CAPO
VI.
L'artiglieria
veneziana.
La veneta repubblica, romanamente e
saviamente, ha sempre prediletta la massima in pedite robur. Sui 18
reggimenti di fanti italiani e sugli 11 di oltramarini essa non contava
infatti, alla caduta, che 4 reggimenti di cavalleria, 1 di artiglieria ed 1 di operai
(il così detto reggimento Arsenal), proporzione per certo assai
favorevole all'arma del popolo, qualora si consideri il fondamento oligarchico
ed aristocratico dello Stato e la necessità di ben presidiare i numerosi
castelli e fortezze che esso aveva sparsi, dall'Adda e dall'Oglio, giù per il
littorale dalmata, fino allo scoglio di Cerigotto. A cifre tonde, a 262
compagnie di fanteria non facevano quindi riscontro che 43 compagnie, tra
dragoni, corazzieri, croati e cannonieri.
La prevalente soverchianza numerica della
fanteria sulle altre armi non fece però dimenticar mai alla Serenissima la
cavalleria e l'artiglieria, e quest'ultima in particolar modo. Quale ramo
progredito dell'arte, l'artiglieristica vantava anzi a Venezia belle tradizioni
dottrinali e bibliografiche: basta sfogliare la cospicua e diligente raccolta
del Cicogna per convincersene138.
Figurano in essa, tra le opere più
conosciute, il Breve esame da sotto-bombardiere, capo e scolaro, redatto
sotto forma di dialogo, l'Esercizio dell'artiglieria veneta e maneggio del
fucil, oltre all'opera classica del maggiore Domenico Gasperoni, ricordata
più sopra e dedicata al doge Paolo Renier.
Però, fino all'anno 1757, l'esercito veneto
non ebbe un corpo di artiglieria a sè, a somiglianza dei reggimenti delle altre
armi. Nè la specializzazione tattica dei cannonieri era giunta ancora a tal
segno da richiedere particolari provvedimenti a loro riguardo, sicchè la
Serenissima si compiaceva di conservare loro, al possibile, quella tal veste di
maestranza, rimasuglio di vecchi statuti e consorterie, dalla quale il corpo
medesimo, con poca spesa, ritraeva grande prestigio e saldo vincolo organico.
Al servizio ordinario nei castelli, nelle fortezze e sui pubblici legni armati,
provvedevano i così detti artiglieri urbani, bombardieri o bombisti;
propaggine delle cerne e particolare aspetto delle Landwehr venete che, in
origine, erano così ricche di multiformi e fecondi atteggiamenti da milizia
popolare.
Ai bombardieri appartenevano infatti per
obbligo gli affigliati alle maestranze ed alle scuole devote al culto di
Santa Barbara, il quale rifletteva sulla consorteria uno spiccato carattere
religioso militante. Dopo il 1570 la confraternita si ridusse in fraglia,
cioè scuola o associazione laica, sotto la protezione della medesima santa, con
capitolari che prescrivevano ai componenti dell'arte alquanti esercizi
personali obbligatoli da compiersi al Lido. Il Consiglio dei Dieci ed i
Provveditori del Comun139 dovevano scrupolosamente vegliare all'assetto
di questa scuola ed all'osservanza dei doveri degli affigliati, d'accordo con
il magistrato alle artiglierie140 e con «quello alle fortezze».
Ogni città fortificata o castello disponeva
di un nucleo organizzato di codesti bombardieri, istruito, disciplinato e
condotto da ufficiali medesimamente prescelti tra le maestranze. I bombardieri
di Venezia, dell'estuario e dei riparti Oltremare, con le rispettive scuole,
dovevano provvedere al servizio delle artiglierie sui pubblici legni, oppure
assoggettarsi al pagamento della relativa tansa, o tassa di esonerazione
come si è detto più sopra.
I bombardieri - secondo i capitolari
dell'arte - dovevano presentarsi a raccolta ad ogni tocco di generala, o
assemblea, sottomettersi alla estrazion del bossolo, cioè a dire al
sorteggio, come praticavasi con le cerne ove occorresse designare gli artigiani
necessari per servire le artiglierie sulle navi, formare pattuglie notturne
nelle città murate, montare dì guardia alle porte, scortare convogli di polveri
e di munizioni da guerra ed estinguere incendi nelle province di terraferma. I
bombardieri di Venezia infine, dovevano esercitarsi nei pubblici bersagli di S.
Alvise e del Lido, «onde ammaestrarsi nel maneggio di tutte le armi che usar
debbono in guerra, con cannoni ad uso di mar e di terra, moschettoni a
cavalletto, fucili e carabine, lancio delle bombe e maneggio della spada».
Oltre a questo tirocinio, i bombardieri
veneziani dovevano far mostra di sè nelle pubbliche solennità, in quella dello Sposalizio
del mare, nelle feste dell'incoronamento del Doge ed all'atto dell'ingresso
dei patriarchi, procuratori e cavalieri della Stola d'oro.Tutti questi
servizi erano gratuiti - compreso quello di pompiere cui erano astretti i
bombardieri di Terraferma - salvo una bonifica di 8 ducati, corrisposta
annualmente dallo Stato per ogni componente dell'arte a pro' della
confraternita ed a titolo di maestranza perduta141.
*
* *
Col tempo queste costumanze derivate dalle
età eroiche, da una condizione semplicista ed arretrata dell'evoluzione
industriale e della compagine operaia, cominciarono prima a scadere e dopo a
degenerare. Molti bombardieri si svincolarono dal giogo del servizio personale
obbligatorio pagando le tanse, individuali dapprima, collettive di poi -
vale a dire le insensibili - quando cioè, con l'insofferenza del servizio,
crebbero l'avarizia ed il disamore alle armi, ed il mestierantismo militare
attecchì su questo terreno brullo ed infecondo come una fioritura di erbàcce
selvatiche.
Sulla seconda metà del secolo XVIII quasi
tutte le compagnie venete dei bombardieri si erano assottigliate in modo
straordinario, e con esse - ridotte in totale a poche centinaia di uomini - si
doveva provvedere al servizio dei 5338142 pezzi esistenti a quell'epoca
sui rampari e sui navigli della Repubblica. Quale truppa infine, i seguaci di
Santa Barbara si erano ridotti - come scriveva il maggiore Domenico Gasperoni -
nè più nè meno che un branco di individui, la cui uniforme e le stesse
baionette erano quasi sempre impegnate o in vendita ai cenciauoli.
Urgeva quindi porre riparo a tanta rovina,
resa ancor più grave dal progresso cospicuo che altrove aveva realizzato l'arma
d'artiglierìa nella tecnica e nella tattica, mercè l'addestramento continuo ed
intenso dei cannonieri; laddove i bombardieri veneti dedicavano all'arte di
Santa Barbara soltanto il limitato tempo che le giornaliere occupazioni loro
concedevano, ed anche questo di malavoglia o facendosi surrogare dai peggiori
rifiuti della società.
Ebbe così vita, nel 1757, il primo nucleo del
Reggimento veneto all'artiglieria, reclutato con i soliti metodi delle
milizie di mestiere, mercè le cure del sopraintendente dell'arma di allora, che
era il brigadiere Tartagna, venuto al servizio della Repubblica dall'Austria.
Successivamente il brigadiere Saint-March ed il sergente generale
Patisson143) proseguirono l'opera del Tartagna, specie il secondo che
può considerarsi il vero e proprio riformatore dell'artiglieria veneta della
decadenza.
Tra il 1770 ed il 1778 il reggimento crebbe
di forza e migliorò d'assetto. L'istituzione del Collegio militare di Verona -
avvenuta pressochè al tempo della creazione del primo nucleo stanziale
dell'arma - doveva inoltre assicurare alla medesima una corrente continua di
ufficiali, tratti dal miglior ceto della società veneta, convenientemente
addestrati ed istruiti; uno stato maggiore insomma degno dei migliori eserciti
e dei più bei tempi della Serenissima.
In sei anni di corso si studiava infatti nel
Collegio la grammatica usando i libri di Fedro, i Commentari di Giulio
Cesare e le Vite degli uomini illustri di Plutarco, il latino, il
francese, le matematiche pure, tanto teoricamente che in pratica ed
infine le matematiche miste, «quali sono adatte al matematico ed al fisico,
abbracciando perciò la meccanica, la balistica, l'idrostatica, l'idraulica,
l'ottica, la perspettiva, l'astronomia, l'architettura civile e militare, la
nautica e la geografia»144.
E poichè era «scopo principale dell'istituto
di rendere i giovani, al possibile, perfetti nell'ufficio di artiglieri, di
ingegneri e di battaglisti», così si doveva, oltre alle materie teoriche di cui
sopra, «insegnare loro il modo di guerreggiare degli antichi, l'uso di
accamparsi, la condotta delle mine, l'arte teorica e pratica dell'artiglieria
ed il modo di guerreggiare presentemente in rapporto con gli antichi».
Nel piedilista del 1781 adunque il
reggimento di artiglieria appare di già adulto. Esso contava 681 cannonieri
suddivisi in 12 compagnie, quattro delle quali erano dislocate nei presidi di
Levante, tre in quelli di Dalmazia e le rimanenti cinque in Italia. Dai diversi
presidi poi si prelevavano in proporzione i contingenti necessari per il
servizio delle navi armate in guerra. Alla disciplina, all'istruzione ed
all'impiego dei cannonieri imbarcati sopravvegliavano a turno, due degli otto
capitani del reggimento residenti a Venezia, l'uno a bordo della nave
capitana, l'altro a bordo della galera provveditrice dell'armata, e
ciò durante il tempo in cui la squadra teneva il mare, vale a dire
ordinariamente dal giugno all'ottobre di ogni anno.
Il numero dei cannonieri imbarcati sulle navi
era, di regola, di una ventina per ogni fregata e di una dozzina per ogni
sciabecco. L'impiego delle batterie galleggianti verificatosi in quei tempi
gloriosi per le imprese coloniali dell'Emo, richiedeva oltre a ciò uno speciale
contingente anche per tali navigli, pari in forza a quello che si usava sulle
fregate.
All'infuori di questi còmpiti essenziali del
reggimento, di servire cioè sui pubblici navigli, esso funzionava da centro
d'istruzione e da istituto di collaudo dei materiali dell'arma. Queste pratiche
si eseguivano al tiro al bersaglio del Lido - l'antico palio dello
splendore veneziano - dove si trovavano raccolti i falconetti ed i cannoni, in
prevalenza del calibro da 12 e da 16, necessari per eseguire i tiri di prova,
il saggio delle polveri e dei proiettili e per verificare la resistenza dei
materiali. Pure al poligono del Lido si esperimentavano i prodotti della Casa
all'Arsenal, l'officina classica delle armi, degli arredi e degli strumenti
guerreschi veneziani, i letti o affusti da cannone, gli attrezzi e gli
armamenti, e si collaudavano pure i lavori che l'industria privata
somministrava alla Repubblica, specie i cannoni forniti dalla ditta Spazziani.
Le artiglierie e le munizioni - regolarmente
apprestate per qualche tempo dalla detta casa mercantile - erano
assoggettate al Lido ai prescritti tiri forzati, e così anche le canne dei
fucili di nuovo modello, tipo Tartagna, fucinate a Gardone in Valtrompia, le
armi bianche e da fuoco somministrate dagli stabilimenti metallurgici della
Bresciana.
Infine, al Lido ed a Mestre, i cannonieri del
reggimento si esercitavano nelle prove di traino con buoi e cavalli, e
d'inverno si adoperavano per riconoscere lo spessore dei ghiacci al margine
della laguna e nei canali navigabili, per determinare la capacità di transito
dei veicoli sopra le superficî congelate.
*
* *
Ma tutte le previdenze del sergente generale
inglese Patisson e poscia dello Stràtico, nominato sovraintendente delle cose
tutte all'artiglieria nel 1786145, coadiuvato dal capitano
Buttafogo elevato alla carica di ispettore - non sarebbero state sufficienti
per assicurare al corpo degli artiglieri veneti quel prestigio che essi
toccarono alla caduta della Repubblica, senza l'opera del grande contemporaneo
Angelo Emo.
Occorre perciò menzionare a questo punto i
progressi della tecnica artiglieristica, realizzati per opera ed impulso
dell'ultimo ammiraglio veneto.
Prima di lui la decadenza batteva il suo
pieno nell'Arsenale e sulle navi armate. «Le sale di quel vecchio e grande
edifizio - scriveva Giovanni Andrea Spada - erano adorne a pompa, non a difesa,
nè v'era in esso quanto bastasse a l'armamento completo di tre reggimenti. I
cannoni quasi tutti di ferro e non adatti agli usi della nuova arte della
guerra, le palle in relazione..., le maestranze erano poi così svogliate,
ignoranti e corrotte, che un operaio lavorava alle volte un solo giorno al
mese».
Rimediò per primo a questa rovina il
Patisson, spalleggiato dall'Emo, grande e geniale ammiratore dell'arte e della
disciplina marinara e militare inglese, ch'egli vagheggiava introdotte a
Venezie. «Le polveri nostre sono umide - dichiarava il Patisson al Savio alla
Scrittura - e non si provvede a sostituirle che con altre ugualmente cattive...
Le artiglierie impongono urgenti provvedimenti per rendere utili i pezzi che
sono nelle cinque principali piazze di Oltremare, cioè Corfù, Cattaro, Zara, Knin
e Clissa, e validi i pezzi destinati all'armo dei pubblici legni, nonchè
all'attual sottile armata di 18 navi, 6 fregate, 5 sciabecchi, fissato con
decreto del 1° agosto 1780... alla difesa dei forti della Dominante, per il
treno di campagna e per le altre eventualità»146.
Il noto contratto con la ditta Spazziani
doveva ovviare alla gravissima crisi, unitamente ai provvedimenti organici
adottati per l'arma di artiglieria, alla abolizione delle mezze paghe ai
cannonieri meno abili ed al trasferimento degli inabili nel corpo dei veterani.
Fu così possibile armare nell'estate del 1784 la squadra veneziana destinata
all'impresa di Tunisi147; sforzo assai modesto se si riguarda il
passato, ma tuttavia soddisfacente e lusinghiero se si considerano le critiche
contingenze del tempo, le trascuranze e gli abbandoni degli istituti militari e
marinari.
Nel seguente anno 1785 i cannonieri del
reggimento artiglieria si distinguevano nel violento bombardamento della
cittadella di Sfax. La bombarda Distruzione, nel combattimento del 30
luglio colpiva 31 volte il segno su 32 tiri, il 31 luglio 23 volte su 47, il 1°
agosto infine 39 volte su 47. La bombarda Polonia il 1° agosto stesso
colpiva 55 volte il nemico su 61 colpi lanciati. Il porto di Trapani - prescelto
dall'Emo con sagace intuito militare e navale - per servire da base eventuale
di rifornimento della propria squadra e delle artiglierie venete, ferveva
allora di apparecchi guerreschi. Quivi si apportavano gli ultimi ritocchi alle
batterie galleggianti protette, ideate ed allestite dal grande ammiraglio.
«La poca influenza delle navi - così egli
lasciò scritto - sopra le batterie rasenti del molo, suggerì alla mia
imaginazione un espediente alla prima apparentemente ridicolo... di formare
cioè, con artificiosa connessione, clausura e rivestimento della unita
superficie di due masse di venti botti, due zattere o galleggianti munite di un
grosso cannone da 40 ciascuno... protetto da parapetti formati da una doppia
riga di mucchi di sabbia... bagnata e rinchiusa da sacchi»148.
Il 5 ottobre 1785 l'Emo, coadiuvato dai suoi
cannonieri, impiegava per la prima volta due di tali batterie blindate
galleggianti nel bombardamento della Goletta, «ed era molto cosa piacevole -
scriveva un testimonio oculare - nel veder da tutti i lati cadere fulminanti le
nostre bombe sopra la rinomata Goletta che, tutta fumante, mi sembrava un
Vesuvio»149.
Queste batterie galleggianti - migliorate in
seguito ed accresciute di numero - ricevettero due cannoni ognuna, tra cui un
obice, e quindi appresso anche un mortaio da 200. Al comando dell'artiglieria
di ciascuna zattera blindata furono destinati due ufficiali del reggimento, e
le zattere stesse si denominarono obusiere, bombardiere o cannoniere,
a seconda del tipo dei pezzi che recavano a bordo.
Ma le imprese dell'Emo rappresentarono il
canto del cigno della morente grandezza militare e navale dei Veneziani. Morto
questi, il 1° marzo 1792, l'artiglieria veneta ripiombò nella sua rovina.
*
* *
Quale servizio prettamente tecnico,
l'artiglieria faceva capo al Reggimento così detto all'Arsenal ed
all'Arsenale medesimo; talchè le due branche dell'attività artiglieristica - il
tattico ed il tecnico - trovavano nella pratica due enti destinati a
rappresentarle, cioè il reggimento suddetto e quello all'artiglieria.
Dopo i grandiosi ampliamenti introdotti
nell'Arsenale ai tempi dello splendore150, l'aggiunta del braccio
nuovissimo, del riparto delle galeazze e della casa del canevo, ossia la
corderia (denominata comunemente la tana), la meravigliosa fabbrica dei
veneziani era caduta prima in abbandono e poscia in completa rovina.
La stupenda officina delle armi e dei navigli
veneti, verso la caduta della Serenissima si era quindi ridotta un'ombra di sè
medesima, una bellezza stanca e disfatta dall'opera demolitrice degli anni, la
cui fama richiamava ancora le genti a visitarla, ma più come un monumento delle
passate età che come cosa viva. Così la visitò Giuseppe II nell'estate
dell'anno 1769.
L'Arsenale conservava ancora a quel tempo
oltre tre miglia di circuito, e tutto intero il giro delle sue muraglie
guarnite di bertesche sulle quali, di continuo, vigilavano le sentinelle per
preservare il cantiere da ogni funesto accidente, specie dal fuoco. Queste
sentinelle erano in corrispondenza con una guardia centrale posta in mezzo
all'Arsenale, con cui, ad ora ad ora, esse scambiavano alla voce il grido di all'erta
per sapere se vegliassero.
Dalla sera all'alba un drappello di soldati -
Oltremarini in massima parte - girava tutt'attorno al grande cantiere
veneziano, ed anche questi solevano chiamare dal di fuori l'attenzione di
quelli che vigilavano sull'alto delle mura, di guisa che l'incrocio delle voci
delle scolte era continuo e persistente. Dei due maggiori ingressi
dell'edifizio, quello detto da mare, d'onde entravano ed uscivano le
navi, era guardato sempre da un buon nerbo di truppa disposto presso al ponte
di legno. L'ingresso detto da terra, che si apriva sul Campo
dell'Arsenal, era invece custodito da un altro manipolo di cannonieri e di schiavoni,
i quali facevano la scolta sotto la grande porta del leone alato, sopra alla
quale troneggia la statua di Santa Giustina.
Vicino alla porta da mare - segno
manifesto della corruzione e della decadenza dei tempi - sorgeva una cantina
o vascone che, «da tre bocche versava vino in gran copia per dissetare a
pubbliche spese tutto quel popolo di operai151, cresciuto tra l'ignavia
universale e fatto baldanzoso dalle debolezze dei governanti. E gli arsenalotti,
intorno all'anno 1775, ascendevano ancora a più di duemila, suddivisi in
squadre comandate da appositi capi detti proti, sotto-proti o capi
d'opera, tutti vestiti con abiti talari152.
Al riparto delle fonderie e dei metallurgi
sopravegliava ancora a quei tempi la dinastia degli Alberghetti, «membri
della famiglia benemerita di antico servigio la quale aveva mai sempre prodotto
uomini valenti nelle meccaniche ed inventori di nuove artiglierie»153.
E tra questi operai tutti si reclutava il grosso del Reggimento Arsenal,
più corporazione e confraternita del tipo degli antichi bombisti, che
corpo regolarmente ordinato. A tale arte facevano pure capo i lavori di
ristauro più delicati delle armi portatili, quali il rinnovo degli azzalini
(acciarini), il calibramento delle canne e la trasformazione dei fucili
dall'antico modello (1715) al nuovo, del campione Tartagna.
Al lavoro delle vele ed alla fattura dei
cordami sottili attendevano le donne «le quali, a togliere ogni sorta di
scandalo, albergavano in un luogo disgiunto affatto dagli uomini, custodite da
altre donne attempate e di buona fama, e con la sopraintendenza di un ministro
di età matura»154.
Altri operai - pure ascritti al Reggimento
Arsenal - si occupavano di «filar canape e formarne gomene, alla qual cosa era
destinato un luogo che è bensì dentro il circuito dell'Arsenal, ma separato da
esso in modo che con quello non abbia comunicazione veruna»155. Questa
era la Tana sopranominata, laboratorio, deposito di cànapi e magazzino
di legname da lavoro e di altri attrezzi marinareschi, governato dagli appositi
visdomini, o sottointendenti.
Era questa Tana un vasto locale lungo
400 pertiche, governato di un magistrato apposito, e non lungi da esso si
ergeva il real naviglio del Bucintoro, che una volta all'anno, la
vigilia dell'Ascensione, usciva fuori dell'Arsenale per far di sè bella mostra
il dì seguente, «nel più bello di tutti gli spettacoli che si possano mai
vedere in qualunque parte del mondo»156.
*
* *
Il magistrato all'artiglieria aveva
giurisdizione sull'Arsenale insieme agli altri colleghi157, ma l'opera
sua si esplicava più particolarmente rispetto al reggimento all'Arsenal,
mentre quella del sopraintendente, o del brigadiere dell'arma, si riferiva in
modo speciale al reggimento artiglieria.
Quel magistrato teneva infatti i ruoli dei
«fonditori, carreri, fabbri, tornitori ed altri uffiziali unicamente dipendenti
da esso», aveva in consegna i parchi dei cannoni di bronzo e di ferro, le
munizioni, le bombe, gli apprestamenti d'ogni genere ed i salnitri. Funzionava
adunque, sotto questo punto di vista, da ufficio burocratico ed amministrativo;
còmpito non lieve nè facile quando si pensi allo svariatissimo numero di bocche
da fuoco che la Repubblica manteneva ancora in servizio alla sua caduta,
claudicanti sui letti che invano attendevano l'opera riparatrice e
rinnovatrice della ditta mercantile Spazziani. Erano 24 modelli diversi di cannoni,
tra bronzo e ferro, 5 di falconetti, 6 di colubrine, 4 di petrieri, 13 di
mortaj, 3 di obusieri, 3 di obizzi; senza contare le artiglierie di
minor calibro e le speciali, come gli aspidi, i passavolanti, i
saltamartini, i trabucchi, le spingarde, gli organetti ed i mortaretti per
la prova delle polveri158.
Ma il peggior lavoro da Sisifo in questa
decadenza delle armi veneziane si era per certo quello di resistere alle
continue insidie che si tendevano al Deposito intangibile, di cui il
magistrato all'artiglieria era responsabile coma prima autorità tecnica del
reggimento all'Arsenale. Questo deposito era costituito da una cospicua
raccolta d'armi d'ogni fatta, composte in alquante sale dell'Arsenale medesimo,
«le cui pareti erano tutte maestrevolmente guernite, dall'alto al basso, di
loriche, di elmi, di spade, di archibugi e di altri militari strumenti. Alcuni
di questi saloni forniti erano di armi per 25,000 soldati, tali altri per
30,000, tali altri ancora ne somministravano fino a 40,000: e ve ne erano
ancora altri per 25,000 o 30,000 galeotti. Le dette sale si vedevano ancora
adorne con le imagini di molti ed illustri capitani»159.
Il deposito intangibile, ampliato e
riordinato nella parte moderna dal sopraintendente Patisson e nell'antica del
maggiore Gasperoni160, era così detto perchè ad esso non si doveva
ricorrere salvo che al caso di estrema urgenza ed immediato pericolo di guerra,
dappoichè agli usi correnti dell'armo o della neutralità dovevano
sopperire altri depositi detti di consumo, pure stabiliti dentro la
cinta dell'Arsenale con annesse riserve di cannoni e di munizioni.
Ora un organismo come il veneto della
decadenza, il quale consumava senza produrre, doveva necessariamente intaccare
il patrimonio del passato senza reintegrarlo in alcuna guisa, e mordere dentro
l'eredità del deposito intangibile senza ricostituirla. Ed al magistrato
all'artiglieria toccò di assistere a questa lenta morìa delle armi veneziane,
registrandone a mano a mano i battiti decrescenti del polso, assistendo
inoperoso ed inutile a questo sfasciarsi, grado a grado, di una potenza
militare accumulata da secoli, la quale andava sgretolandosi come sotto le
percosse monotone ed uniformi di un mare ondoso e profondo.
I registri del magistrato all'artiglieria
rilevano tutto questo con impassibilità e precisione. Il deposito intangibile
faceva così bancarotta, ed ogni fucile ed ogni spada che si toglieva da esso e
non si rinnovava, sembrava una nuova e fiera rampogna all'ignavia della
Serenissima.
Nel 1794 i presidi di Brescia, di Bergamo e
di Verona, erano sprovvisti di schioppi per armare le cerne pur allora
arruolate, le quali abbisognavano di 2300 fucili e di 66 moschetti da
cavalletto. Il Reggimento all'Arsenal non potendo fare fronte alle richieste
con le armi del deposito di consumo fu autorizzato, «a fare le relative
pratiche, cioè «a far passare dal deposito intangibile a quello di consumo il
numero dei fucili occorrenti, guarniti di bajonetta»161.
Da quel punto la rovina non ebbe più ritegno.
Nel 1796 il deposito di consumo - secondo scrisse il colonnello Molari del
Reggimento Arsenale - si era ridotto a soli 360 fucili con bajonetta, a 199
senza, a 200 tromboni per uso delle navi, a 639 palossi di bordo
ed a 359 palossetti; vale a dire a nulla o pressoché162.
Il deposito intangibile era pure disceso a
quel tempo a 24,084 fucili completi, a 7750 pistole poco atte al servizio e difettose
di azzalini, a 1558 palossi e ad 89 moschettoni163. È bensì
vero che si trovavano oltre a ciò sparse alla rinfusa nelle sale 20.966 canne da
rimontarsi in fucili, 7455 lame da palosso, 2624 azzalini,
11,862 guardie da palosso, 3366 lame da palossetto e 2500 guardie
corrispondenti; ma per adattare tutte quelle parti d'arme occorrevano tempo,
fede e lavoro, e così come si trovavano potevano rassomigliarsi ai frantumi di
una grande e meravigliosa nave sfasciata dalla tempesta.
Pure, in mezzo a tanta dissoluzione, si
rileva dai documenti la nota semplice ed ingenua, cioè l'offerta fatta da
taluni abitanti dell'estuario veneziano di crescere, comunque, con le loro
vecchie e logore armi il deposito dell'Arsenale. Erano i cittadini di Burano
che in tali frangenti facevano omaggio al Principe di 20 schiopponi e di 25
schioppi da brazzo, «(braccio) serventi alla cazza (caccia) dei
volatili»164.
La piccola e modesta profferta se lumeggia il
patriottismo dei bravi Buranesi, rivela nondimeno la fatalità e la grandezza
della rovina militare della Repubblica, e riflette ancora molta luce sul modo
di intendere e di comprendere la guerra in quei tempi.
|