CAPO
X.
Dei bilanci
militari.
Anche l'energia motrice di ogni organismo
sociale, il denaro, difettava grandemente al tempo della decadenza
repubblicana. È perciò necessario di toccare anche questa materia nelle sue
relazioni con i bilanci della guerra, per conoscere quanta parte della rovina
nelle armi venete tocchi ai fattori morali e quanta, non meno notevole, sia da
attribuirsi invece ai fattori materiali, al governo della lésina, al metodico
rifiuto dei mezzi necessari per mantenere in vita il prezioso strumento della
difesa della patria, all'ostinatezza infine di negare ad esso le necessario
riforme.
Importa dunque sfogliare anche il carteggio
dei Savi cassieri - o ministri veneziani delle finanze - quello dei Magistrati
sopra Camere, o sopraintendenti delle tesorerie provinciali, esaminare le pòlizze
dei preposti al Quartieron, o cassa militare destinata a sopperire ai
bisogni della milizia stanziata nel territorio dipendente da ciascuna Camera..
E da questa indagine emergerà una verità di molto rilievo. Che cioè i primi
allarmi nelle angustie finanziarie si sogliono, con improvvido consiglio, far
scontare alle milizie - come che queste possano in ogni evenienza privarsi di
tutto quasi arnesi inutili e parassitari - e che questa decimazione mal frutta
allo Stato che la pratica nel momento del pericolo, quando cioè esso si accorge
troppo tardi di essersi apparecchiato lentamente e di proposito alla rovina,
all'umiliazione ed al servaggio.
Al caso concreto, Venezia negò ai propri
soldati e marinai il necessario per affilare le armi, tenere asciutte le
polveri e validi i propri navigli, ed il mal fatto risparmio andò profuso e
sperduto nel mantenere sul proprio suolo due eserciti, nemici tra di loro e
pronti a sovvertirla.
Ora vediamo un poco addentro a queste cifre.
Alla fine della Seconda Neutralità d'Italia (1737) la Serenissima aveva
accumulato un sensibile deficit, o sbilanzo - come si diceva nel
linguaggio d'allora - epperciò si escogitarono riduzioni, falcidie ed economie,
atte possibilmente a colmarlo.
A quell'epoca le entrate annue della
Repubblica erano valutate in ducati 5,114,915, cioè a dire in lire 21,426,378
circa: le spese complessive ammontavano a ducati 5,810,037, talchè lo sbilanzo
si aggirava annualmente intorno a 705,722 ducati, cioè a 2,960,161 lire.
Da questo complessivo gèttito di pubblico
danaro, le spese militari (Esercito e Marina) prelevavano ogni anno due milioni
e mezzo di ducati, all'incirca251.
Tali spese nell'anno 1737 erano ripartite
come segue; Arsenale e Tana, ducati 218,037 e grossi 6252; Spese
per l'armar, comprese le navi e le galere, ducati 46,836 e grossi 3;
Fortezze, ducati 32,776 e grossi 12; Artiglierie, ducati 25,841 e grossi 15;
per formento ad uso di lavoro dei forni, ducati 109,264 e grossi 19.
Simile, per formento bonificato alle decime, ducati 215,165 e grossi 6;
per le milizie del Lido, ducati 215,107 e grossi 3; per il loro vestiario,
ducati 56,594 e grossi 22. Per capitoli varii, quali spazzi (viaggi) dei
capi da Mar, sopracomiti etc., ducati 28,512 o grossi 17. Paghe e paghette
alle predette autorità e serventi, ducati 28,348 e grossi 17. Per gli stipendi,
compreso quello del veltz-maresciallo Schoulemburg253, ducati
31,296 e grossi 12. Totale per l'ordine militar nella Dominante, ducati
1,008,511 e grossi 23.
Il rimanente del bilancio era assorbito dalle
truppe dislocate negli altri riparti della Serenissima, distinto in analoghi
capitoli di spesa, e questa fu precisamente di ducati 2,060,965 e grossi
11254.
Sempre nell'anzidetto anno, con questo
bilancio la Serenissima manteneva nelle armi 19,385 uomini.
Ma premendo ovunque le proteste e gli
incitamenti ad assottigliare gli apparecchi militari ed a porli in armonia con
la politica di rinuncia e di stretta neutralità dichiarate dalla Repubblica
dopo la pace di Passarowitz, il Senato nell'inverno del 1738 convocò, «una conferenza
per meditare e far suggerire quei sollievi e risparmi che conciliar si possano
tra i riguardi della pubblica economia e quelli della necessaria custodia degli
Stati». Quali fossero i termini di questa equazione vaghissima, a più
incognite, solita a rinverdire ad ogni crisi delle finanze e molto più ad ogni
depressione di spirito ed infrollimento della volontà collettiva delle nazioni,
non è detto. Certo si voleva che l'Esercito e la marineria veneta facessero le
spese dello sbilanzo e lo risarcissero.
La navigazione più non allettava, il
commercio veneziano era allora arenato, l'impero coloniale scomparso miseramente:
di questo ormai non rimanevano superstiti che i pochi brandelli delle isole
Ionie, del Cerigo e di Cerigotto. I porti franchi di Trieste, di Livorno, di
Ancona e di Sinigaglia avevano soppiantato i traffici della Repubblica, che si
era ormai ridotta a dimenticare affogando le memorie del passato nella vita
spensierata, spendereccia e voluttuaria del presente. Ed in quei frangenti di
allegro consumo senza un'equivalente produzione riparatrice, lo sbilanzo
cresceva.
Nondimeno il credito della Repubblica era
ancora considerevole - una bella facciata architettonica che imponeva pur
sempre per quanta rovina nascondesse nell'interno - ed il fratto degli
antecedenti risparmi poteva consentire di far ancora fronte alla situazione,
purchè si ponessero un poco all'incanto le armi e meglio si colorisse con
quest'atto la divisa assunta dallo Stato godereccio, scettico ed imbelle.
Frutto adunque della conferenza indetta dal
Senato Veneto si fu una prima riduzione della forza bilanciata la quale, da
circa 20,000 nomini, discese a meno di 16,000. Si sospesero inoltre le reclutazioni
e le giubilazioni e si incitò la conferenza anzidetta a proseguire nelle
riforme e nelle falcidie per realizzare nuovi e più copiscui risparmi.
Nel 1738 il bilancio militare veneto si
ridusse infatti ad 1,886,322 ducati; quello del 1739 discese ancora a 1,670,333
ducati; quello del 1740 infine precipitò a 1,592,784 ducati.
L'esercito o la marineria veneziani si erano
adunque sacrificati alla generale assenza d'ogni spirito di sacrifizio individuale
e collettivo, ed in questa bancarotta di sentimenti e di mezzi essi avevano
riportati dei colpi così fieri da non riaversi mai più.
Così la Repubblica cominciò a morire da
quando decretò la liquidazione dei propri armamenti. «Va ben - aveva
esclamato il penultimo doge Paolo Renier - «No gavemo più forze, non
terrestri, non marittime, non alleanze,.. Vivaremo dunque a sorte e per
accidente!...».
*
* *
Vennero ben presto nuove angustie derivate
dal contegno che doveva serbare la Repubblica all'aprirsi della guerra per la
Successione Austriaca. Il docile strumento dei bilanci guerreschi che sembrava
adattarsi all'infinito all'umile compito di dare senza nulla mai chiedere,
di risarcire il patrimonio pubblico perchè altri spensieratamente lo godesse
senza ombra di preoccupazioni o di affanni per l'avvenire, di servire da
vàlvola di sicurezza dell'erario che si avviava al fallimento, cominciò a farsi
meno duttile e più prezioso.
Le diffidenze verso la Francia e verso la
Spagna, l'aperto viso dell'armi assunto dall'Austria, avevano richiamato alla
realtà delle cose con quella pavidità pronta ad ogni dedizione, con quella
premura decisa a troncare ogni imbarazzo e che potevano eguagliare la
spensieratezza imbelle con cui si era posto mano a disfare gli armamenti. Pure
conveniva apparecchiare qualche cosa, se non altro per semplice mostra.
La Repubblica aprì allora docilmente la
strada di Campara (Val Lagarina) agli Austriaci - i nemici più vicini -
per ingraziarseli; suonò a raccolta per le cerne e racimolò qualche migliaio di
vagabondi tratti dai riparti d'Italia e d'Oltremare per innestarli
nell'esercito. Alle potenze più lontane offrì in pegno la dichiarazione della
sua terza neutralità a mò di una presuntuosa etichetta fatta per coprire
una merce avariata. Ed il costrutto positivo di tutte queste pratiche si fu
quello di riallentare i cordoni della borsa.
Nel 1741 i bilanci militari veneti risalirono
ad 1,818,147 ducati, nell'anno appresso - con la leva di due migliaia di cerne
- crebbero ancora sino a 2,845,481 ducati e si mantennero a questo livello per
tutto il rimanente periodo della terza neutralità d'Italia. Ma dopo la pace di
Acquisgrana il governo della lèsina riprese di bel nuovo il sopravvento ed
accompagnò senza interruzione le vicende militari della Repubblica fino alla
sua caduta.
L'esercito si ridusse daccapo prima alla
forza bilanciata di circa una quindicina di migliaia di uomini, poi ad una
dozzina di migliaia, compresi i non valori. Le compagnie di fanteria
precipitarono alla forza di una trentina di individui, quelle di cavalleria ad
una ventina, i bilanci militari al milione e mezzo di ducati ed anche meno.
La bancarotta non poteva essere più completa.
L'Arsenale ridusse pressochè a nulla il proprio lavoro, le milizie incanutirono
sugli artificiosi piedilista, gli ufficiali furono obbligati a morire
ancora in servizio nella più tarda vecchiaia per mancanza di danari necessari a
giubilarli. Nondimeno la vetusta macchina della Repubblica continuava a
reclamare tutta la sua parte di dissipazione dell'erario, senza che il più
timido tentativo di riforma valesse ad alleviarne l'insopportabile peso. La
macchina lavorava unicamente a vuoto e peggio.
A comprovare questo spèrpero di energie basta
l'esame dei bilanci dell'Arsenale veneziano, considerato come pietra angolare
del vetusto edifizio guerresco della Repubblica. Esso richiedeva in media per
il suo mantenimento - affatto parassitario - 218,837 ducati all'anno, 46,836
ducati per l'anno dei pubblici navigli, 25,841 ducati per il rabberciamento
delle artiglierìe più sganghenate, 30,000 ducati per il Reggimento Arsenal.
In totale il maggior stabilimento marinaro dei Veneti pesava adunque sulla
pubblica finanza per 324,504 ducati all'anno - cioè a dire per 1,356,426 lire
odierne - senza contare le giubilazioni, le spese ordinarie per i trasporti
Oltremare, per le esperienze ed altro.
E tutto ciò per lasciar marcire sugli squeri
(cantieri) navi più che quarantenarie ed una perfino - la Fedeltà -
impostata nel 1718 e varata nel 1770; per lanciare in mare tra il 1717 ed il
1780 soltanto 28 legni, che venivano così a costare all'erario pressochè tre
milioni e mezzo ognuno, ammesso che questo prodotto di lavoro possa ritenersi
il solo veramente sensibile dello stabilimento durante il menzionato periodo di
oltre sessant'anni.
Il costo di produzione soverchiava adunque in
modo inaudito il valore del prodotto, nè v'erano fede ed energia capaci di
metterli in correlazione, amputando con sicurezza un organismo mastodontico di
consorterie, lento e parassitario. Occorreva perciò romperla con le tradizioni
corporative di una industria di Stato divenuta oramai un anacronismo economico,
sociale e politico; stendere la mano franca e sicura all'industria privata che
nella produzione delle armi aveva pur fatto passi lusinghieri e decisi.
Ora i buoni propositi di giovare in questo
senso l'amministrazione della guerra attingendo alle floride officine della
Bresciana, del Bergamasco, del Salodiano, mettendo a contributo i servizi della
compagnia mercantil dello Spazziani, le ferriere di Agordo, i lanifici
della Trevigiana e del Vicentino, tramontarono non appena si dileguò al Saviato
alla Scrittura il benefico influsso dell'opera riformatrice di Francesco
Vendramin255.
*
* *
Rimase adunque nella sua integrità opprimente
il bagaglio delle spese e, per fronteggiarle, dopo di avere liquidato
l'esercito e la flotta convenne ricorrere alla rovinosa china del credito.
Subito dopo la pace di Acquisgrana venne
aperto un deposito o prestito di quattro milioni di ducati, valuta
corrente, di soldo vivo al tasso del 3,50 per cento. Il prestito doveva
essere affrancabile, cioè rimborsabile entro 40 anni mediante estrazioni
(premi e rimborsi) da effettuarsi per maggiore garanzia in pien Collegio,
e per la somma di centomila ducati ogni anno. Il pagamento dei pro, cioè
degli interessi, doveva compiersi semestralmente.
Questi nuovi aggravi esaurirono i bilanci
militari e diedero il tracollo alla moribonda milizia veneta. Il bilancio annuo
della guerra si restrinse allora sul milione di ducati, nè si provvide per
questo a sfrondare le spese inutili, allo scopo di rendere più efficaci e
produttive le scarse risorse superstiti. In tali angustie finanziarie, in tanto
disordine amministrativo, in tale ostinatezza nel persistere negli antichi
errori, nella primavera del 1794 vennero chiamate alle armi le cerne. Indarno i
deputati ed aggionti sopra la provvision del pubblico danaro ed il Savio
Cassier moltiplicarono le interviste, per far fronte alle nuove e più gravi
esigenze e sollecitarono l'opera degli scansadori256.
Ad onta di tutto ciò si resero necessari
altri centomila ducati per la prima levata delle cerne, poi altri duecentomila
e più, ed alla fine di quell'anno il consuntivo delle spese maggiori per gli
armamenti della Repubblica era salito a 238,584 ducati e grossi 12, compresa la
cavalleria e qualche lavoro più urgente da praticarsi nelle
fortezze257.
Fu perciò aperto un nuovo credito, il nuovissimo,
e si convenne di porre mano anche alla Cassa del deposito intangibile,
così come si porrà mano più tardi a quella del Bagatin e si inaspriranno
le decime, come infine, per sopperire ai bisogni delle armi, si era deciso di
svaligiare senza remissione i magazzini dell'Arsenale258.
L'anno terribile stava per scoccare. La
commedia della finanza allegra si avviava a diventare dramma e tragedia, ma
prima dell'epilogo essa doveva passare ancora sotto le forche caudine dei
Commissari del Direttorio, piegarsi davanti alla voracità insaziabile dei
cassieri dell'esercito francese incaricati di dimostrare alla Francia che la
Serenissima poteva pur dare ancora, e che la guerra si doveva alimentare con la
stessa guerra a qualunque costo, a spese degli ignavi e degli imbelli.
Questa fanfara era già stata audacemente
lanciata all'aria dallo stesso generale Napoleone Buonaparte: «Io -
aveva dichiarato al colonnello Veneto Fratacchio, a Castiglione, il 12 Luglio
1706 - batterò gli Austriaci e farò che i Veneziani paghino tutte le spesa
di guerra!»259 Un mese dopo Bonaparte imponeva una contribuzioue di
tre milioni di franchi alla città di Brescia e trattava col Battagia un
prestito da imporsi alla Repubblica260.
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