dal capitano, comechè si trattasse di un vero
e proprio possesso individuale, prendevano poi nome le altre compagnie, la cui
anzianità e disposizione nelle manovra era fissata dall'anzianità del
rispettivo comandante, dopo la compagnia del colonnello e degli altri ufficiali
superiori del reggimento.
Il prevalente carattere mercenario delle
milizie venete aveva inoltre, da tempo, avvezzi i governanti a considerarle
quale strumento ligio all'oligarchia che le manteneva in vita; e tale modo di
essere - contrario ad ogni libero svolgersi delle attività morali - si
rifletteva necessariamente anche sul carattere degli ufficiali. Valgano a
questo proposito due ordini di concetti: quello di servirsi degli ufficiali
nelle operazioni poliziesche di maggior rilievo, - quale l'arresto fatto dal
colonnello Craina, dei fanti oltremarini, del noto patrizio liberale Zorzi Pisani
- e della fiscalità continua esercitata sopra di essi - specie sui comandanti
di compagnia - in tutte le manifestazioni amministrative; ciò che contribuiva a
far ritenere gli ufficiali medesimi come asserviti di continuo ad una specie di
stato di tutela da parte delle maggiori autorità e magistrature competenti.
Ma, ad onore degli ufficiali Veneti, conviene
pure soggiungere a questo punto che mai, nelle voluminose filze del carteggio
militare della decadenza, si trova citato un caso che giustifichi codesta
diffidenza fiscale, la quale d'altronde era connaturata nei tempi ed in molti
eserciti d'allora, e che si è tramandata per qualche traccia perfino a giorni
non lontani dai nostri73.
*
* *
Se la grande massa degli ufficiali adunque -
quelli di Linea - trascorreva l'esistenza morale ed intellettuale in tale
angusto cerchio di attribuzioni e di consuetudini, fatto ancora più uniforme
dal grigio dell'inoperosità della decadenza repubblicana, ciò non toglie che
qualche altro corpo di ufficiali stessi - a base più ristretta ed a
reclutamento più omogeneo, - non intravedesse degli spiragli verso orizzonti
più audaci o verso aspirazioni che precorrevano il futuro.
Il Collegio Militare di Verona, per le sue
relazioni scientifiche con l'Università di Padova, per l'indole e la
nazionalità di taluni suoi insegnanti, si prestava anzitutto da buon crogiuolo
delle nuove idee ed a propalarle nell'esercito. Fino dal 1764 si lamentava
infatti dal Savio alla Scrittura, che tra i giovani dell'istituto
serpeggiassero «dei mali principi, pregiudicievoli alla buona morale, molto
più ancora contaminata dalle massime di libertà che vien fatto di credere che
si siano nel Collegio disseminate».
Tale sospetto motivò un'inchiesta, eseguita
dal Savio alla Scrittura Marco Antonio Priuli, la quale accertò che tre
ufficiali capisquadra del Collegio, «consumavano il loro tempo con la lettura
di romanzi e di libri oltramontani, dei quali contribuiscono pure i giovani,
avendosi giurata deposizione che si fossero vedute nelle mani di qualche alunno
le opere di Volter (sic), e venendo perfino introdotto il
sospetto che si leggessero quelle ancora di Niccolò Macchiavello»74.
Gli ufficiali modernisti vennero sfrattati
dal Collegio di Verona, e la mala pianta delle idee novatrici pareva del tutto
spenta quando, nella primavera del 1785, vi si scoperse una loggia di Liberi
Muratori, fondata da Giovambattista Joure, maestro di lingua francese
nell'istituto, allo scopo di diffondere tra i futuri ufficiali veneti i
principi delle nuove dottrine liberali, e «di restituire alfine l'uomo alla
prisca libertà naturale, da cui la teocrazia ed il principato lo avevano
allontanato»75. A questa loggia «muratoria» militare deve avere
partecipato molto probabilmente anche il colonnello Lorgna - poichè le adunanze
degli affigliati si tenevano in certe camere dal medesimo occupate in Castel
Vecchio - e, certamente, non pochi ufficiali della guarnigione di Verona
appartenenti al corpo di artiglieria, come risulta dagli interrogatori del
processo, nei quali sono spesso citati il maggiore alle fortezze Solidi e
l'alfiere conte Rambaldo, da Legnago76.
Scoperta l'associazione, gli
Inquisitori77 sfrattarono subito il maestro Joure dagli Stati Veneti e
sbandarono gli ufficiali ascritti alla loggia di Verona in diverse guarnigioni
di terraferma ed oltremare. Nullameno, i germi diffusi dal Joure nel maggior
istituto militare della Repubblica lasciarono traccia oltre al rogo dei libri e
dei registri della loggia ordinato dagli Inquisitorì, ed essa traspare nel
continuo fermento cui andò soggetto il collegio, da quell'epoca fino alla
violenta sua soppressione accaduta per opera del generale Rampon, a metà luglio
del 1796. Il desiderio di riforme era dunque la spinta principale di quei moti,
intesi «a sovvertire l'attuale spirito di concordia, di pace e le leggi
della sottomissione e del buon ordine che furono naturalmente stabilite» e
di realizzare infine «delle novità nei metodi nello insegnare... non volendo
ufficiali ed alunni più vivere soggetti»78.
Pure anche questi germogli di giacobinismo,
cresciuti come pianta sporadica all'ombra delle torri merlate del castello
Scaligero di Verona, dovevano un giorno tornare utili alla Repubblica79.
E ciò avvenne quando si trattò di spedire i primi messaggeri di pace al
generale Buonaparte, sotto Brescia; messaggeri che il Senato volle servilmente
prescelti fra gli antichi allievi del Collegio Militare veronese, nella
speranza che il ricordo delle relazioni «muratorie», perseguitate un
tempo e ritornate in onore per la circostanza, valesse a propiziare loro ed
alla Repubblica l'animo del conquistatore80. E questi ufficiali furono
il colonnello Giovanni Francesco Avesani ed il capitano Leonardo Salimbeni,
inviati il 27 maggio 1796 a Brescia con il mandato di implorare grazia da
Buonaparte per l'avvenuta occupazione di Peschiera, fatta pochi giorni avanti
di sorpresa dagli Austriaci.
Di ufficiali inferiori dell'esercito infine, coimplicati
in movimenti politici, non si trova traccia nel carteggio della decadenza
militare veneta. E questo serve da conferma, tanto del carattere di guardia
oligarchica - conservato dall'esercito stesso fino alla rovina del governo
della Serenissima - quanto della infondatezza del timore da alcuni nutrito che
esso avesse potuto tralignare in mano di audaci e di novatori.
L'espressione di questo sospetto di
tradimento - naturale d'altronde in ogni organismo inesorabilmente votato alla
rovina - si trova in talune «polizze» anonime trovate nei bossoli del Maggior
Consiglio e del Senato durante l'anno 179681. Queste «polizze»
insinuavano di diffidare dell'ottuagenario tenente generale Salimbeni,
comandante in capo delle milizie venete raccolte sotto la piazza di Verona e
dei suoi figliuoli, tra i quali era il capitano Leonardo citato più sopra.
Uno di questi foglietti così diceva:
«Non prestar fede al generale Salimbeni».
Un altro ancora proclamava:
«Governo, nò ve fidè del generale Salimbeni,
Recordève del Carmagnola».
Un terzo riproduceva il rozzo disegno di una
forca, con la scritta:
«Per il general Salimbeni».
Un ultimo infine insinuava:
«Il tenente generale Salimbeni è giacobino
coi figli ed adora solo l'oro,
Governo, guardatevi che non vi tradisca
essendo più francese che suddito».
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