CAPO
VIII.
La cavalleria veneta.
Le armi nel loro complesso, il governo
ed il riparto
difensivo e territoriale. I veterani.
Le glorie della cavalleria leggera stradiotta
erano sfiorite da gran tempo. I fieri cavalieri albanesi - o cappelletti
- al soldo della Repubblica, vestiti di abiti succinti, armati di piccolo
scudo, di lancia e di spada, che avevano empito delle loro fulminee gesta i
campi d'Italia nel Cinquecento, si erano a grado a grado ammansiti. Avevano
dapprima smussate le unghie, poscia ripiegate le zanne e si erano da ultimo confusi
e perduti in un largo innesto nei più miti cavalleggeri Dalmati e Croati.
L'essenza dell'arte del combattere leggero alla stradiotta, fatto di balenare
d'incursioni, di tagli ratti e violenti inferti sul corpo greve
dell'avversario, di solchi sanguigni e profondi vibrati sulle terre devastate
dalla loro rapacità, era esulata altrove sotto forme più disciplinate e
conformi al diritto delle genti, specie in Francia, dove si era raccolta e
tramandata, con qualche sapore di venezianità, sotto le insegne del
reggimento cavalleggeri Royal Cravates193.
A Venezia rimase, come di tutto il bello ed
il buono del passato, soltanto l'eredità delle memorie. Trascorso il periodo
delle grandi guerre e delle lotte di conquista, nelle quali la cavalleria
stradiotta con il suo rapido dilagare parve quasi il simbolo e l'arma per
eccellenza; ripiegatasi la Serenissima in sè medesima, la cavalleria divenne
nell'esercito veneto un'arma esotica. Si restrinse cioè al modesto compito di
milizia addetta alla custodia dei confini, alla scorta dei convogli di
privative dello Stato194 e delle reclute, alla guardia d'onore delle
missioni e delle alte cariche governative; dedicò infine il proprio servizio al
mestiere di staffetta lungo le principali rotabili, per trasmettere con qualche
celerità lungo di esse le ducali e gli ordini più urgenti del Savio alla
Scrittura.
Sotto questo riguardo adunque la cavalleria
veneziana prese la veste di un pubblico servizio e si spogliò delle
caratteristiche di arma combattente.
Le esenzioni e le difficoltà dei pascoli,
mentre tendevano a raccoglierla in determinati centri meglio provvisti di
foraggio, obbligavano per contro a frazionarla in piccoli posti là dove questo
scarseggiava. E ciò anche per meglio soddisfare alle esigenze del servizio di
scorta e di staffetta. La campagna bresciana e la veronese primeggiavano per
floridezza dei pascoli e quivi i riparti di cavalleria potevano stare più
raccolti: la provincia del Friuli, specie il circondario di
Pordenone195, pur essendo assai più ricca di foraggi era nondimeno
esente da ogni servitù, e ciò per antico privilegio.
Nei dintorni del Chievo (Clevo) stava
quindi alloggiato un buon terzo della cavalleria veneta al tempo della
decadenza, ed a Verona risiedeva il suo sopraintendente. I possessori di quelle
praterie acclive e dei pingui pascoli sotto quella fortezza erano obbligati -
per vecchi statuti - a somministrare le decime dei loro fieni alla
cavalleria196.
Ma quel vincolo - fatto di antiche schiavitù
terriere - era diventato insopportabile ai terrazzani veronesi della decadenza
della Repubblica, che ripetutamente ed acerbamente se ne dolevano, offrendosi
perfino di pagare la prescrìtta decima in denaro sonante. Con ciò quei
terrazzani intendevano piuttosto a liberarsi delle guarnigioni che dell'onere
che loro derivava per la presenza della cavalleria nelle loro terre.
Ma il Senato, nel 1782, riconfermò nel modo
più esplicito il pieno vigore delle antiche servitù, «essendochè la fornitura
delle decime alla pubblica cavalleria è destinata alla comune salvezza di
tutti, per il mantien di quell'arma»197.
A squadriglie, a drappelli, il rimanente
della cavalleria era suddiviso in parte nelle città e nel contado della
Bresciana e del Bergamasco, ed in parte tra i centri di Padova, Rovigo,
Treviso, Udine e Palmanova. Delle province di Oltremare, la sola Dalmazia aveva
cavalleria preferibilmente croata, oppure di corazze; e poichè a questa
specialità da tempo era affidato il servizio di vigilanza verso le frontiere
turchesche e nell'interno, i nomi di corazze e di croati
suonavano nei luoghi come sinonimi di gendarmi ed anche di sgherri198.
Inauguratosi poi, nel 1783, il sistema dei
cambi di guarnigione o dei turni - come si disse più avanti - -fra i
grandi riparti territoriali della Serenissima, questa tradizione poliziesca
andò a grado a grado affievolendosi, ed il servizio di ordine pubblico fu indi
appresso egualmente ripartito tra le diverse specialità dell'arma che si
avvicendavano nei presidi d'Oltremare.
*
* *
I còmpiti della cavalleria veneta si
esplicavano anzitutto nei servizi mobili, cioè nella perlustrazione delle
strade di maggior transito insidiate dai malviventi, nella sorveglianza delle
linee di confine, nella protezione dei convogli di biave (frumento) che
dovevano servire alla panificazione per la truppa199 e nei servizi
fissi di guardia e di vigilanza locale; cioè nei così detti appostamenti
dell'arma stabiliti ai nodi stradali di maggior rilievo, nelle vicinanze delle
fortezze e dei castelli più importanti. Sotto quest'ultimo aspetto, la
cavalleria veneta si prestava all'occorrenza anche al disimpegno del servizio
di staffetta e di corriere, come si è ricordato più sopra.
Il senso di cosiffatto servizio spigliato,
disimpegnato a piccoli nuclei, contribuiva nondimeno a rendere l'arma
maneggevole, usa alle fatiche e bene allenata. I frequenti contatti tra l'una e
l'altra riva dell'Adriatico avevano fatto inoltre acquistare alla medesima
buona pratica degli imbarchi, degli sbarchi e dimesticità nelle traversate
oltremare, abbenchè nessuna prescrizione regolamentare si occupasse della
materia e se ne lamentasse oltremodo il difetto200. I trasporti si
eseguivano di solito tra il Lido e Zara usando le manzere, o barche per
il trasporto dei bovini, ed in genere «approfittando di tutti i legni in
partenza, sia per armo che per scorta delle reclute»201.
Quanto al frazionamento della cavalleria esso
era per certo molto considerevole. Nel 1794, le quattro compagnie di croati
del Reggimento Colonnello Avesani e le quattro compagnie di dragoni
del Reggimento Colonnello Soffietti, che avevano stanza attorno al
Chievo, fornivano appostamenti a Mozzecane, Valeggio (Valeso), Sorgà,
Villanova, Castelnuovo, San Pietro in Valle, Caldiero, Cà de' Capri, Sega, ed
eventualmente anche posti di vigilanza attorno alle fortezze di Legnago e di
Peschiera202. Le rimanenti quattro compagnie di ciascuno dei reggimenti
sopra ricordati, che tenevano guarnigione nella Bresciana, provvedevano a loro
volta agli appostamenti di Palazzolo, Ospedaletto, Ponte San Marco, Orzinovi,
Àsola, Pontevico, Salò e Crema. Infine, due compagnie del reggimento croati del
Colonnello Emo distaccate nel Bergamasco, somministravano gli
appostamenti di Cavernago, di Vercurago, Lavalto, Sorta, Villadoda, Cividale,
Barican, Sola, Brambat, Lurano, San Gervasio, Romano e Pontida203.
E le compagnie della cavalleria veneta a quel
tempo, «detratti gli ufficiali, bassi-ufficiali, camerata (attendenti e
piantoni di scuderia) selleri, forier e marescalco, che non fanno
servizio...» si erano ridotte a soli 27 cavalieri ognuna204.
Intorno a questo medesimo tempo l'arma si
suddivideva in due reggimenti di croati, in uno di cavalleria dragona
ed uno di cavalleria corazziera. I reggimenti di croati e di dragoni
avevano la forza di otto compagnie ciascuno, quello di corazzieri ne contava
solamente sei.
Le compagnie di dragoni, croati e corazzieri,
accoppiate due a due, formavano uno squadrone agli ordini di un sergente
maggiore.
I corazzieri, per vecchia tradizione
nobilesca, costituivano anche nella cavalleria veneta la milizia a cavallo più
pregiata e ragguardevole, e la legge di Ottazione assicurava ai loro
graduati alcuni privilegi in confronto agli altri graduati della
Serenissima205. I dragoni erano destinati a combattere occorrendo anche
a piedi ed erano perciò armati di moschettoni206; i croati infine
formavano la cavalleria leggera.
Sulla fine della Repubblica era
sopraintendente dell'arma il già colonnello delle corazze conte Giulio
Santonini. Quando questi fa elevato alla suprema carica della cavalleria veneta
(1788) con l'anzidetto titolo di sopraintendente e con il grado di sergente
maggiore di battaglia, il Santonini contava 52 anni di servizio e 67 di età,
dedicati in massima parte al pubblico servizio nelle guarnigioni di Dalmazia e
di Levante207.
*
* *
Il grande frazionamento delle truppe venete,
le loro unità stremate di gregari e decrepite nei quadri, il servizio anfibio
che esse prestavano tra terra e mare, tra le frontiere turchesche e le isole
sperdute dell'arcipelago ionico, rendevano assai rare le occasioni utili per
stabilire contatti reciproci di cameratismo, per affinare il senso dell'arte,
per esercitare insomma le truppe medesime in nuclei di qualche rilievo,
conforme a quanto si usava a quell'epoca nei campi di manovra di Francia e
dell'Impero. Richiamate poi a nuova vita le cerne nel 1794, con il loro innesto
nei riparti di soldati del vecchio piede le unità si rinsanguarono alcun
poco, sicchè le compagnie anemiche dei fanti italiani ed oltremarini, da una
trentina di soldati appena salirono in media a circa il doppio.
Si presentava allora propizia l'occasione per
addestrare le truppe venete in qualche simulacro di campo o di manovra, ed il
tenente generale Salimbeni - il tacciato di giacobinismo nei bossoli del
Maggior Consiglio e del Senato - la colse ben volentieri a Verona, là dove,
sulla fine del detto anno, si trovavano raccolti ben 2507 tra fanti e
cannonieri, con 326 tra dragoni e croati208.
«Il capitanio di Verona (Alvise Mocenigo)
come pure il tenente generale Salimbeni - così diceva una relazione del Savio
al Doge - si mostrano molto soddisfatti dei progressi della guarnigione nei
campali esercizî, ad onta del tempo non lungo scorso dalla prima raccolta delle
cernide e di qualche rèmora nelle successive. Nè per essere di già terminata la
stagione delle campali evoluzioni209 si introdusse l'inazione nella
piazza. Mentre quel comandante delle armi profitta di questa stessa
circostanza per stabilirvi il giornaliero servizio, senza tenere di soverchio
occupata la truppa che gode di altrettanto riposo e coglie sempre le buone
giornate per esercitarle anche riunite in corpo, il medesimo si propone
alla ventura primavera di eseguire anche col presidio qualche evoluzione di
tattica»210.
Le buone intenzioni avevano adunque fruttato
qualche cosa. Più tardi, nel luglio del 1796, il sergente generale conte
Stràtico - il fautore di una artiglieria veneta da battaglia leggera e
manovriera ed il riformatore del regolamento di esercizi per le fanterie
italiana ed oltremarina - riaffermava ancora la necessità di queste manovre
d'assieme, nella premessa al ricordato regolamento e nel carteggio che esso
diede luogo tra lo stesso Stràtico ed il Savio di Terraferma alla Scrittura in
carica.
Con la visione oramai netta e precisa della
patria violentata sul margine delle lagune - come al tempo della guerra di Cambrai
- quel generale vagheggiava la costituzione di alcuni campi stabili sotto ai
forti di San Pietro in Volta e di Malamocco, presso i trinceramenti della Motta
detta di Sant'Antonio e presso il Lido, allo scopo di formarne una scuola
d'armi e d'armati sempre pronta ad ogni evenienza, sempre desta ad ogni
minaccia; di apparecchiare insomma un buon istrumento di difesa per Venezia e
per l'estuario. Giacomo Nani, con il prestigio del suo nome, con la profondità
delle sue dottrine, con il suo patriottismo illuminato, aggiungeva a questi
disegni forza e decoro.
«È bene - scriveva lo Stràtico - che si
radunino al più presto assieme queste truppe e siano messe sotto le tende, come
nella ultima neutralità211 al tempo del maresciallo Schoulemburg. Tale
metodo è poi molto utile nel formarsi in battaglia, nel marciare fuori dei
campi per qualche lungo tratto interrotto da fossi, da siepi e da altri
impedimenti, e finalmente per eseguire le grandi manovre. Da questo primo passo
dello attendamento è facile condursi poi a quegli altri che formano la catena
continua delle militari istruzioni; vale a dire nel rendere in pari tempo ed in
unione con la fanteria esercitati gli artiglieri nella disposizione e nello
esercizio dell'artiglieria di corpo e del treno da campagna, di cui dovrebbero
essere forniti i progettati accampamenti, come anche la cavalleria che vi si
volesse assegnare sia nei finti assalti che in foraggiare, scortare convogli e
bagagli... Quanto poi riflette questa ultima arma, il maresciallo Schoulemburg
era del parere doversi armare i lidi di Venezia212, specie i
dipartimenti di Pellestrina e di Chioggia, con buoni corpi di cavalleria per
impedire gli sbarchi ed appoggiare occorrendo quelle milizie che, da Venezia,
fossero spedite in Terraferma. Converrebbe quindi chiamare a questa parte
almeno quattro compagnie di croati, aumentando però la loro forza
attuale fino a cento teste, formare con esse tre buoni squadroni (di due
compagnie ognuno) ed aggiungervene un quarto di cavalleggeri». Così, mentre la
Serenissima stava agonizzando, si istituirono in tumulto gli ultimi campi di
manovra dell'esercito Veneto, sicchè essi uscirono alla luce del sole come
nati-morti.
*
* *
Il riparto militare della Repubblica
comprendeva i quattro dipartimenti territoriali d'Italia, di Dalmazia, del
Golfo e del Levante. I tre ultimi, per essere d'oltremare, avevano stretta
correlazione con la suprema magistratura politica, civile e marinara di
ciascuna provincia (i provveditori generali). Il primo dipartimento invece,
quello d'Italia, non avendo normalmente tale analogia di forme e di reggimenti
- a meno che speciali circostanze politiche non consigliassero di nominare
anche colà un provveditore - esercitava la propria giurisdizione per mezzo dei capitani
e dei podestà.
Nel riparto di Levante213 primeggiava
l'isola di Corfù, per la sua posizione geografica e per il ricordo degli ultimi
fasti di guerra della Serenissima (1716) indivisibilmente congiunti alla
strenua difesa del maresciallo Schoulemburg. E la fortezza corfiotta nel 1796
contava ancora sui rovinati rampari ben 512 bocche da fuoco di varia specie e
calibro. Dopo Corfù, in ordine d'importanza, si contava Santa Maura (Levkàs)
cui pendevano di continuo sul capo come scimitarra gli orrori delle incursioni
turchesche; Zante (Zakynthos) la boscosa e feconda per i pingui pascoli, assai
mal guardata dai suoi 21 cannoni barcollanti sugli affusti tarlati; Prevesa la
cittadella perduta in fondo al promontorio aziaco, ricca di gloria romana ed
anche un poco orgogliosa per la recente fortuna dei Veneti214, guardata
da un pugno di soldati macilenti per i miasmi dell'acquitrino ambracico.
Venivano ultime Vonizza, l'isola di Cefalonia con il presidio di Asso, e li
scogli perduti di Cerigo e Cerigotto.
Nel contado delle Bocche, cioè in parte della
giurisdizione del Golfo, aveva il primo posto la fortezza di Cattaro con
153 cannoni, compreso l'armamento del Forte Spagnuolo di
Castelnuovo215, quello del castello di Budua e degli appostamenti di
Zupa e del contado dei Pastrovicchi. Frequenti erano le relazioni politiche e
commerciali dei governatori delle armi di queste due ultime fortezze con
l'attiguo territorio dei Montenegrini e dei pascià dell'Erzegovina216.
Il riparto di Dalmazia aveva per capoluogo
Zara. Non minore importanza dopo questa città avevano i castelli di Knin, di
Sign, di Spalato, di Traù, le opere di Sebenico, quelle di Almissa e di
Imoschi. Nell'Istria Veneta primeggiava infine Capodistria armata con 12 pezzi.
Tra le piazze forti d'Italia aveva grande
fama Palma, o Palmanova, retta da uno speciale magistrato militare.
Il numero dei castelli e delle fortificazioni
di Venezia e dell'estuario era assai grande, e tale si trasmise pressochè in
integro, attraverso le dominazioni francese ed austriaca, fino al 1848. Tra le
opere più notevoli si contavano, al tempo della caduta della Repubblica, quelle
del Lido, di Campalto, della Certosa, di San Giorgio Maggiore, della Motta di
Sant'Antonio, del Maltempo, di San Pietro in Volta, degli Alberoni, di
Chioggia, di Bròndolo, del Castello di Sant'Andrea, di San Giovanni della
Polvere, di San Giorgio in Alga; oltre una folla di opere minori, batterie,
trinceramenti, ottagoni, palizzate ed appostamenti217.
Sugli spalti di queste opere di Venezia e
dell'estuario risultavano collocate in complesso 2471 bocche da fuoco, comprese
le disponibili nell'Arsenale.
Caposaldo della difesa di Terraferma era la
fortezza di Verona. In essa si notavano il castello di San Pietro e quello di
San Felice218, entrambi ricchi di solide muraglie, di torricelle, di
opere a corno e di terrapieni d'ogni maniera, demoliti in buona parte in forza
del trattato di Luneville nel marzo 1801; Castel Vecchio di remota costruzione
Scaligera219 con grossi parapetti, feritoie sui piloni del classico
ponte e merlature, opere deturpate anch'esse in virtù del detto trattato; e la
cinta murata con le numerose porte, cortine e bastioni illustrati dall'arte del
Sammichieli. Minore importanza avevano infine la piazze di Legnago e di
Peschiera - recentemente sistemate nei fossi acquei e nelle mure dal colonnello
Lorgna - il castello di Brescia, le opere di Orzinovi (Orzi-Novi), di
Crema, di Àsola, di Pontevico e di Bergamo.
*
* *
L'alta giurisdizione territoriale militare
sui riparti di Levante, Dalmazia, Golfo ed Italia, era esercitata dai
rispettivi sergenti maggiori di battaglia, secondo i turni dei quali si disse
più sopra. Il comando effettivo delle fortezze competeva invece ai singoli
governatori delle armi, suddivisi in alquante categorie a seconda
dell'importanza delle fortezze medesime.
Ai governatori delle armi spettava un certo
numero di lance spezzate costituenti una piccola guardia del corpo.
Successivamente però questo diritto andò modificandosi e si trasformò, sul
finire della Repubblica, in una specie di indennità di carica da corrispondersi
in contanti.
A questi governatori delle armi nelle
fortezze d'Oltre mare incombeva un còmpito assai spesso difficile e pericoloso.
Quello cioè di servire da ago della bilancia in mezzo alla violenza
delle passioni politiche delle genti contermini, e da scudo contro le
incursioni e le depredazioni delle vicine tribù turchesche. E l'uno e l'altro
ufficio essi dovevano assolvere con dignità e con fermezza, quasi sempre con
scarsissimi presidi, con armi spuntate e rugginose.
In quest'opera giovava ancora alcun poco il
bagaglio delle antiche memorie e del vecchio prestigio repubblicano rinverdito
dopo le campagne del 1716-17, ma più che tutto valeva l'intreccio dei vincoli
politici, sociali e feudali, solidamente ribadito dalla Repubblica nei domini
d'Oltremare tra i suoi stessi rappresentanti ed i maggiorenti delle terre.
Così, con fine accorgimento, la Serenissima soleva scegliere non pochi dei
governatori delle armi delle principali fortezze di Dalmazia e di Levante tra
gli ufficiali superiori degli Oltremarini, vale a dire tra i conterranei
medesimi; sicchè, per tale riguardo, le genti entravano di leggeri in una tal
specie di convinzione di godere una autonomia propria, convinzione che gli
istituti repubblicani rafforzavano e corroboravano. Il crogiuolo delle milizie
regionali oltremarine serviva così da elemento unificatore, da valido
intermediario tra le libertà cantonali d'Oltremare ed il potere centrale
repubblicano, da scuola d'armi insieme e di pubblici poteri dalla quale il
dominio veneto usciva rafforzato e popolarizzato. Le migliori famiglie dalmate
quivi dovevano acquistare i titoli per l'esercizio del governo sui conterranei,
in nome della stessa Serenissima, e questo automatico ricambio di uomini e di
reggitori raddolciva le suscettività individuali e collettive delle
municipalità dalmate e le cointeressava agli accorti fini politici della
Repubblica.
Nelle principali fortezze i governatori delle
armi erano inoltre coadiuvati dai così detti maggiori alle fortezze,
tratti in buona parte dal corpo degli artiglieri, con incarichi esclusivamente
sedentari. Non mancavano però degli strappi a tale consuetudine circa il
reclutamento di questi ufficiali, e tra gli altri merita particolare rilievo
quello che si verificò nel 1794 quando - nell'assoluta impossibilità di trovare
un posto agli ufficiali promossi per merito di guerra da Angelo Emo - convenne
trasferirli appunto nel personale delle fortezze, senza riguardo di sorta
all'ufficio ed all'arma di provenienza.
I còmpiti di questi ufficiali alle fortezze
erano assai simili a quelli che, sotto la Francia del vecchio regime, erano
attribuiti ai majors ed agli aides majors généreaux des
logis220.
Poche parole rimangono da dire intorno alla
dislocazione effettiva delle truppe venete. I documenti più autorevoli in
materia sono per certo i «Piedilista generali di tutte le pubbliche forze»
compilati all'Inquisitorato sull'amministrazione dei pubblici ruoli. Codesti
specchi, che servivano di base ai càlcoli relativi alla forza bilanciata
dell'esercito della Repubblica, comprendevano gli effettivi sotto le armi, gli
aumenti e le diminuzioni dei fazioneri in confronto del periodo di tempo
immediatamente precedente, gli amassi o risultati delle nuove leve, i cassi
o congedati per compimento d'ingaggio o per inabilità fisica, i fuggiti
o disertori, i morti, i passati di riparto o trasferiti ad altra sede,
ed infine i realditi, o condannati la cui pena era sospesa
momentaneamente per revisione di processo221.
Le modalità di tali piedilista erano
tassativamente fissate dalle Terminazioni degli Ill.mi ed Ecc.mi Signori
Inquisitori sopra l'amministrazione dei pubblici rolli222, e ad
esse si dovevano uniformare tutti i comandanti di truppa nello intento di
evitare brogli, peculati e tentativi di frode per via dei passavolanti223.
Epperciò ogni ufficiale, sulla propria fede di uomo d'onore, doveva
redigere la copia del rispettivo rollo, o riparto, da trasmettersi
quindi agli inquisitori competenti, vidimata dalle autorità superiori. Analoghe
pratiche si osservavano per le truppe imbarcate sui pubblici legni, disposte a
guardia di lontani presidi e negli appostamenti. I sergenti maggiori di
battaglia, i capi dei riparti territoriali, gli aiutanti di reggimento e di
battaglione, dovevano sorvegliare con somma cura la compilazione scrupolosa dei
piedilista, che si trasmettevano all'Inquisitorato semestralmente prima
dell'anno 1790, ed annualmente dopo di quell'anno224.
*
* *
Dai piedilista adunque - orgoglio e
tormento della burocrazia militare veneta dell'epoca - si rileva che la forza
bilanciata sullo scorcio di vita della Repubblica oscillava intorno alla
dozzina di migliaia di soldati, e che pochi anni prima della caduta questa
forza era timidamente salita sopra alle quindici migliaia di uomini225.
Tale contingente di truppe era suddiviso
pressochè in parti proporzionali tra i quattro dipartimenti militari. Così nel
1780, sopra un totale di 313 compagnie e 12,406 teste a ruolo, compresi
gli invalidi, gli addetti all'Arsenale, alle scuole militari ed alle compagnie
di leva, spettavano a ciascuno dei grandi riparti gli effettivi seguenti:
Riparto di Levante. - Presidi, numero 24226. A terra,
uomini 3326. Sulle navi, nomini 1683227.
Riparto di Dalmazia. - Presidi, numero 49228. A terra,
uomini 2761. Sulle navi, uomini 255.
Riparto d'Italia. - Presidi, numero 43229. A terra,
uomini 2141. Sulle navi, uomini 453. Riparto del Golfo. - Presidi,
numero 2230. A terra, uomini 197. Sulle navi, uomini 460.
Nell'interno dei corpi le guarnigioni di
solito erano distribuite in giusta misura, con senso di equità e di equilibrio
tra i buoni ed i cattivi distaccamenti, e con riguardo ai turni
destinati a ristabilire l'equilibrio in questa necessaria altalena di «bona
mixta malis» delle guarnigioni degli eserciti a base nazionale. Pochi erano
invece i corpi che avevano tutte le compagnie raccolte in una medesima sede, o
riparto territoriale, e ciò dipendeva ordinariamente tanto da necessità di
transito da un riparto all'altro (Lido-Padova-Zara), quanto da convenienze
particolari d'arma (corazzieri, croati, travagliatori, invalidi etc.).
Nel piedilista del V settembre
1776231 - uno dei più accurati della specie - risulta infatti che, dei
18 reggimenti di Fanteria Italiana, 14 avevano le proprie compagnie
tutte riunite nell'interno di uno stesso riparto, che i rimanenti reggimenti le
avevano frazionate, e che tutti i corpi di Fanti Oltramarini all'infuori
di due232 si trovavano con le proprie unità sparpagliate tra la
Dalmazia, il Levante, l'Italia ed il Golfo.
Della cavalleria veneta, il Reggimento di
Corazze aveva le sue sei compagnie tutte in Dalmazia, quello di Dragoni
era per intero dislocato in Italia. Il reggimento Croati del Colonnello
Begna presidiava la Dalmazia senza distaccamenti in altri riparti, quello
del Colonnello Gregorina era tutto raccolto in Italia. Il Reggimento
artiglieria infine era suddiviso con sei compagnie in Levante, tre nella
Dalmazia ed altrettante in Italia.
Questa dislocazione delle truppe venete si
mantenne presso a poco immutata fino alla caduta della Repubblica. Subì
soltanto qualche alterazione nel 1796 quando, a cominciare dai primi di giugno,
dalle province d'Oltremare furono chiamate alla Dominante truppe per la
difesa delle lagune minacciate dagli eserciti di Francia. Allora, per la
seconda volta dopo la guerra di Cambrai, si videro raccolte milizie in buon
numero dentro l'abitato cittadino di Venezia, violando la tradizionale
consuetudine che ne le escludeva in via normale in omaggio alle libertà
repubblicane.
All'infuori di codesti casi eccezionalissimi,
unici rappresentanti della legge e della forza armata veneta dentro alla città
delle lagune erano i birri ed i fanti, ministri questi ultimi al
servizio del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori di Stato233.
*
* *
Poichè l'esercito veneto della rovina
repubblicana accentuò il proprio carattere di istituto di beneficenza,
pullularono come una fungaia i corpi degli invalidi, o dei benemeriti,
senza contare i nuclei di militari fisicamente inadatti al servizio, non
inquadrati in unità sedentarie ma semplicemente mantenuti a ruolo e stipendio
con il benefizio delle così dette mezze paghe.
Di queste ultime si avvantaggiavano in
particolar modo i cannonieri, intendendo con ciò la Serenissima di conservarsi
sotto mano - prima della fondazione del Reggimento Artiglieria e subito dopo di
essa - una certa riserva di militari pratici delle artiglierie per far fronte
alle eventuali esigenze.
Ma poichè lo scandaloso costume delle
mezze-paghe, che manteneva a spese del pubblico erario una falange di
fannulloni e di disadatti fu abolita nell'anno 1777, un'ondata di postulanti e
di malcontenti venne a rifluire alle unità organizzate degli invalidi. Se ne
rammaricava inutilmente il Senato, rilevando il grave danno pecuniario che
causava tale corrività, eccitando il Savio alla Scrittura a provvedere: «perchè
questa caritatevole disposizione (dei benemeriti) non vada a danno del
dinaro pubblico, nè trovi il privato interesse una fonte di illeciti
vantaggi»234. La piaga però aveva troppo salde e profonde radici,
d'altronde le strettezze dell'erario non permettevano di concedere giubilazioni
che ai militari fatti decrepiti sotto l'assisa repubblicana; e ciò non poteva
accadere di solito che verso i 60 o 70 anni di età.
Nel 1790 esistevano nell'esercito veneto 7
compagnie o distaccamenti di benemeriti. Una compagnia di essi era dislocata al
Lido e nelle opere contermini, una a Palmanova ed una nel Castello di Brescia.
Un distaccamento assai numeroso di quei vecchi soldati guardava il forte di San
Pietro dei Nembi sotto Zara, un altro quello del Maltempo
presso Venezia, i due ultimi infine erano dislocati a Zara e nel Collegio
Militare di Verona.
Principale còmpito di questi benemeriti
era il servizio di guardia agli istituti ed edifizi militari affidati alla loro
custodia, «senza mai staccarsi dal posto sotto qualunque pretesto, per ubbidire
ai comandi che loro venissero impartiti e vietando l'asporto di pubblica o di
privata roba»235.
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