CAPO
IV.
Le truppe
assoldate.
Tra il principio dell'assedio di Mantova e le
giornate di Lonato e Castiglione i fanti oltremarini, per comando espresso dal
generale Buonaparte, furono clamorosamente allontanati da Verona. Questi
soldati - denominati volgarmente Schiavoni - raccolti in buon numero in
quella città82 andavano di certo a contraggenio al giovane generale
francese. Forse egli li riteneva una specie di guardia pretoriana, ed imbevuto
di studi e di prevenzioni sul governo dispotico degli antichi Stati d'Italia,
ne deve avere desiderato lo scioglimento come un impegno civico commesso alla
sua opera ed a quella del Direttorio di Francia. Rispondendo ad analogo concetto
il generale Schèrer, sul finire del 1795, aveva imposto lo scioglimento dei
corpi còrsi alla Repubblica di Genova83.
L'indisciplina degli Schiavoni era
d'altronde grande, documentata perfino dalle attestazioni del generale
Salimbeni. Essa poteva prorompere ogni momento ad eccessi e costituire il
focolare dei mal repressi spiriti di malcontento che serpeggiavano tra le
popolazioni veronesi, taglieggiate, angariate, violentate nelle persone e negli
averi. Certo, sotto questi riflessi, Buonaparte divinava in qualche misura
l'esplosione cittadina delle Pasque Veronesi.
Anche le esigenze militari imponevano
urgentemente ai Francesi di premunirsi da tale minaccia. La fortezza di Verona
era diventata, ai primi di luglio del 1796, la loro principale base
d'operazione contro l'esercito mobile degli Austriaci e contro la piazza di
Mantova, il punto d'appoggio contro gli sbocchi dal Tirolo e dalla Val Sugana,
la tappa intermedia dal Milanese e dal Bresciano nella vagheggiata marcia dei
Francesi alla volta di Venezia, del Friuli e dei confini occidentali
dell'Impero84.
Occorreva perciò rompere subito gli indugi ed
in quest'arte Buonaparte era maestro insuperabile. Il caso di un ufficiale
francese ucciso per le campagne di Villafranca, qualche borseggio, qualche
rissa accaduta fra gli oltremarini mal compresi dai soldati di Francia non
famigliari con l'idioma illirico, porsero l'occasione propizia per imporre al
Senato di sfrattare da Verona le casacche cremisine dei fidi dalmati.
Al generale Massena toccò di apparecchiare
l'animo dei Veneti alla grave rinunzia. «Il est temps enfin, monsieur le provvediteur» - così
scriveva quel generale a Nicolò Foscarini, il 4 luglio 1796 - que les
assassinats que vos soldats ne cessent de commettre envers les miens,
finissent. Le général Rampon, commandant à Veronne, m'a dejà rendu compte que
plusieurs de nos volontaires avoient été assassinés a coups de stilet, ou de
sabre, par vos Esclavons»[86]. Tre giorni dopo Massena ribadiva ancora
la sua tesi con cresciuta insistenza e protervia: «Par les piéces ci jontes
Vous verrez que les assassinats continuent, et que les ordres que je presume
que Vous avez donné pour les reprimer ne sont nullement suivis. Je Vous
previens que si ces horreurs ne finissent pas, je ne pourrai plus Vous répondre
des suites funestes q'elles causeront infalliblement»85.
Infine, dopo il cupo rombo della tempesta
lontana, venne il guizzo della folgore.
L'8 di luglio Buonaparte indirizzava al
provveditore Foscarini la lettera che segue: «Il y a entre la troupe française
et les Esclavons une animosité que des malveillaux, sans doute, se
plaisent à cimenter. Il est indispensable, Monsieur, pour eviter des plus
grands malheurs, ainsi facheux que contraires aux intéréts des deux
Republiques, que Vous fassiez sortir demain de Veronne, sous les pretexes les
plus specieux, les bataillons d'Esclavons que Vous avez dans la ville de
Veronne»86.
L'espressione della volontà del vincitore era
chiara e precisa e non ammetteva replica. Essa si fondava per di più sulla
presunzione che il contingente illirico stanziato a Verona fosse di molto
superiore al mezzo migliaio di dalmati che vi teneva effettivamente guarnigione
sui primi di luglio. Epperciò ogni tentativo per far recedere Buonaparte dalla
determinazione presa riuscì vano, ad onta che il provveditore Foscarini, col
collega Battagia, si fossero adoperati coi modi più soavi ed insinuanti a
produrre l'effetto bramato. «Ciò però non servì ad altro - aggiungevano i
provveditori - che a far prendere a Buonaparte un tuono ancora più deciso,
sicchè abbandonando quelle maniere piacevoli colle quali ci aveva in prima
accolti, disse che era tempo oramai che cessassero tutti gli scandali, e che
fosse tolta radicalmente l'occasione a querele... e che senza dilazione di
sorta gli Schiavoni si rimpiazzassero con Italiani, in quel numero che fosse
piaciuto. Che egli poi (Buonaparte) non si curava di esaminare chi tra gli
Schiavoni o Francesi avesse ragione o torto, che non dovevamo però ignorare che
scambievole era tra queste due nazioni il livore e lo spirito di vendetta. E
facendoci intendere che era necessitato di occuparsi di altri affari, ci
obbligò subito a congedarci»87.
Ai due rappresentanti di un potere oramai
morituro messi così duramente alla porta, tra la vergogna del sottomettersi e
l'incertezza dell'esito in una reazione improvvisata senza la ferma volontà di
rinsanguarla con il braccio e con la fede, il primo partito parve più prudente
e conforme alle necessità dell'ora. E gli Schiavoni, all'alba del 9 di
luglio - come Buonaparte aveva voluto - uscirono da Verona di soppiatto, come
fuggiaschi di fronte alla fatalità di un destino che incombeva sul loro capo
come su quello dei governanti della Serenissima. Le casacche cremisi, che mai
avevano indietreggiato per lungo volgere di anni di fronte alla furia
turchesca, cedevano ora misteriosamente terreno come pressati dall'avvento
delle nuove età. Sotto questa oscura minaccia il passato, quasi fatto persona
in quegli ultimi soldati fedeli della Signoria, pareva ripiegarsi su sè
medesimo, come dentro le pieghe della vermiglia bandiera della Repubblica.
Tre compagnie del reggimento oltremarino Medin
si trasferirono a Vicenza e quattro a Padova, «attendendo in quelle città
gli ultimi ordini dell'Ecc.mo Senato». Lo stesso giorno 9 di luglio 1796,
le artiglierie del generale francese Rampon salivano indisturbate sui rampari
della fortezza di Verona e, con gesto violento, si surrogavano alle armi
paesane che vergognosamente si erano date alla latitanza.
Così uscirono gli Schiavoni da Verona.
Vi dovevano però ritornare quasi un anno appresso, nel crepuscolo sanguinoso
delle Pasque Veronesi, per tingere di rosso quella scena drammatica con
cui la Serenissima doveva chiudere il suo lungo e glorioso dominio in
terraferma88.
*
* *
Gli oltremarini costituivano le
milizie assoldate per eccellenza della Repubblica. Corrispondevano un poco agli
Svizzeri, con i quali quei soldati di mestiere avevano comuni lo spirito di
ventura, la tenacia delle tradizioni militari e la religione della fede
giurata; sentimenti tutti che, saldamente ed atavisticamente, si trasmettevano
tra le milizie dalmate come un vero e proprio culto per la Signoria. E la Signoria
- quella dello splendore del Cinquecento - ben sicura di questo lealismo e di
questa fede, il cui eco non è ancora del tutto spento sull'altra riva
dell'Adriatico, aveva confidato agli oltremarini la custodia e la difesa delle
fonti della sua ricchezza e della sua gloria: il presidio de' propri navigli
quale fanteria di marina, la guardia delle stazioni commerciali più esposte
alle incursioni musulmane, la difesa delle teste di tappa sulle strade
commerciali più sensibili e rimunerative per i traffici veneziani, infine il
servizio da scolta più disagioso e pericoloso sui castelli sperduti in mezzo
all'aridità delle Alpi Dinariche.
Gli oltremarini si distinguevano tra la
milizia veneta per il loro armamento pesante da arrembaggio, costituito da una
grave e lunga spada detta palosso - corruzione della pallasch
degli Imperiali - munita di un'impugnatura a più else, e per la loro vistosa
assisa di panno cremisino, ornamento delle navi parate a festa nelle
solennità del Bucintoro e segno da raccolta nelle mischie navali più
aspre e serrate. Si ingaggiavano, come tutti i soldati mercenari della
Repubblica, esclusivamente nei domini di oltremare, d'onde traevano il loro
nome da battaglia: illirico era il loro linguaggio ed i comandi militari.
I capi-leva si occupavano del loro
reclutamento - edizione senza confronto migliore e corretta dei racoleurs
dell'antico regime - anzitutto perchè questo ufficio era disimpegnato da
ufficiali, in secondo luogo perchè era espressamente vietato nello ingaggiare
le reclute di usare lusinghe per indurle più facilmente ad imprendere il
pubblico servizio.
«Tutte le reclute - dicevano infatti le
capitolazioni dei capi-leva - dovranno essere volontarie e non ingaggiate con
frode o con ubbriacarle, sotto pena a chi avesse ingaggiato con frode alcuna
recluta, di essere casso immediatamente dal rollo della compagnia (di leva) e
spedito in Levanto per anni sei in figura di soldato; ed essendo incapace del
servizio, di essere condannato in prigione ad arbitrio di S. E. il Savio alla Scrittura,
dovendo i soldati rimettersi ad incontrare il pubblico servizio di buon genio e
di tutta loro buona volontà»89.
D'altronde le tradizioni militari dei Dalmati
ed il prestigio che aveva presso di loro il veneto governo, disimpegnavano
ampiamente gli ingaggiatori dal ricorrere a queste arti subdole. Tra i capi
leva in Dalmazia godeva anzi di bella fama, ai tempi di Angelo Emo, il tenente
colonnello Carlo Marchiondi90.
I capi-leva si aggiravano per le borgate e le
campagne di oltremare a far l'incetta d'uomini, coadiuvati da provetti
subalterni esperti nella lingua illirica, e l'attività loro si esplicava
rispetto allo Stato pressochè nell'orbita di un vero e proprio appalto da
privative91.
La levata regolavasi mediante apposite capitolazioni
accettate dalle due parti contraenti, l'ingaggiatore a nome del governo e
l'ingaggiato. Le reclute dovevano contare «almeno 4 piedi ed 8 oncie di
statura, (metri 1,622216)92 avere un'età compresa tra i 16 ed i 40
anni, essere sani, senza alcuna imperfezione di corpo, parlare l'illirico, non
essere disertori dalle pubbliche insegne, non avere infine esercitato mai alcun
mestiere infame93».
All'atto dell'ingaggio e dopo la visita «di
un chirurgo stipendiato dal pubblico o dalla comunità, il quale era tenuto
inoltre a risarcire in ogni caso la Signoria col suo stipendio di qualunque
frode», la recluta contraeva la. ferma di sei anni di servizio continuo sotto
le bandiere.
Ammassati - come si diceva allora - i nuovi
oltremarini, si suddividevano nei diversi riparti territoriali della
Serenissima. Quelli destinati alla Dalmazia erano nuovamente visitati dal
provveditore della provincia residente a Zara, quelli assegnati a prestare
servizio sulla squadra dal Capitanio del golfo, quelli infine destinati
alla Terraferma dal Savio alla Scrittura, al Lido di Venezia. Non appena le
anzidette autorità avevano riconosciuta la piena attitudine al servizio de'
nuovi inscritti, questi si descrivevano sui pubblici rolli,
d'accordo con gli inquisitori competenti, e da quel punto cominciavano a
decorrere gli assegni in conto della forza bilanciata della Repubblica. Con
queste pratiche di accentramento amministrativo e di controllo, l'esercito
veneto andava sicuramente esente dalla piaga dei passavolanti.
Gli assegni dei nuovi soldati erano di doppio
ordine, verso i medesimi e verso i loro impresari. Ogni ufficiale
ingaggiatore riceveva infatti per ciascuna recluta riconosciuta idonea 22
ducati, se destinata alla Terraferma e 20 ducati se assegnata alla Dalmazia o
al Golfo.
Su questo premio poi si dovevano prelevare 12
ducati per l'uniforme ordinaria la quale, in omaggio alla vecchia tradizione
feudale dalmata - che ancora sussisteva tra le sopravvivenze formali - doveva
essere fornita insieme al nuovo soldato dall'ufficiale capo-leva, laddove
l'uniforme cremisi di parata era somministrata dal rispettivo comandante di
compagnia.
Rimanevano così in attivo ai capo-leva dagli
8 ai 10 ducati di guadagno per ciascuna recluta, vale a dire dalle 32 alle 40
lire, a secondo del corso della moneta; ciò che costituiva il lucro di tali
operazioni.
*
* *
Seguiamo ora la nuova recluta oltremarina
nelle sue peregrinazioni e tra le strettoie della fiscalità amministrativa del
tempo. I trasporti a Venezia si eseguivano con le cosidette manzere,
barche onerarie della specie dei trabaccoli e generalmente usate dai
beccaj di Venezia per trasportare colà i buoi da macello (manzi) dalle
province d'oltremare. Ordinariamente i trasporti si effettuavano dagli scali di
Spalato, di Traù, di Sebenico e di Zara.
Sul littorale del Lido - vera e propria
caserma di passaggio dei soldati della Serenissima94 - i nuovi Schiavoni
ricevevano, nell'attesa di essere sbandati o assegnati ai corpi,
un'istruzione sommaria. Poi, per via d'acqua, si trasferivano a Fusina e
Padova, d'onde si iniziava il loro faticoso pellegrinaggio per raggiungere i
corpi cui erano stati destinati, nel Veronese, nel Bresciano e sui lontani
confini del Bergamasco.
La paga mensile era di 31 lire
venete95 - oltre il biscotto per uso di barca che gli Schiavoni
ricevevano sempre in omaggio alle loro tradizioni originali di servizio sulle
pubbliche navi - laddove i fanti italiani, ossia gli ingaggiati nei paesi di
Terraferma, avevano il pane. Con questa somma, pari a circa 16 lire
odierne96, lo Schiavone doveva soddisfare le voraci brame del
fisco, del proprio comandante di compagnia, e provvedere infine al proprio
vitto durante il mese. Egli doveva cioè lasciare 8 lire venete per la massa
vestiario, 2 e mezza al comandante di compagnia che lo riforniva dell'abito
cremisi di parata, sborsare oltre a ciò l'importo dell'olio per l'illuminazione
delle camerate, della terrabianca (bianchetto) per tenere monde e pulite
le buffetterie e le parti bianche dell'uniforme, comperare il grasso, il lucido
per le scarpe e perfino i piccoli oggetti di pulizia personale. Restavano così
allo Schiavone poco più di 15 lire venete al mese per sfamarsi, eguali a
7 e mezzo delle attuali.
I compensi dei soldati veneziani non erano
quindi molto lauti. Invano i Savi alla Scrittura avevano rappresentato al
Senato la necessità di aumentare l'assegno della truppa, ma le strettezze
finanziarie lo avevano vietato sempre.
Ed i comandanti di compagnia - tra l'incudine
delle masse vestiario oberate ed il martello delle cariche superiori che
esigevano negli Schiavoni «velade» sempre fiammanti - picchiavano sul
grigio del ferro che tenevano tra le mani, cioè sulle masse dei loro
dipendenti, il cui peculio castrense di 7 lire e mezzo si assottigliava allora
ancora di più. Il Senato in molte di queste circostanze soleva venire in
soccorso, ma a beneficio dei comandanti di compagnia piuttosto che dei soldati,
specie al caso di mostre straordinarie, di passaggi di principi e di visite.
Così essendo di passaggio per Udine nel gennaio del 1782 i principi imperiali
di Russia, sotto il nome di principi del Nord, e volendosi in quella
circostanza che la compagnia del capitano Borissevich, dei fanti oltremarini Cernizza,
destinata loro per scorta d'onore si presentasse nella maggiore militare
decenza, il Senato trovò giusto di compensare quel capitano delle maggiori
spese incontrate nella circostanza per il corredo della truppa con 120
ducati di valuta corrente97.
In queste strettezze, diventate sempre più
acute verso la caduta della Repubblica per l'abbandono deplorevole delle cose
della guerra, la merce uomo scadeva quindi sempre più sul mercato dei soldati
di mestiere. Così convenne transigere con le prescrizioni delle capitolazioni
ed ammettere nella truppa schiavona «li vagabondi e li malviventi, nonchè i
banditi che disturbano ed infestano la Dalmazia, provvedimento suggerito
dell'attual Provveditore Generale con plausibili argomenti di carità verso i
sudditi e di sicurezza di transito sulle pubbliche strade di quella provincia,
ed in vista di rendere utile in qualche modo allo Stato tale sorta di gente
scorretta ed indisciplinata»98.
Il corpo dei Travagliatori - o
compagnie di disciplina istituite nel 1785 per sfollare i riparti dai più
torbidi elementi raccolti dai capi-leva - alleviò alcun poco l'esercito della
Serenissima da questo còmpito d'istituto di correzione99.
Ma il male aveva troppo salde e profonde
radici perchè questo provvedimento, escogitato dal Savio alla Scrittura
Francesco Vendramin, potesse sortire a buon esito. Anzitutto il male
travagliava le milizie prezzolate con il tarlo roditore delle diserzioni. Dal
1° settembre 1780 al 1° febbraio 1784, abbandonarono le insegne nei reggimenti
oltremarini ben 662 soldati: dal 1° marzo 1785 al 1° settembre 1789 ne
disertarono altri 1129; e ciò sopra una media di 3500 uomini presenti in quel
torno di tempo nei reggimenti oltremarini100.
Con queste cifre significative alla mano, si
spiega il grido d'allarme gittato non molto prima dell'arrivo dei Francesi nel
Veneto dal generale Salimbeni; grido che se parve a taluno troppo pessimista a
tal'altro sembrò perfino sospetto di fellonia. Ed i bossoli del Maggior
Consiglio e del Senato, come si è detto più sopra, ne sanno qualche cosa.
«I nostri vecchi soldati - scriveva il
Salimbeni al Savio alla Scrittura Iseppo Priuli - sono oramai diventati sentina
d'ogni vizio. Bisogna separarli nelle fazioni della piazza (di Verona) dalle
cernide, ma non è possibile di separarli anche nei quartieri dove hanno
alloggio in comune»101. Ed il Salimbeni proponeva sommessamente al
Savio di allontanare gli Schiavoni più facinorosi da Verona, e più
specialmente le compagnie dei capitani Missevich e Valerio, «le quali venute
dalla Dalmazia sono da sostituirsi con altre... per preservare le cernide dal
contagio dei vizi».
Il Savio Iseppo Priuli non ascoltò la
proposta ed il destino serbava a Buonaparte di farla accogliere con la forza.
*
* *
Gli Oltremarini erano ordinati in 11
reggimenti contrassegnati dal nome del rispettivo comandante oppure da quello
del circolo di reclutamento più cospicuo. Nel piedilista del 1°
settembre 1776 quei corpi erano descritti come segue102:
Reggimento Bubich, Selich, Scutari, Sinj,
Matutinovich, Craina, Minotto, Rado, Macedonia, Dandria e Bua. Ciascun
reggimento contava di regola 9 compagnie, o raccolte per intero in uno dei
grandi riparti territoriali della Serenissima, o suddivise tra i riparti
medesimi e le navi armate. Faceva però eccezione da questa regola il reggimento
degli oltremarini del circondario di Sinj, il quale contava 11 compagnie
ripartite nelle province d'Italia e di Dalmazia. La maggior forza di questo
corpo era dovuta all'importanza militare del territorio nel quale esso si
levava, ed al valore e numero dei castelli di frontiera che in esso esistevano
(Spalato, Salona, Clissa, Sinj ecc.).
Secondo le tabelle organiche di formazione,
approvate dal Senato, il reggimento di oltremarini non doveva superare la forza
di 432 uomini, ciò che stabiliva l'effettivo delle compagnie in una media di 54
presenti ognuna. Tale forza non era però mai effettiva, neppure nei periodi di
neutralità o durante i mesi del completo armamento delle due squadre, grossa
e sottile, quando trattavasi cioè di spedizioni marittime o di crociere
di maggiore rilievo. Così nel 1787, al tempo delle imprese di Angelo Emo,
presero imbarco il 1° marzo del detto anno sulle navi armate in guerra ben 19
compagnie di fanti oltremarini, ma essendo tale contingente troppo scarso nella
sua forza complessiva di un migliaio di uomini appena, convenne ricorrere al
complemento dei reggimenti italiani, i quali fornirono altre 12 compagnie alla
squadra, oltre alle 19 fornite dagli Schiavoni.
Alla vigilia dell'arrivo dei Francesi nel
Veneto gli oltremarini avevano 24 delle loro compagnie dislocate in Terraferma,
con una forza complessiva di 1648 uomini compresi i rinforzi dovuti alle craine103.
Tutte queste compagnie erano ripartite come
segue: A Verona, Legnago e Peschiera 9, a Brescia con il castello di Orzinovi 4
1/2104, a Bergamo e contado 3, a Crema mezza compagnia, al Lido, con
Chioggia e Capo d'Istria 7 compagnie.
*
* *
I soldati del tempo oziavano molto, e
nell'ozio sfibrante e prolungato che li logorava gli elementi più torbidi degli
ingaggiati avevano modo di compiere un vero e proprio corso di perfezionamento.
L'azione degli ufficiali non rappresentava di certo alcun freno in questi moti,
perchè essa si limitava al controllo delle cifre sui registri, alla
sorveglianza del maneggio d'armi nei cortili delle caserme e dei castelli, e si
arrestava alla soglia delle camerate che perciò restavano abbandonate a sè
medesime ed ai propri inquilini in un vero stato di abbiezione morale e di miseria
materiale.
Al tocco del tamburo, che batteva la diana
ogni mattina all'alba, cominciava il giornaliero servizio sulle navi armate e
nelle caserme. I soldati si levavano dai loro giacigli, composti di regola
della semplice schiavina, o rozza, coperta da letto gittata
semplicemente sulle nude tavole, o più spesso sul terreno sul quale essi
dormivano quasi sempre vestiti.
I paglioni, o pagliericci, vennero a
mitigare la durezza di queste vita dei soldati della Serenissima soltanto verso
la sua fine, e più precisamente a principiare dall'anno 1781; e furono limitati
dapprima ai presidi delle più notevoli fortezze ed in particolari circostanze
di servizio105.
Le guardie rappresentavano il pensiero
dominante della vita di guarnigione, epperciò il soldato semplice era anche
denominato con l'appellativo di fazioniere, come che quello fosse il suo
ufficio esclusivo. Nel servizio territoriale era impiegato ordinariamente un
terzo della forza, del qual costume è rimasta traccia fino ai giorni nostri
nella norma regolamentare la quale prescrive che il soldato debba avere almeno
due notti libere per una passata in sentinella. Le esigenze della società del
tempo, il grande numero delle magistrature militari e la frequenza delle risse
tra i soldati moltiplicavano a dismisura i posti di guardia. Così vi erano
gran-guardie nelle principali piazze delle città fortificate, guardie d'onore
alle primarie cariche militari del luogo, agli ufficiali superiori del
reggimento, e così via. Valga ad esempio il seguente specchio delle guardie
della città di Verona, nell'anno
1794106:
Nè è forse fuori luogo ricordare a questo
punto anche il servizio di guardia che le truppe prestavano nelle isole e
nell'estuario di Venezia, nel 1792109.
Guardia al Lido, 44 uomini; appostamenti e
feluche di sanità al Lido, 24; feluca S. Erasmo, 8; feluca Tre Porti, 8;
Falconera, 8; Carvale, 8; Porto Quieto, 8; sciabecco del canale dei Marani, 12;
feluca del canale dei Marani, 12; due feluche a Poveglia, 16; feluca S. Pietro
in Volta, 8; feluca di Fisolo, 8; feluca delle urgenze 8; fusta, 24;
sciabecco Po di Goro, 48; feluca Po di Goro, 8; feluca Malamocco, 8; seconda
feluca di Malamocco, 8; servizi vari di guardia alle reclute, alle caserme
ecc., 60. Totale, 308 uomini comandati a Venezia e nell'estuario in giornaliero
servizio da «fazionieri».
*
* *
Al distacco della guardia, fatto con
solennità intorno al mezzodì, tutta la truppa prendeva le armi. Si faceva
l'appello per segnalare i disertori, si leggevano gli ordini, si dava una
sommaria occhiata alle armi ed agli abiti, dopo la quale funzione la vita
militare formale cessava di regola per riprendersi l'indomani alla medesima
ora.
Restava la grigia monotonia della vita di
caserma. Con quei pochi soldi che rimanevano ancora nelle mani
dell'oltremarino, dopo il passaggio sotto le forche caudine del fisco e del
comandante di compagnia, egli doveva rifocillarsi. E disinteressandosi ancora
lo Stato dal fornire il vitto ai propri soldati - all'infuori del biscotto agli
oltremarini e del pane agli altri - v'era taluno che lo surrogava in
quest'opera con ingordigia ed esosità, di guisa che il misero peculio castrense
dei soldati di mestiere veniva ad assoggettarsi per questo ad una nuova ed
estrema decimazione.
Esistevano all'uopo sulle navi armate e nelle
caserme i così detti bettolini, specie di vivanderie esercitate assai
spesso da loschi personaggi, nelle quali i soldati si provvedevano dei generi
di prima necessità ed anche delle vivande confezionate. A coloro poi cui le
strettezze non consentivano di procurarsi le vivande confezionate, i bettolieri
fornivano gli arnesi di cucina per apparecchiare di solito la classica polenta
ed un misero intingolo per companatico, e ciò previo un piccolo compenso che lo
scarso nucleo degli utenti corrispondeva a titolo di noleggio degli arnesi
stessi all'esercente del bettolino.
Delle norme - ossia terminazioni -
regolavano il servizio di queste vivanderie, specie sulle pubbliche navi, ma
l'ingordigia dei bettolieri era assai spesso più forte anche delle terminazioni.
Lo sconcio era anzi giunto a tal segno, poco avanti alla caduta della
Repubblica, da indurre il generale Salimbeni a proporre al Savio alla Scrittura
dei provvedimenti radicali in materia:
«Bisognerebbe - egli diceva - assegnare ad
ogni camerata di 10 soldati almeno una caldaia da polenta, una secchia di larice
cerchiata ed una tavola per rovesciarvi di sopra la polenta stessa... Sarebbe
inoltre desiderabile, per liberare il soldato dall'obbligo che ora ha di
spendere la mòdica sua paga in una bettola, o bettolino, con grave danno
della disciplina e peso della sua sussistenza, di fornire anche la legna
necessaria per cucinare il cibo. Con questi mezzi si potrebbero tener uniti i
soldati, lontani dalle osterie, dove è forza che dimentichino la loro nativa
semplicità e contraggano il mal costume»110.
Il governo disciplinare risentiva fortemente
degli effetti di questo colpevole regime di abbandono e di trascuranza, acuito
dalla fiacchezza dei tempi. Abolita virtualmente la bastonatura sull'ultimo
quarto del secolo XVIII, restava la prigionia e la condanna al remo, la
punizione classica delle milizie della Repubblica marinara la quale ne usava
sempre con molta larghezza. La pena della galera o del remo era
solitamente inflitta ai disertori, ma anch'essa aveva perduto sulla fine della
Repubblica molta parte del suo prestigio, per essersi assottigliato il numero
delle navi armate e ridotta a poca cosa la loro navigazione. La punizione alla
galera era così diventata un succedaneo della prigione ordinaria.
Circa questa bancarotta del governo
disciplinare e dei suoi freni, basti dire che molti disertori preferivano la
condanna al remo al servizio militare, triste preferenza che illumina
l'ambiente dell'epoca. «Considerano infatti i soldati - dice un documento - una
breve condanna al remo assai meno pesante della vita militare, stentata,
faticosa e prolungata per un più lungo periodo di tempo»111.
La disinvoltura, con cui affrontavasi questa
pena appare infine nei trucchi che solevano usarsi, alla caduta della
Repubblica, per gabellare al Savio alla Scrittura i premi promessi a colui che
restituisse alle insegne un disertore. Si accordavano per questo in un medesimo
corpo due soldati, l'uno s'infingeva di abbandonare le bandiere, l'altro di
scoprirlo in un rifugio convenuto in precedenza; «sicchè colludendo
notoriamente assieme captori e fuggiaschi tra loro si dividevano
il premio assegnatosi ai primi... Onde sarebbe utile, in luogo di dare il
premio a questi captori, di servirsi al caso dei metodi usati dagli
esteri eserciti, cioè di obbligare le terre, ville e paesi, ad arrestare i
fuggiaschi e condurli senza mercede alcuna alle pubbliche forze, con la
cominativa che venendo scoverto in qualsivoglia tempo e modo negletto il fermo
di qualche disertore, sarebbe obbligato il villaggio o terra a supplire alle spese
incontrate dalle pubbliche casse per il mantenimento e vestiario di un altro
soldato»112.
Quanto si disse fino ad ora trattando più
particolarmente degli Oltremarini può riferirsi anche all'altra specie di
milizia pedestre ingaggiata, cioè agli Italiani. Questi si levavano nei
domini della Serenissima in Italia e nell'Istria Veneta e si raccoglievano al
Lido d'onde, accertata la loro idoneità alle armi, «in tempo di pace, in
tempo di guerra, che Iddio non voglia, o di neutralità» erano «sbandati»
nelle diverse guarnigioni di terraferma.
Gli itinerari delle nuove reclute erano
minutamente stabiliti nei capitolati dei capi-leva e circondati da cautele,
tutte intese a far giungere sicuramente a destinazione la preziosa merce dei
soldati di mestiere, incerti in questi primi passi tra la rude alternativa di
seguire una strada intrapresa di mala voglia, oppure di abbandonarla al suo
inizio medesimo. Drappelli di croati o di dragoni, oltre la
scorta dei soldati delle compagnie di leva, accompagnavano in queste
marce le giovani reclute che, così guardate, potevano rassomigliarsi in tutto e
per tutto ad un triste convoglio di prigionieri di guerra. Partiti dal
littorale del Lido, cioè dal deposito di reclutamento, i nuovi fanti italiani
facevano una prima tappa al Castello di Padova che, in molti rispetti,
funzionava da deposito succursale del Lido. Dopo una breve sosta in
quell'antico maniero, le reclute destinate a proseguire il loro èsodo
continuavano nel cammino fino agli estremi presidi della Serenissima, cioè fin
sulle rive dell'Adda e dell'Oglio. Talvolta queste tappe erano abbreviate da
qualche trasporto per via d'acqua dal Lido a Chioggia, e di qui con i barconi (burchi)
a ritroso dell'Adige fino a Verona. Ma erano casi poco frequenti e subordinati
in ogni modo alla occasione di qualche grande trasporto militare da Venezia
alla grande piazza di terraferma113.
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La fanteria italiana surrogò nel 1775 il
tricorno, che aveva portato in giro con qualche gloria nelle campagne di Morea
sotto il Morosini, con un caschetto di pelle di vitello adorno di una «placca
de otton.» In quella circostanza le compagnie di granatieri degli stessi
fanti - create assai tempo prima - ebbero dei berrettoni di pelle d'orso sul
modello francese, guarniti di fiocchi azzurri e della «placca» con
l'impronta del leone di San Marco.
Pure in quel torno di tempo il colore bianco
degli abiti della fanteria italiana - che ne era stato a lungo il distintivo caratteristico,
come il cremisi lo era stato per gli oltremarini ed il grigio ferro
per gli artiglieri - venne sostituito dal panno azzurro. Così le vecchie velade
e bragoni di panno bianco cedettero il campo ad abiti di colore e di
taglia alquanto più succinta, chiusi sul davanti da bottoni metallici fin sotto
alla cravatta; e ciò per ovviare all'incomodo svolazzamento delle falde e per
meglio riparare il soldato nella cattiva stagione. Tale riforma aveva anche una
portata economica, perchè il nuovo abito meglio serrato alla vita del fante
rendeva possibile l'abolizione delle così dette camiciole, o corsetti di colore
che si usavano sotto la «velada.»
Il soldato portava una cravatta di pelle
nera, due incrociature, o bandoliere di bulgaro, una per sorreggere il
tasco o bisaccia, l'altra per sostenere la baionetta. Le cartucce - venti di
regola - costituenti il munizionamento del fante italiano erano riposte nel
tasco.
Il governo amministrativo della fanteria
italiana si differenziava in qualche parte da quello dell'oltremarina. Un
sostanziale divario concerneva anzitutto il vestiario, che nell'italiana era
fornito dallo Stato e mantenuto dai comandanti di compagnia, laddove per gli
oltremarini - come è detto più sopra - era fornito dai capitani.
Al ramo delicato ed importante
dell'amministrazione sopravvegliavano i magistrati sopra camere, cioè i
funzionari delle tesorerie locali, impegnando a tal'uopo le somme che ciascuna
di esse aveva disponibili per le cose della milizia (Casse al Quartieron).
Le stoffe per le uniformi militari
provenivano dall'industria privata, ed erano fornite dalle fabbriche e lanifici
di Schio, Castelfranco114 ed Alzano nel Bergamasco115. Anche
Venezia si distingueva in quest'arte con due stabilimenti di molta fama, specie
nella confezione dei panni colorati di scarlatto, di cremisi e di azzurro, che
si esportavano pure largamente in Dalmazia e nelle contigue terre balcaniche.
Le merci che l'industria privata così offriva
alla Repubblica erano collaudate di regola presso i depositi al Quartieron,
o magazzini di equipaggiamento e di vestiario della truppa. I lanifici e le
fabbriche di cui sopra, erano oltre a ciò ispezionate ogni bimestre da due dei
cinque Savi alla mercanzia, i quali dovevano vegliare sulla
qualità e sulla quantità delle lane da incettarsi per confezionare i panni per uso
militar. Queste lane dovevano essere tassativamente della specie nominata sacco,
scopia o Puglia116.
Le medesime cautele vigevano per la fornitura
delle buffetterie e dei cuoî necessari per esse: incrociature, taschi,
pendoni, o centurini da sciabole, baionette, palossi e palossetti,
che erano pure somministrati dall'industria privata e più precisamente dai
fratelli Zaghis di Treviso.
I reggimenti di fanteria italiana alla caduta
della Serenissima erano in numero di 18. Per decreto del Senato, nel maggio
1790 i reggimenti di cui sopra assunsero un numero progressivo fisso, oltre al
nome variabile derivato dal rispettivo colonnello comandante. E questi numeri
erano:
Reggimento Veneto Real n. I del
colonnello Alberti - reggimento n. II del colonnello Mario Alberti - reggimento
n. III del colonnello Marin Conti - reggimento n. IV del colonnello Francesco
Guidi - reggimento n. V del colonnello Teodoro Volo - reggimento n. VI del
colonnello Giambattista Galli - reggimento n. VII del colonnello Lòdoli -
reggimento n. VIII del colonnello Pacmor - reggimento n. IX del colonnello
Marco Conti - reggimento n. X del colonnello Francesco Covi - reggimento n. XI
del colonnello Andrea Toffoletti - reggimento n. XII del colonnello Marino
Stamula - reggimento n. XIII del colonnello Giacomo Sarotti - reggimento n. XIV
del colonnello Francesco Galli - reggimento n. XV di Rovigo - reggimento
n. XVI di Treviso - reggimento n. XVII di Padova - reggimento n. XVIII di
Verona117.
Il numero di questi reggimenti era marchiato
a caratteri romani sui grossi bottoni di metallo dorato di cui erano adorni gli
abiti dei fanti italiani. Come gli oltramarini, anche reggimenti di italiani
si suddividevano in 9 compagnie ciascuno118. La loro forza complessiva
oscillava nel 1790 intorno ai 6276 uomini, ripartiti in 162 compagnie
organiche. Di queste, 43 con 2712 uomini erano nelle guarnigioni di terraferma,
raccolte in massima parte nei presidi di Verona, Legnago e Peschiera, quando a
quelle terre venne ad affacciarsi Napoleone Buonaparte.
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