CAPO
XI.
Conclusione.
La «Serenissima» si apparecchiava adunque a
scomparire sotto una marèa montante di contraddizioni tristi ed anche ridicole.
Essa voleva sinceramente la pace con tutti e si sforzava di preparare delle
armi lògore e spuntate; fidava palesemente nelle dichiarazioni di neutralità e,
privatamente, non si dissimulava le difficoltà di mantenere il rispetto ai
trattati in un periodo di violenze e di usurpazioni in cui unico diritto
sovrano era la forza; aveva dichiarato la bancarotta nelle finanze
insufficienti a mantenere in vita persino il proprio esercito anemico e la
propria flotta tarlata, ed i Francesi e gli Austriaci ben rovistando con
sfrontatezza e rapacità nelle casse dello Stato e nelle tasche dei privati, si
apparecchiavano a trarne il necessario per mantenere e nutrire non solo un
esercito, ma ben anco tre, lautamente ed allegramente.
Triste stato dei deboli codesto, fatto di
speranza e di timore, di alternative di fiducia e di sconforto. La Repubblica,
ridotta a palleggiarsi delle responsabilità non sue, a stendere la mano
capitale al nemico ammesso a forza dentro il cerchio delle mura cittadine
doveva, da Verona, strizzare l'occhio all'altro nemico che stava ancora fuori e
voleva penetrarvi.
Obbligata a piatire in note diplomatiche, in
richiami, in proteste, le spinosità di una situazione politica, sociale e
morale insostenibile, poteva rassomigliarsi ad una dannazione di Procuste fatta
persona.
Passava da Verona il 20 maggio 1796 il
maresciallo Colli per ritrarsi nel Tirolo, col livido in volto per le recenti
sconfitte patite nella Liguria e nel Milanese, e prometteva al provveditore
generale Foscarini: «pieno riguardo alle autorità venete, disciplina nelle
truppe, pagamento delle somministrazioni in contanti». E tutto ciò mentre
giungevano alte proteste dalle comunità venete, «per i violenti modi con i
quali si trattano i villici nel trasporto dei bagagli austriaci per le vie di
Campata, obbligati essendo a forza di oltrepassare con i loro carriaggi i
confini convenzionati... asportandone gli Austriaci poscia perfino i
bovi»261.
Ed il Foscarini: «convinto essendo che tutto
ciò sia contrario alle intenzioni della Corte Cesarea ed agli ordini dei di Lei
generali» comandava «ai commissari ai Campara di rimostrare ai generali
austriaci le cose accennate, di interessarsi a rilasciare ordini precisi onde
tutto proceder avesse secondo le regole e le discipline convenzionate per i
passaggi a Campara medesima»262.
I Francesi erano ancora lontani e la fiducia
nell'equilibrismo era ancora fresca e promettente. «I Francesi scriveva il 22
maggio Foscarini al Doge, di cui ancora non conosco le forze sono - per quanto
la diligenza dell'eccellentissimo rappresentante di Brescia mi scrive con sua
lettera di ieri - a Robecco, da dove, staccato un uffiziale con cinque soldati
per passare il ponte sull'Olio entrarono nella terra di Ponte Vico, ricercando
se vi fossero altri ponti vicini o altri porti, e quanto fondo il fiume
avesse. Quindi, fatta ricerca a chi appartenesse quella terra e conosciuta
essere soggetta al dominio Veneto, sono al momento retrocessi a
Robecco»263.
Buoni adunque parevano i principii della
nuova avventura con i Francesi, e tutta l'arte e tutte le speranze sembravano
rivolte allo scopo di propiziarsi gli Austriaci, quando il menzognero zeffiro
che veniva di Lombardia crebbe d'un colpo d'audacia e di violenza.
«I mali asprissimi - scriveva il 26 maggio
Foscarini al Doge - che l'attual guerra fa provare all'Italia cominciano a
produrre non lievi conseguenze. Già ho rassegnato i disordini occorsi a Crema
per parte delle truppe francesi... ma la vivacità di questa nazione ed il genio
intraprendente dei suoi generali lasciano oramai delusa ogni speranza. In
queste circostanze, ben volentieri avrei desiderato accorrere io pure a
confortar personalmente i sudditi di V. E. a quel paese... ma coperte essendo
le strade di armati delle belligeranti potenze, il riguardo di non
compromettere il decoro della pubblica rappresentanza ha fatto sopprimere per
ora in me stesso tale vivo desiderio».
*
* *
Fu l'avventura di Peschiera che scatenò
l'uragano, occupata di sorpresa dagli Austriaci di Beaulieu il 26 maggio come res
nullius, tanto che il Beaulieu stesso agli ufficiali veneti inviati a
protestare per questa rapina non si faceva scrupolo di dire: «che lorquando le
ragioni di guerra fanno credere necessaria una cosa a chi la tratta... non
valgono le deboli ragioni del diritto e vengono sforzati a tacere tutti i
riguardi»264.
Al danno si aggiungevano dunque l'ironia e le
beffe.
Nella notte del 27 alla rapina di Peschiera
seguì la violenza della Chiusa d'Adige. Prima dell'alba del detto giorno si era
presentato davanti a quella fortezza un gruppo di ufficiali austriaci
accompagnato da una colonna di fanti, per imporre al governatore veneto Bajo di
aprire le porte. Questi rispose dal chiavesin265 che quello «non
era il luogo di passaggio e retrocedessero perciò a Loman, ma gli ufficiali
austriaci insistettero dicendo di aver lettere di somma premura da consegnare
alla posta di Volargne, dirette a Verona». Sorpreso nella buona fede l'ingenuo
Bajo introdusse allora gli ufficiali austriaci dentro la Chiesa ma,
«nell'aprire le bianchette erano appiattati i soldati, che sforzarono il
chiaverino e si introdussero in più di duecento in fortezza, senza il
minimo sconcerto» (sic).
Così cominciò per la Serenissima il
tristissimo calvario dei disinganni, delle estorsioni e delle usurpazioni,
senza forza di ribellarsi al tormento del martirologio, senza fede per trovare
in sè medesima un'ultima stilla di energia capace di abbreviarlo con una scossa
suprema. Era il destino che fatalmente ed implacabilmente si compieva sopra un
organismo fiaccato dagli anni e rassegnato a morire.
L'occupazione di Peschiera da parte degli
Austriaci fornì a Buonaparte buon argomento per esigere un vistoso compenso
nell'occupazione di Verona - necessaria alla sua manovra con la linea
dell'Adige e Legnago - non appena i Francesi ebbero forzata la linea del Mincio
(30 maggio).
In questo intento Buonaparte apparecchiò una
di quelle rappresentazioni a tesi delle quali egli era maestro. Atterrì il
Foscarini minacciando d'incendiare Verona, poi sembrò placarsi, «purchè vi
entrassero le sue truppe, occupassero i tre ponti sull'Adige traversando la
città e lasciando guarnigioni sugli stessi, fino a che le ragioni della guerra
lo esigessero». Il 1° giugno infatti una colonna di 20,000 Francesi capitanata
dal generale Massena si affacciò alla Porta di San Zeno e penetrò in città
minacciando l'uso della forza in caso di resistenza266.
Così cominciò la spoliazione della Repubblica
che doveva avere il suo classico epilogo ai preliminari di Leoben. Ma siccome
per il momento conveniva osservare ancora qualche parvenza di riguardo verso la
Serenissima - che pur non era ancora radiata dal novero degli Stati - così, di
buon accordo, si decise di continuare nella serie delle reticenze parziali,
delle contraddizioni, delle umiliazioni e delle figure artificiose, come per
ingannare l'estrema ora che stava maturando. La speranza, dopo tutto, è sempre
l'ultima dea a sgombrare dall'orizzonte.
I Francesi pretesero un rifornimento
giornaliero di 12,000 razioni. Per salvare le apparenze della neutralità, la ditta
mercantile Vivante si prestò alla bisogna, figurando di dare con una mano
agli ospiti incomodi e di riceverne con l'altra il valsente; ma in realtà la
ditta non era pagata che dalla Serenissima la quale, per evitare maggiori guai,
si era docilmente adattata a mantenere il protervo nemico sullo stesso suolo
della patria che conculcava267.
La commedia piacque e si diffuse largamente,
come un allegro diversivo in mezzo al trambusto della guerra ed alla
concitazione bellicosa. «Cinquantamila razioni di pane da 24 oncie l'una
chiedono giornalmente i Francesi sotto Peschiera - scriveva il 6 giugno il
Foscarini - più 60 grossi bovi, 150 carra di fieno, prodigiosa quantità di
vino, legna ed altro»268. E la Repubblica compiacente faceva per questo
scivolare nelle tasche della ditta Vivante - che moltiplicava le sue filiali -
danaro sopra danaro, come una buona nonna passa di soppiatto al nepotino
capriccioso un balocco rifiutatogli dalla mamma severa.
Dopo le razioni, il pane ed i buoi, venne la
richiesta delle armi, cioè 2000 fucili per armare parte delle reclute del corpo
di Massena269. E poichè le rappresentazioni della compagnia
mercantile Vivante riscuotevano il plauso generale, si pensò bene di
aggiungere alla piacente commedia qualche nuova scena ad effetto.
«Si sono concertati finalmente - scriveva il
Foscarini al Principe270 - i modi più adatti per la consegna dei
fucili. Abbiamo perciò creduto opportuno di richiamare il munizioniere
del territorio ed il Vela, l'agente noto della ditta Vìvante, ed imposto ad
essi il più scrupoloso segreto con la minaccia di incorrere nella
pubblica disgrazia, prescrissimo271 al primo di avere sul fatto a
cancellare dalli ricercati fucili le marche in essi impresse del territorio e
riponendoli in casse, con le loro baionette, di trasportarli questa sera in
modo inosservato nel luogo dove il Vela forma i magazzini per i suoi
generi. Al Vela poi abbiamo ingionto che, lorquando avrà a presentarglisi un
commissario francese per parte del generale Massena, abbia a dirgli che essendo
stato da noi incaricato di procurare da mano privata la prestanza di duemila
fucili, era a lui riuscito di averne mille subito e gli altri sarebbero
somministrati nei seguenti giorni, a diverse partite. E questa dilazione
abbiamo combinata perchè la ristrettezza del tempo conceder non poteva di
verificar tutto il travaglio di togliere dai fucili l'impronta del territorio
ed accomodare quelli che in qualche misura ne abbisognano».
*
* *
Lunga sarebbe la serie di queste umiliazioni
e di queste mistificazioni, patite con eguale improntitudine dalla Serenissima
per opera dei Francesi come degli Austriaci. Ma importa ora di conchiudere.
La ragione ultima di ogni debolezza, di ogni
contraddizione, di ogni transazione vergognosa, stava nel miserando stato di
esaurimento militare in cui versava la Repubblica. Questa, fiduciosa nei
trattati e nelle dichiarazioni di neutralità, nella politica di equilibrismo e
di opportunità spinta oltre ai limiti del ragionevole, spensierata, allegra,
disamorata della milizia, aveva creduto di trovare nei trattati medesimi
un'arma sempre valida e rispettata, una specie di talismano, dimentica che la
guerra li rompe e li calpesta quando così piaccia al più forte.
In tale sfera di cieche confidenze, di
ostentate omissioni, di trascuranze ignobili, la milizia veneta si era
appartata dal grande organismo dello Stato, come vergognosa di essere, come
desiderosa di vivere semplicemente tollerata. E decadde ed intisichì in questo
abbandono come una pianta selvatica e parassitaria.
Quando la vecchia Repubblica fu destata dal
lungo sonno dal rumore delle armi nemiche sopra il suo suolo abbandonato alla
mercè dello straniero, essa cercò invano le armi proprie, ma non le trovò più,
perchè ben diceva Giacomo Nani che: «non vi può essere piano militare che
sia acconcio a combattere una malattia puramente di ordine morale e politico»272.
Così la Serenissima, ostinata nel negare al
proprio esercito quelle riforme che l'avrebbero potuto salvare dalla rovina, lo
aveva reso organicamente un anacronismo, economicamente uno strumento di
dissipazione del pubblico danaro, militarmente un istituto incapace di
esplicare una forza qualunque. Esso poteva perciò rassomigliarsi ad una
personificazione grandiosa della statua di Laocoonte, paralizzata dai
molteplici intralci e viluppi dell'amministrazione faragginosa dello Stato,
sfibrata dalla specializzazione delle autorità, dai controlli e dalle
consorterie, schiacciata dalla sovrapposizione delle autorità, dal bagaglio
opprimente di un immenso macchinario di pubblici poteri.
In questi intralci delle energie e delle
volontà, in questa atrofìa degli organi motori dell'amministrazione di Stato,
il mercenarismo potè sviluppare l'intera gamma delle proprie
caratteristiche, fino alle conseguenze estreme. Indifferenza cioè al contenuto
morale della patria, separatismo nella società, venalità, protervia nel
chiedere, pari alla debolezza nel cedere o nel promettere da parte
dell'organismo dello Stato che alimentava il mercenarismo medesimo.
Cosicchè mentre altrove - specie in Piemonte
- l'evoluzione degli ordini ed il largo appello alle milizie paesane
permettevano di compiere riforme decise nel tralignato organismo degli eserciti
mercenari, apparecchiando il trapasso verso gli odierni sistemi di reclutamento,
Venezia, cieca nella fede giurata alle sue costituzioni vetuste, dimentica
dell'eredità legatale dall'Alviano - che nelle cerne aveva additata la fortuna
militare della Repubblica - si ostinava pur sempre a mantenere nelle caserme
una larva di esercito che si dissolveva come neve al sole.
Così fu possibile, anzi necessaria, la viltà
suprema della Veneta Repubblica nel 1796.
Nondimeno, tra il vecchio che cadeva a
brandelli in rovina ed il nuovo che maturava, ad onta delle volontà dei
governanti e dei governati e della pertinace immutabilità degli istituti, si
apparecchiavano gli eserciti odierni fatti con la nazione e per la nazione.
Riguardare quindi le vie del passato, riandare il cammino percorso per toccare
lo sviluppo d'oggi, non può qualificarsi opera vana, purchè si mediti sulle
circostanze che hanno accompagnata la grande evoluzione e sulle contingenze
particolari che l'hanno affrettata. Perché - ad onta di ogni sapienza postuma
di storia e di esperienza umana più generalmente note - v'ha sempre qualche
spunto a suggestioni molto proficue da raccogliere, dimenticato lungo la grande
ed ampia via maestra, come assai spesso si notano sovra a' suoi cigli dei
modestissimi fiori che sfuggono alla vista dei più.
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