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Eugenio Barbarich La campagna del 1796 nel Veneto IntraText CT - Lettura del testo |
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CAPO III.
Ufficiali grandi e piccini.
Perduto è quell'organismo il cui cuore si attarda di spingere il sangue nelle vene. Ed il cuore ed il cervello si erano da tempo intorpiditi nell'esercito della Serenissima nelle persone de' suoi generali. Quando il brigadiere Fiorella41 nella notte dell'8 agosto 1796, all'avanguardia della divisione Serurier, reduce dalla vittoria di Castiglione si riaffacciava a Verona abbandonata giusto una settimana innanzi per rioccuparla d'ordine di Buonaparte, il generale Salimbeni comandante di quella piazza indugiò alquanto nel riaprire ai Francesi la porta di San Zeno. Il brigadiere Fiorella l'abbattè allora con alcune volate di mitraglia, e si trovò comoda scusa per il ritardo dei Veneti di rovesciare la colpa sulla tarda vecchiaia del Salimbeni. Questo generale - si disse - oramai ottuagenario, incapace di montare a cavallo, costretto a servirsi di un carrozzino42, non poteva trovarsi ovunque in quel trambusto della notte dell'8 agosto. E Buonaparte lieto delle riportate vittorie e del riacquisto di Verona, non fece gran caso di questi fiacche scuse dei Veneti, ondeggianti tra gli Austriaci padroni dell'interno della città ed i Francesi padroni delle campagne, oscitanti tra i vincitori ed i vinti. La vecchiaia dei generali veneti esisteva nondimeno, e grave. Il Savio alla scrittura Francesco Vendramin l'aveva denunciata al Principe come il male precipuo che rodeva l'esercito, e scongiurava di provvedervi in tempo: «Di eguale impedimento - egli così scriveva nel 1785 - alle buone disposizioni della milizia in genere si è pure l'impotenza di non pochi ufficiali, specie delle cariche generalizie, che giunti alla più fredda vecchiaia, ritenuti dalle viste del proprio vantaggio, vogliono ancora continuare nel servizio sino alla fine della vita.....Sicchè, malgrado quella riverenza che si conviene alle pubbliche deliberazioni, mi è forza dire che, spesse volte, questo Augusto Governo è più commosso dalla pietà che dal proprio interesse, cui talvolta antepone le convenienze particolari di coloro che godono la distinta fortuna di essergli soggetti»43. Non si pensò però con questo a svecchiare gli alti gradi dell'esercito Veneto. Fino dal 1786, allo scopo di ripartire in modo equo e vantaggioso per il servizio i beni ed i mali delle diverse guarnigioni d'Italia e d'oltremare, il Senato aveva stabilito un turno di generali; ossia un determinato ordine di successione dei generali medesimi al comando dei quattro grandi riparti militari in cui si suddivideva il territorio della Repubblica44. Fu assegnato allora in Levante il sergente-generale Maroti, con i sergenti maggiori di battaglia Bubich e Craina; in Dalmazia il sergente generale Salimbeni - ricordato più sopra - con i sergenti maggiori di battaglia Nonveller ed Arnerich; in Italia il tenente generale Pasquali, con i sergenti maggiori di battaglia Stràtico e Bado. Dopo quattro anni questi generali dovevano mutare residenza, ma nel 1790 - cioè allo spirare del primo quadriennio dacchè la determinazione fu presa - il sergente maggiore di battaglia Arnerich faceva sapere al Savio alla scrittura che egli non era più in grado di muoversi dalla Dalmazia, perchè diventato più che nonagenario. E non soltanto i generali erano incapaci di viaggiare dall'Italia, oltremare e viceversa. Nello stesso anno 1790 anche i colonnelli brigadieri Macedonia e Gazo si dovettero lasciare alle rispettive guarnigioni, stante la loro tarda vecchiezza. La gerarchia generalizia era poi troppo ristretta in confronto degli aspiranti. La piramide gerarchica nell'esercito Veneto si restringeva talmente verso il vertice da rendere necessaria una longevità pressochè biblica per raggiungerla. Nel 1781 i quadri dello stato generale erano: 1 tenente generale, 2 sergenti generali, 6 sergenti maggiori di battaglia, oltre ai sopraintendenti del genio e della cavalleria con il grado di colonnelli brigadieri. Il tenente generale era Alvise Fracchia-Magagnini di 85 anni, di cui 68 di continuato servizio; i sergenti generali erano Pasquali e Rade-Maina, vecchi colonnelli dei fanti oltramarini; i sergenti maggiori di battaglia Arnerich, Salimbeni, Maroli, Nonveller, Rado e Stràtico. Non pochi di questi occupavano ancora le cariche generalizie nel 1796, vale a dire che erano infeudati nell'ufficio da oltre tre lustri.
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Teoricamente i metodi per la elevazione degli ufficiali agli alti gradi dell'esercito dovevano essere di garanzia sicura per la bontà dei quadri. La procedura per la nomina delle cariche generalizie - esclusivamente devolute alla scelta - era infatti assai minuta, abbenchè non scevra di sospetti di favoritismo. A tenore della così detta legge di Ottazione, cioè di avanzamento45, le vacanze nei gradi dovevano ripianarsi entro tre mesi dacchè avvenivano; tempo più che necessario per una scrupolosa valutazione dei titoli dei concorrenti, ma anche più che sufficiente per dar modo alle consorterie di raggiungere i propri fini. I titoli presentati dai candidati formavano, nel loro assieme, i così detti piani di prova. Vi figuravano i lunghi e buoni servigi prestati sotto la vermiglia bandiera della Repubblica, le ferite, le malattie sofferte a motivo del contagio, le azioni di merito e - ove ne era il caso - anche le prigionie passate sotto i Turchi, i naufragi patiti e la perdita degli averi. Gli ultimi tempi imbelli della Serenissima avevano naturalmente assottigliato di molto il bagaglio eroico di codesti titoli, surrogandoli con i più modesti e comuni dell'anzianità e della età dei candidati, e su questi titoli si esercitava la retorica degli ufficiali concorrenti. Il sergente maggiore di battaglia Antonio Maroli così faceva, ad esempio, nel 1782 l'apologia di sè medesimo, aspirando al grado del valetudinario Rade-Maina collocato finalmente a riposo: «Fino dai primi anni Antonio Maroli si incamminò alla professione delle armi. Passato per la trafila dei vari gradi, con l'assiduità del servizio e con la provata sua abilità giunse, nell'anno 1768, ad occupare il grado di colonnello. Le attestazioni delle primarie cariche da Mar e degli ufficiali dello Stato generale e di molti altri graduati, rilevano di avere egli utilmente servito nel laborioso carico di sergente maggiore nella importante piazza di Corfù, impiegandosi pure, per varî anni, nella istruzione del reggimento, negli esercizi e nella militare disciplina anche in pubblici bastimenti in mar. «Imbarcato sopra la nave San Carlo che tradusse a Tenedo il fu Ecc.mo Kav. Correr, bailo46, si fermò sulla medesima in attenzione dell'arrivo dell'altro Ecc.mo bailo Francesco Foscari, ed in questo frattempo attaccatasi grave epidemia nell'equipaggio di detta nave si maneggiò egli presso i comandanti turchi per avere ricovero in terra... Nel sostenere i governi delle armi (comandi di presidio) di alcune città e fortezze nei differenti riparti di terra e di mar, eguale fu la di lui attenzione ed attività, che gli conciliò approvazione. Molto fu poi riconosciuta la di lui direzione nel seguito ammutinamento di prigionieri di Brescia per metterli a dover, nel quale malagevole incontro per 18 ore sostenne con coraggio il fuoco degli ammutinati, e gli toccò vedere ai suoi piedi ucciso un caporale e ferito un soldato»47. Le apologie più salienti dei piani di prova erano pubblicate per le stampe dai candidati più audaci o facoltosi, e diffuse per la Dominante ad apparecchiare terreno per le deliberazioni finali del Savio alla scrittura e del Senato. Era una specie di gara a foglietti, dai tipi vistosi e dalla studiata mostra delle benemerenze personali; una vera rassegna pubblica alla quale dovevano interessarsi non poco gli spettatori dell'epoca ciarliera e spensierata dei casini, dei caffè e delle gazzette. Per troncare gli effetti della mala pianta il Senato, nel 1783, volle abolite codeste costumanze alquanto teatrali. Vietò ai candidati di rimanere a Venezia durante le elezioni delle cariche generalizie, e nel periodo di tempo immediatamente anteriore, ed in luogo dei piani di prova commise al Savio alla scrittura di compilare delle apposite note personali, da produrre alla Consulta al caso di ciascuna vacanza. La Consulta poi, avuto l'elenco dei migliori candidati, votava o ballottava su ciascuno di essi, in Pien Collegio, con quattro quinti dei voti e l'elezione si confermava da ultimo in Senato. Eletto il nuovo generale, con le ducali di nomina se ne fissava anche lo stipendio.
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Scendiamo ora dal vertice della piramide gerarchica verso la grande e massiccia sua base. Gli ufficiali veneti erano troppi per i soldati che avevano da comandare e per le attribuzioni che dovevano compiere. Nel 1776 si trovavano nei reggimenti attivi 33 colonnelli, altrettanti tenenti colonnelli, 30 sergenti maggiori, 203 capitani, 31 capitani-tenenti, 184 tenenti, 237 alfieri o cornette per la cavalleria e 163 cadetti. In totale, 964 officiali sull'effettivo di 10,605 fazionieri o comuni che contava l'esercito veneto di quel tempo; e ciò senza tener conto degli ufficiali in servizio sedentario, alle fortezze, al corpo del genio, all'Arsenale, ai governatorati delle armi, alle scuole e di quelli infine con riserva di anzianità. In sostanza, i quadri degli officiali della Serenissima avevano tutta l'aria di un grande stato-maggiore a spasso. Il grosso di questo stato-maggiore proveniva dalla trafila della troppa, come ne fa fede lo scarso numero dei cadetti presenti alle armi nel 1776. Delle scuole militari esistenti a quell'epoca, il collegio di Verona provvedeva al reclutamento dei corpi di artiglieria e genio: quello di Zara, per la fanteria oltremarina, era ancora allo stato rudimentale. Riformatisi in appresso questi due istituti, quello di Verona nel 1764 e quello di Zara nel 1784, una nuova ondata, di formidabili competitori venne ad affiancarsi alla vecchia corrente dei provenienti dalla troppa nello aspirare ai gradi, di ufficiale48. Dal Militar Collegio di Verona - come è noto - uscivano gli alfieri dell'artiglieria e del genio ed, accessoriamente, anche quelli di fanteria e di cavalleria. In queste ultime armi si transitavano però quegli allievi che, al termine dei corsi, riportavano una classificazione inferiore alla minima ritenuta necessaria per servire nelle armi dotte, o coloro infine che - per mancanza di posti - non trovavano più luogo nelle armi medesime. In questo caso i diseredati dalla sorte potevano aspirare a far ritorno alle armi cui aspiravano, concorrendo in turno ogni anno con i nuovi licenziati dall'istituto veronese. Dal collegio militare di Zara uscivano gli alfieri dei reggimenti oltremarini e le cornette dei reggimenti di cavalleria. L'istituto esisteva fin dal 1740, ma per difetto di concorrenti aveva vissuto una vita stentata ed anemica fino al 1784, perchè la massa dei Dalmati aspiranti ai gradi dell'esercito preferiva la via più lunga ma più avventurosa del servizio anfibio sui pubblici legni e verso i confini turcheschi, a quella più tediosa e nuova degli studî e dei riparti d'istruzione. Ma poiché - sotto l'impulso di Angelo Emo e del Savio Francesco Vendramin - l'amministrazione veneta della guerra accennò a battere nuove vie, ed il reclutamento degli ufficiali usciti dalle scuole parve destinato a soppiantare ogni altra provenienza, il conflitto tra il vecchio ed il nuovo, tra la pratica e la teoria, scoppiò clamoroso ed inevitabile. Si accese allora la guerra tra i fautori del tirocinio, dell'esperienza e dei titoli acquisiti, e quelli delle accademie delle prove e degli esami. I tempi grigi e fiacchi non offrendo verun'altra distrazione, fecero sì che gli ufficiali dell'epoca si ingolfassero in queste lotte sterili ed acerbe con l'ardore che proviene dall'ozio. Mèta del tirocinio nei gradi di truppa era l'alfierato. Ad esso si perveniva pel tramite dei cadetti, da parte dei giovani provenienti dalle scuole, o per quello dei sergenti per parte dei borghesi e dei gregari di truppa. Gli aspiranti alla carriera delle armi usciti dalle buone famiglie veneziane, per essere ammessi nelle file dell'esercito quale cadetti dovevano contare almeno 14 anni di età. Per raggiungere lo stesso grado nella truppa occorrevano invece dai sei agli otto anni. Dopo tre anni di buon servizio come cadetto, questi era promosso alfiere, se di fanteria e cornetta se di cavalleria; e con l'alfiere, detto per antonomasia il primo grado di goletta, cominciava il lungo e faticoso calvario dell'ascesa ai gradi di ufficiale49. Questi si conferivano nell'interno del reggimento fino al grado di sergente-maggiore. Ed i gradi erano quelli di tenente, di capitano-tenente, o comandante della compagnia del colonnello, di capitano, di sergente-maggiore, o comandante di battaglione: i gradi di tenente colonnello e di colonnello si conferivano a ruolo unico sulla totalità della rispettiva arma o riparto50. Per progredire nella carriera si doveva tenere conto delle prove comparative, dell'abilità, del merito e della anzianità dei singoli concorrenti51; requisiti tutti codesti domandati sia dalle anteriori leggi di ottazione, compilate da Francesco Morosini, sia da quelle redatte dal generale Molin (1695). Nella pratica delle cose però l'anzianità ed il merito avevano la preminenza, comprendendosi sotto questo ultimo titolo le campagne di guerra, le ferite e le «occasioni vive», come dicevasi a quel tempo con vocabolo comprensivo per dinotare tutte le benemerenze dei candidati dovute comunque al rischio personale. Ma cresciuto il favore delle scuole professionali, il merito e l'anzianità dovettero cedere di fronte all'abilità comprovata dagli esami, e con questi e per questi il Savio si proponeva di svecchiare i quadri dell'esercito. L'alfiere doveva dar saggio di comandare in modo inappuntabile tutti gli esercizi della compagnia, in presenza del sergente maggiore, del colonnello e del tenente colonnello del reggimento. Egli doveva inoltre rispondere a tutte le interrogazioni che i detti ufficiali avessero creduto di rivolgergli sul Libretto Militar, ossia catechismo degli esercizi, e sul servizio in campagna compilato dal maresciallo Schoulemburg. Infine doveva rivelarsi provetto nel maneggio delle armi, della picca e della sargentina, conoscere la suddivisione del reggimento in plotoni, divisioni, ali, centro, dare ragione di tutti i tocchi di tamburo e superare alcune prove sulle matematiche elementari e sul disegno. Il tenente - oltre che dimostrarsi come l'alfiere idoneo nel maneggio del fucile e della picca - doveva saper compilare polizze di scansi, ossia liste di deconto individuale, redigere quietanze dei depositi di danaro che, eventualmente, i soldati gli avessero confidato, tenere al corrente la vacchetta, o giornale di presenza della compagnia, infine comprovare un'abilità professionale pari alla richiesta nelle prove degli alfieri. In questi semplici esperimenti s'accanì quindi la lotta tra conservatori e novatori in materia di avanzamento, quando i programmi furono rimaneggiati con criteri restrittivi, specie per i gradi superiori. Nel giugno 1785, rendendosi vacante il posto di sergente-maggiore nel reggimento di fanti italiani Marin Conti, aspirarono ad esso tre capitani del corpo medesimo. Il verbale giurato di idoneità a sostenere le prove di uno dei candidati così si esprimeva: «Facciamo fede, con nostro giuramento et vincolo di onore, noi qui sottoscritti graduati nel reggimento colonnello Marin Conti, dei fanti italiani, come il capitanio Michiel Antonio Gosetti ha sempre adempiuto alle parti tutte del suo dovere, con puntualità ed abilità in tutto quello che appartiene al pubblico servizio. Come anche nella subordinazione et obbedienza con i suoi superiori e con nostra intera soddisfazione egli non è mai incorso in verun militar castigo, nè si abusò di licenze per stare lontano dal proprio reggimento, adornato essendo di onorati costumi, degno adunque delle nostre veridiche attestazioni, per cui gli rilasciamo la presente perchè possa valersene»52.
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Gli esami da capitano a sergente-maggiore erano insieme pratici e teorici. Nei primi il candidato doveva sottoporsi alle prove seguenti: «1°) Riconoscerà il battaglione in tutte le sue parti e lo ripartirà con i bassi uffiziali - 2°) Farà la disposizione degli uffiziali e li manderà in parata - 3°) Farà passare ufficiali e sottufficiali in coda per il maneggio delle armi - 4°) Ordinerà e comanderà il maneggio delle armi, con li necessari avvertimenti - 5°) Ordinerà due raddoppi di file, uno sulla sinistra in avanti, per mezzo-battaglione, l'altro che le divisioni delle ali raddoppino quelle del centro - 6°) Si ridurrà in istato di battaglia - 7°) Farà fuoco con quattro plotoni, principiando dalli quattro plotoni del centro - 8°) Farà fuoco con due mezze divisioni dalle ali al centro - 9°) Staccherà la marcia per mezze-divisioni in fianco, e si ridurrà in divisioni con passo francese (accelerato) - 10°) Formerà il quadrato in marcia - 11°) Farà una scarica generale - 12°) Disfarà il quadrato e ridurrà il battaglione in istato di parata»53. Gli esami teorici comprendevano i doveri degli ufficiali di ogni grado, cominciando da quelli dell'alfiere e terminando con quelli del sergente maggiore, tanto nel reggimento che nella brigata. Le tesi trattavano del giornaliero servizio di piazza, del modo di accampare ed acquartierare il reggimento, di marciare con il reggimento da un luogo ad un altro, di imbarcarlo e di sbarcarlo in buon ordine, della maniera di tenere disciplinati gli ufficiali, i sottufficiali e la truppa, dei sistemi di redigere piedilista, dettagli, di passar rassegne, di distribuire infine i riparti nei quartieri e di raccoglierli nelle piazze d'armi54. Più caratteristiche erano le prove per l'arma di cavalleria, in quanto quest'arma poteva considerarsi esotica in un esercito a base marinaresca come era quello della Serenissima, anche nei tempi dello splendore. Così, nel marzo del 1795, rendendosi vacante in Verona il posto di sergente-maggiore55 nel reggimento dei dragoni Colonnello Giovanni Antonio Soffietti, si presentarono candidati alle prescritte prove sei degli otto capitani comandanti di compagnia, e ad essi furono proposti i seguenti quesiti, da estrarsi a sorte in numero di quattro per ogni esaminando: «1°) Data una distanza di 100 miglia, data la premura del comandante che il nostro squadrone arrivi quanto più presto possibile ad unirsi ad un'altra cavalleria colà esistente, e data infine la qualità del cammino, si ricerca in quanti giorni, senza troppo disagio, sarà compiuta la marcia e di quali avvertenze abbia a far uso durante il viaggio - 2°) Acquartierata la cavalleria in una grossa terra in prossimità del nemico, quali saranno le precauzioni contro le sorprese - 3°) Con quali avvertenze si custodiscono i prigionieri di guerra mentre si conducono al luogo loro assegnato - 4°) In qual modo si scorta un convoglio di vittuarie passando per i luoghi sospetti - 5°) Come si marcia alla sordina - 6°) Contromarce per righe - 7°) Come si mettono in contribuzione i villaggi nemici, vigente sempre il timore che il nemico ci sia alle spalle - 8°) Se lo squadrone arrivasse ad un fiume inguadabile, che ripieghi si farebbero - 9°) Lo squadrone, in colonna di divisioni, si trova su di una strada dove i cavalli non possono che marciare di passo: esso è forzato a ritirarsi facendo fuoco. Si effettui la relativa ritirata - 10°) Modo di caricare contemporaneamente il nemico sulla fronte e sulle ali: la parte più forte sulla fronte, due parti minori sulle ali - 11°) Attacco di cavalleria in un bosco - 12°) Come si fa a foraggiare - 13°) Cammin facendo, se si trovasse uno staccamento (distaccamento) nemico trincerato che ci impedisse di marciare, quale sia il partito migliore»56. Esaminiamo da ultimo le prove prescritte per l'artiglieria, allo scopo di formarci un giudizio esatto sull'entità degli esperimenti e sul grado, di istruzione degli ufficiali Veneti del tempo. Nel 1782, per gli aspiranti al posto vacante di capitano-tenente nel Reggimento Artiglieria si richiedevano le prove seguenti: «1°) Le quattro prime operazioni aritmetiche, frazioni, radici quadrate e cubiche, regola del tre diretta ed inversa - 2°) Sui primi sei libri della geometria - 3°) Sulla trigonometria piana - 4°) Sull'uso delle tavole balistiche per i tiri orizzontali ed obliqui - 5°) Sopra la proprietà della parabola relativamente ai tiri di bomba - 6°) Sull'uso della tavoletta pretoriana - 7°) Sopra i vari generi di calibri dell'artiglieria - 8°) Come si prendono le misure di un pezzo di artiglieria per farvi un letto (affusto) - 9°) Quali sono gli apprestamenti usati nell'artiglieria veneta per il servizio delle artiglierie navali, murali e campali - 10°) Quale è il modo di numerare le palle, bombe, granate, unite in piramide o in altra figura - 11°) Come disporre le cose spettanti all'artiglieria sopra i legni armati al caso di combattere - 12°) Come si forniscono le racchette ad uso di segnali e le candele ardenti ad uso delle minute artiglierie, le spolette e le bombe ad uso dei cannoni, mortai ed obusieri - 13°) Come si misura il tempo in cui una bomba percorre un dato spazio - 14°) Esercizi campali ed evoluzioni del Reggimento Artiglieria, giusta le istruzioni del brigadiere conte Stràtico»57. Per gli aspiranti al grado di sergente-maggiore nell'arma58 alle menzionate prove si aggiungevano esami di meccanica, di stàtica, di resistenza delle bocche da fuoco, di potenza degli esplosivi, oltre ad esperimenti sulle manopere di forza e relativi comandi, sulle opere difensive e di fortificazione59.
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Si spiega adunque come col crescere di tale florilegio scientifico, sbocciato come un'oasi nel campo uniforme degli umili fiori campestri dell'anzianità e delle occasioni vive, i giovani ufficiali usciti dalle scuole venete del tempo si trovassero in condizioni spiccatamente favorevoli in paragone dei canuti colleghi passati per i gradi inferiori di truppa. Molti di questi erano invecchiati nelle scolte sui diruti rampari della Repubblica, a Corfù, a Parga, a Zante ed a Cefalonia, si erano temprati ai miasmi mortiferi dì Prevesa, di Vonizza e di Butrinto, avevano scritto infine l'ultimo capitolo - per quanto assai mutato nel decoro guerresco - dell'epica lotta accesasi tra la Cristianità ed il Turco, dalle crociate a Lepanto e da Candia in Morea, vigilando come sentinelle perdute verso i confini musulmani sui lontani castelli di Dernis, di Clissa e di Knin. Ed il bilancio del servizio di queste scolte fedeli - quasi fatte simbolo di una potenza della quale più non rimaneva che il nome - era solenne come un piccolo monumento di storia individuale. Storia dei tempi, fatta non già di novità sibbene di lunga e paziente attesa. Sfogliamo un poco tra le pagine di codesti titoli vetusti. Dagli stati di servizio prodotti dai capitani Zorzi Rizzardi e Donà Dobrilovich al Senato per ottenere la loro giubilazione, risulta che il primo di questi era soldato dal 1734, cadetto nel 1740, alfiere nel 1753, tenente nel 1766, capitano-tenente nel 1778, capitano nell'anno medesimo; vale a dire che aveva impiegato ben 51 anni di servizio per ottenere quest'ultimo grado, dei 68 di età che contava il postulante. Il collega Dobrilovich era soldato dal 1733, caporale nel 1739, sergente nel 1742, alfiere nel 1745, tenente nel 1766, capitano-tenente nel 1773 e capitano pure nello stesso anno: gli erano quindi occorsi 51 anni per raggiungere la desiderata mèta di comandante di compagnia, accumulando per via il fardello di ben 68 anni di età. Nè gli accademici, per dir così, erano i soli a far concorrenza ai vecchi soldati della Repubblica. Oltre ad essi si dovevano contare gli ufficiali sopranumerari, cioè quelli il cui rollo di anzianità era per un motivo qualsivoglia sospeso, i provenienti dai nobili e dai figli degli ufficiali, ed infine i titolati, cioè coloro che in virtù di una grazia sovrana, per benemerenze personali o di famiglia, ricevevano un grado ed i relativi emolumenti senza però disimpegnarne gli uffici. Ingrossata così la schiera dei competitori - talchè i cadetti nel 1781 erano cresciuti a 605, laddove nel 1776 toccavano il centinaio e mezzo appena - il malcontento dei vecchi ufficiali non ebbe più ritegno. «Quando - dice un'istanza avanzata al Senato dal tenente Teodoro Psalidi, del Reggimento di Artiglieria - dovetti fare le prove anche nelle scienze matematiche, volendo aspirare al grado di capitano-tenente, e mi venne imposto di prestarmi in tali studi che non mi erano mai stati prescritti, mai insegnati dai miei superiori, cui infine non ebbi mai il tempo di applicarmi, mi cadde l'animo. Pensi dunque l'E. V. quanto inaspettato mi giungesse il nuovo precetto, grave e difficile, di immergermi in quei ardui studi nel periodo ristretto di 18 mesi, termine alle prove assegnato, e quanto fosse il mio svantaggio rimpetto ai giovani tenenti di me meno anziani, che tratti recentemente dal Militar Collegio di Verona avevano avuta la fortuna di essere da valenti maestri istrutti con ottima disciplina in quelle scienze»60. Nelle armi di linea, si impugnava in luogo delle tesi scientifiche il valore delle prescritte prove, per quanto si riferivano alla parte teorica del regolamento di esercizi e di quello sul servizio delle truppe in campagna. Il Senato ed il Savio, imbarazzati di fronte a questa selva di proteste che rimpinzavano di suppliche e di lagni le voluminose filze del carteggio, ordinarono infine alle commissioni reggimentali di rassegnare i titoli dei candidati e le prove di esame al Savio stesso, acciocchè questi potesse giudicare con uniformità, di criteri, come in ultimo appello. Ma non per questo i lagni cessarono: occorreva un rinnovamento profondo di uomini e di principi per porre rimedio al male, e questo rimedio non poteva essere nelle mani della vetusta Serenissima. Era l'estate del 1796, quando il Savio alla Scrittura Leonardo Zustinian - già denominato in alcuni reclami con il vocabolo giacobino di cittadino - si risolse di proporre al Senato uno schema di svecchiamento dell'esercito, mercè una larga applicazione del sistema dei limiti di età, visto che quello degli esami aveva ormai dichiarato la sua bancarotta. «Occorre - diceva il Savio Zustinian al Principe - purgare una buona volta la milizia dagli ufficiali inetti, di età troppo avanzata, ovvero affetti da mali incurabili... prescrivendo la giubilazione di questi con intera paga del rispettivo grado, a moneta di ogni riparto. E le norme che sembrano da stabilirsi, sono quelle di 70 anni di età per i graduati (ufficiali superiori), di 60 anni per i capitani, capitani-tenenti ed alfieri»61. Ma era troppo tardi. L'esercito Veneto cadeva giusto allora sotto la rovina della Repubblica, ed i provvedimenti escogitati dal Savio alla Scrittura Leonardo Zustinian non servirono ad altro che a formare argomento di curiosità nella storia della vecchia organica militare dei Veneziani, ed a fornire oltre a ciò un buon esempio atto a comprovare come talvolta ad eguali difficoltà, o molto simili, ad onta dei mutati tempi, si procura di far fronte con espedienti assai affini.
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Sparpagliati nei diversi presidi d'Italia e d'oltremare, gli ufficiali della Serenissima non erano tra loro in eguali condizioni d'istruzione e di addestramento professionale. Quelli poi che soggiornavano nella Dominante, per le loro occupazioni da guardia oligarchica e per i loro contatti con le primarie cariche dello Stato, godevano di un prestigio che non aveva riscontro con gli altri colleghi dell'esercito. Lo stesso carattere della milizia veneta - prevalentemente levata per ingaggio - contribuiva oltre a ciò a creare attorno agli ufficiali stessi un ambiente molto affine a quello in cui trascorrono oggigiorno la loro esistenza gli ufficiali di taluni eserciti delle libere repubbliche d'America. Nullameno, ad onta di queste circostanze poco favorevoli dell'ambiente - cristallizzato nelle vecchie pratiche e nei vetusti pregiudizi, sopravvissuti ancora dal tempo delle compagnie di ventura e del Quattrocento - la decadenza militare della Serenissima brilla ancora per il nome di qualche ufficiale, salito in fama unicamente per virtù propria; ciò che è garanzia del suo merito indiscusso. E sono nomi cari non soltanto nel ristretto cerchio della Repubblica oramai moritura, ma eziandio in quello più vasto e luminoso della storia militare italiana. Tra essi primeggia il brigadiere del genio militare Anton Mario Lorgna, da Cerea, fondatore di quel corpo; architetto, idraulico, topografo e matematico di gran fama, il cui nome va indivisibilmente congiunto alla riputazione del Collegio Militare di Verona, già grande prima della caduta di Venezia, talchè non pochi eserciti stranieri facevano a gara nel richiederne gli allievi al Senato62 ed egregia anche dopo la caduta, talchè non sdegnò di occuparsene il Foscolo. Meritevoli di nota in questo periodo di tempo sono pure i nomi del maggiore di artiglieria Domenico Gasparoni, veneziano, ordinatore del Museo dell'Arsenale ed autore di una pregevole opera sull'artiglieria veneta dedicata al doge Paolo Senior63; del sergente maggiore di battaglia Stràtico, introduttore di considerevoli riforme nei regolamenti militari Veneti, ed infine di Giacomo Nani, per quanto quest'ultimo appartenga per provenienza alla marina, ma per anima e per circostanze della gloriosa sua camera delle armi all'esercito, intorno al quale scrisse il volume inedito dal titolo Della Milizia Veneta64 e l'opera perduta relativa alla difesa di Venezia65. Gli stimoli per suscitare una nobile gara di emulazione e di benemerenze tra gli ufficiali Veneti erano ben pochi. Le stesse ristrettezze del bilancio impedivano perfino di assolvere il sacrosanto obbligo contratto dalla Serenissima verso i prodi combattenti sotto le bandiere di Angelo Emo, assegnando loro quel grado e quello stipendio che erano stati decretati dal Senato per merito di guerra66. Per questo titolo - abbenchè con molta minor frequenza - si assegnavano agli ufficiali anche delle medaglie d'oro, con l'impronta del leone di San Marco, del valore medio di 30 zecchini67. Ma per l'assenza di clamorose imprese, verso la fine della Repubblica anche questa costumanza, derivata dai tempi eroici, cadde in disuso, sicchè se ne ricorda a mala pena qualche raro caso. Tale è quello del capitano Gregorio Franinovich, del Reggimento Cernizza, decorato per speciali benemerenze ed atti di valore compiuti dal detto ufficiale in Levante68. E passiamo al rovescio della medaglia. Le punizioni degli ufficiali Veneti avevano, in prevalenza, il carattere di coercizione morale. Così l'ammonizione, l'arresto semplice, l'arresto più lungo, la sospensione dal grado, la notazione speciale sul libro-registro del servizio - della quale si teneva conto a suo tempo per la compilazione dei titoli di esame - infine l'esclusione o la sospensione temporanea dalle adunanze, o circoli di persone per grado e per nobiltà distinte69. * * * L'antica foggia di vestire degli ufficiali era stata riformata nel 1789 sull'esempio degli Austriaci e dei Prussiani. In seguito a questa riforma introdotta dallo Stràtico, che compilò la relativa «Ordinanza contenente la prammatica e la disciplina relativa all'uniforme della fanteria italiana», tutti gli ufficiali veneti, dall'alfiere al colonnello, dovevano indossare la nuova divisa, non soltanto in servizio ma anche nelle presentazioni, negli spettacoli e nelle pubbliche solennità. Erano comminate punizioni a chi non ottemperasse a questi precetti o alterasse la foggia del vestire. E che tali mancanze non fossero rare, lo attestano le minuziose cure con cui l'Ordinanza sopra citata prevedeva i relativi casi. «Tutti - soggiungeva l'Ordinanza - dentro un triennio dovranno avere la nuova uniforme, pena la sospensione dal servizio e la sottomissione a ritenute, finchè la nuova uniforme non sia fatta, oltre le notazioni da farsi sul Libro Registro, a pregiudizio dello avanzamento». La pettinatura degli ufficiali veneti era liscia, con due bucali (riccioli), uno per parte delle tempia, sostenuti dalle forchette che giungevano fino a mezza orecchia: i capelli dovevano essere bene incipriati (polverizzati) e la chioma raccolta in una rete (fodero) di pelle nera. Il principale capo di vestiario della fanteria italiana era la velada, o abito a coda di rondine di panno blò, foderato di roè bianco70, guarnito di un collarino e di balzanelle, o manopole, pure di panno bianco, adorno di grossi bottoni di metallo dorato con impresso, in cifre romane, il numero del corpo cui gli ufficiali appartenevano71. Gli ufficiali dei fanti oltramarini avevano l'abito di panno cremisi, come i soldati, e quelli di artiglieria di panno gris di ferro. Nella stagione fredda si indossava da tutti un cappotto di panno bianco, della stoffa di quello usato per il bavero della velada, guernito di bottoni pure di metallo dorato e foderato assai spesso di una buona pelliccia. I calzoni d'inverno erano di panno blò e nella stagione calda di rigadino bianco forte. L'abbigliamento degli ufficiali veneti era completato dal colletto di pelle nera lucida, dai manichini di buona tela batista, dai guanti di pelle gialla lavabile, dagli stivali di bulgaro cerato, dagli stivaletti di pelle nera da usarsi in estate, allacciati dalle cordelle, e dal cappello a tricorno. I distintivi di grado si portavano sul cappello. L'alfiere non recava sopra di esso alcuna distinzione, i tenenti ed i capitani-tenenti si riconoscevano invece per una rosetta, o coccarda, mista d'oro e di seta azzurra, assicurata sull'ala sinistra del tricorno mediante un bottone ed un'asola (laccio) di seta nera. I capitani si distinguevano per due rosette simili alle anzi descritte, assicurate sopra ciascun'ala del copricapo: i sergenti maggiori, i tenenti colonnelli ed i colonnelli infine recavano tutti, senza distinzione alcuna, due rosette come i capitani, intessute però per intero di solo filo d'oro. Oltre a ciò il bavero degli abiti degli ufficiali superiori era ornato di un largo gallone d'oro mentre quello degli ufficiali inferiori ne era sprovvisto. Anche i fiocchi delle spade e dei bastoni erano differenti per ogni grado. I bastoni dei subalterni erano guerniti di un pomo d'avorio, quelli dei capitani di un pomo di metallo liscio dorato: i bastoni degli ufficiali superiori non avevano altro distintivo che un risalto anulare disposto verso l'attacco del pomo alla canna. Le cinture ed i pendoni (tracolle) delle spade erano di pelle bianca lucida, con scudetti di metallo recanti in rilievo l'emblema del leone di San Marco: gli scudetti degli ufficiali subalterni erano semplicemente inargentati, quelli dei capitani inquartati dentro un ribordo dorato, quelli degli ufficiali superiori infine erano tutti dorati72. Quanto alle armi, abolita definitivamente la picca nel 1790, le lame delle spade, le fasce ed i puntali dei foderi dovettero, in tutto e per tutto, uniformarsi al modello prescritto dall'Ordinanza dello Stràtico.
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Prima di lasciare l'argomento degli ufficiali veneti, occorre aggiungere ancora qualche cenno che valga a lumeggiare la loro posizione interiormente ed esteriormente all'ambiente militare del tempo. I sistemi di ingaggio delle truppe - sopravvissuti a Venezia per lunga tradizione fino dall'epoca delle compagnie di ventura - riflettevano di necessità sugli ufficiali la fisionomia particolare di comandanti non tanto d'uomini, quanto di custodi di merce acquistata a suon di quattrini dalla Serenissima sul mercato dei soldati di mestiere. Si spiega quindi come, dato tale ambiente, le occupazioni dell'ufficiale fossero in prevalenza amministrative, anzichè tecniche, educative e morali. Le tradizioni del reggimento, i ricordi dei principali fatti di guerra - che solevano tramandarsi egregiamente in Piemonte tra le milizie paesane - non avevano quindi un equivalente riscontro morale tra i Veneti, neppure tra le cerne dei migliori tempi della Serenissima. I soldati di mestiere avevano anzi smarrite tutte queste tradizioni, a motivo dell'avvicendarsi dei nuovi ingaggiati nei corpi, del frantumarsi dei riparti nelle varie guarnigioni e degli atteggiamenti diversi assunti dalle milizie venete della decadenza, divise di continuo tra il servizio di sentinella, quello ai daziere, di guardia confinaria e campestre, oppure di rincalzo ai satelliti degli Inquisitori di Stato. Epperciò, all'infuori del comandante di compagnia, il cui compito era quello di amministrare il mezzo centinaio di uomini che la Repubblica gli confidava, per essere equipaggiato, armato e nutrito, nessun altro ufficiale aveva attributi speciali nell'ordine dell'educazione e dello apparecchio morale dei propri dipendenti. Neppure il colonnello aveva sotto questo riguardo particolari incarichi; che anzi, per l'uniforme costume di ridurre tutto quanto aveva attinenza al soldato al denominatore comune dell'amministrazione, seguendo la moda del tempo anche nell'esercito veneto sopravviveva la compagnia colonnella, alle cui funzioni contabilesche non potendo accudire di persona il capo del reggimento venivano da lui delegate ad un tenente anziano, detto perciò capitano-tenente. In analogia si regolava il tenente colonnello ed il sergente maggiore, che avevano pure essi la rispettiva compagnia, confidata figuratamente al governo di un capitano che ne faceva in realtà le veci amministrative in tutto e per tutto. Dal capitano, comechè si trattasse di un vero e proprio possesso individuale, prendevano poi nome le altre compagnie, la cui anzianità e disposizione nelle manovra era fissata dall'anzianità del rispettivo comandante, dopo la compagnia del colonnello e degli altri ufficiali superiori del reggimento. Il prevalente carattere mercenario delle milizie venete aveva inoltre, da tempo, avvezzi i governanti a considerarle quale strumento ligio all'oligarchia che le manteneva in vita; e tale modo di essere - contrario ad ogni libero svolgersi delle attività morali - si rifletteva necessariamente anche sul carattere degli ufficiali. Valgano a questo proposito due ordini di concetti: quello di servirsi degli ufficiali nelle operazioni poliziesche di maggior rilievo, - quale l'arresto fatto dal colonnello Craina, dei fanti oltremarini, del noto patrizio liberale Zorzi Pisani - e della fiscalità continua esercitata sopra di essi - specie sui comandanti di compagnia - in tutte le manifestazioni amministrative; ciò che contribuiva a far ritenere gli ufficiali medesimi come asserviti di continuo ad una specie di stato di tutela da parte delle maggiori autorità e magistrature competenti. Ma, ad onore degli ufficiali Veneti, conviene pure soggiungere a questo punto che mai, nelle voluminose filze del carteggio militare della decadenza, si trova citato un caso che giustifichi codesta diffidenza fiscale, la quale d'altronde era connaturata nei tempi ed in molti eserciti d'allora, e che si è tramandata per qualche traccia perfino a giorni non lontani dai nostri73.
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Se la grande massa degli ufficiali adunque - quelli di Linea - trascorreva l'esistenza morale ed intellettuale in tale angusto cerchio di attribuzioni e di consuetudini, fatto ancora più uniforme dal grigio dell'inoperosità della decadenza repubblicana, ciò non toglie che qualche altro corpo di ufficiali stessi - a base più ristretta ed a reclutamento più omogeneo, - non intravedesse degli spiragli verso orizzonti più audaci o verso aspirazioni che precorrevano il futuro. Il Collegio Militare di Verona, per le sue relazioni scientifiche con l'Università di Padova, per l'indole e la nazionalità di taluni suoi insegnanti, si prestava anzitutto da buon crogiuolo delle nuove idee ed a propalarle nell'esercito. Fino dal 1764 si lamentava infatti dal Savio alla Scrittura, che tra i giovani dell'istituto serpeggiassero «dei mali principi, pregiudicievoli alla buona morale, molto più ancora contaminata dalle massime di libertà che vien fatto di credere che si siano nel Collegio disseminate». Tale sospetto motivò un'inchiesta, eseguita dal Savio alla Scrittura Marco Antonio Priuli, la quale accertò che tre ufficiali capisquadra del Collegio, «consumavano il loro tempo con la lettura di romanzi e di libri oltramontani, dei quali contribuiscono pure i giovani, avendosi giurata deposizione che si fossero vedute nelle mani di qualche alunno le opere di Volter (sic), e venendo perfino introdotto il sospetto che si leggessero quelle ancora di Niccolò Macchiavello»74. Gli ufficiali modernisti vennero sfrattati dal Collegio di Verona, e la mala pianta delle idee novatrici pareva del tutto spenta quando, nella primavera del 1785, vi si scoperse una loggia di Liberi Muratori, fondata da Giovambattista Joure, maestro di lingua francese nell'istituto, allo scopo di diffondere tra i futuri ufficiali veneti i principi delle nuove dottrine liberali, e «di restituire alfine l'uomo alla prisca libertà naturale, da cui la teocrazia ed il principato lo avevano allontanato»75. A questa loggia «muratoria» militare deve avere partecipato molto probabilmente anche il colonnello Lorgna - poichè le adunanze degli affigliati si tenevano in certe camere dal medesimo occupate in Castel Vecchio - e, certamente, non pochi ufficiali della guarnigione di Verona appartenenti al corpo di artiglieria, come risulta dagli interrogatori del processo, nei quali sono spesso citati il maggiore alle fortezze Solidi e l'alfiere conte Rambaldo, da Legnago76. Scoperta l'associazione, gli Inquisitori77 sfrattarono subito il maestro Joure dagli Stati Veneti e sbandarono gli ufficiali ascritti alla loggia di Verona in diverse guarnigioni di terraferma ed oltremare. Nullameno, i germi diffusi dal Joure nel maggior istituto militare della Repubblica lasciarono traccia oltre al rogo dei libri e dei registri della loggia ordinato dagli Inquisitorì, ed essa traspare nel continuo fermento cui andò soggetto il collegio, da quell'epoca fino alla violenta sua soppressione accaduta per opera del generale Rampon, a metà luglio del 1796. Il desiderio di riforme era dunque la spinta principale di quei moti, intesi «a sovvertire l'attuale spirito di concordia, di pace e le leggi della sottomissione e del buon ordine che furono naturalmente stabilite» e di realizzare infine «delle novità nei metodi nello insegnare... non volendo ufficiali ed alunni più vivere soggetti»78. Pure anche questi germogli di giacobinismo, cresciuti come pianta sporadica all'ombra delle torri merlate del castello Scaligero di Verona, dovevano un giorno tornare utili alla Repubblica79. E ciò avvenne quando si trattò di spedire i primi messaggeri di pace al generale Buonaparte, sotto Brescia; messaggeri che il Senato volle servilmente prescelti fra gli antichi allievi del Collegio Militare veronese, nella speranza che il ricordo delle relazioni «muratorie», perseguitate un tempo e ritornate in onore per la circostanza, valesse a propiziare loro ed alla Repubblica l'animo del conquistatore80. E questi ufficiali furono il colonnello Giovanni Francesco Avesani ed il capitano Leonardo Salimbeni, inviati il 27 maggio 1796 a Brescia con il mandato di implorare grazia da Buonaparte per l'avvenuta occupazione di Peschiera, fatta pochi giorni avanti di sorpresa dagli Austriaci. Di ufficiali inferiori dell'esercito infine, coimplicati in movimenti politici, non si trova traccia nel carteggio della decadenza militare veneta. E questo serve da conferma, tanto del carattere di guardia oligarchica - conservato dall'esercito stesso fino alla rovina del governo della Serenissima - quanto della infondatezza del timore da alcuni nutrito che esso avesse potuto tralignare in mano di audaci e di novatori. L'espressione di questo sospetto di tradimento - naturale d'altronde in ogni organismo inesorabilmente votato alla rovina - si trova in talune «polizze» anonime trovate nei bossoli del Maggior Consiglio e del Senato durante l'anno 179681. Queste «polizze» insinuavano di diffidare dell'ottuagenario tenente generale Salimbeni, comandante in capo delle milizie venete raccolte sotto la piazza di Verona e dei suoi figliuoli, tra i quali era il capitano Leonardo citato più sopra. Uno di questi foglietti così diceva: «Non prestar fede al generale Salimbeni». Un altro ancora proclamava: «Governo, nò ve fidè del generale Salimbeni, Recordève del Carmagnola». Un terzo riproduceva il rozzo disegno di una forca, con la scritta: «Per il general Salimbeni». Un ultimo infine insinuava: «Il tenente generale Salimbeni è giacobino coi figli ed adora solo l'oro, Governo, guardatevi che non vi tradisca essendo più francese che suddito».
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41 Comandava allora interinalmente la divisione Serurier. 42 Carteggio del Provveditore Generale Nicolò Foscarini. Filza 2 (1° luglio - 15 agosto 1796). 43 Delib. Senato Militar. 1785. Filza 117. 44 Italia, Dalmazia, Levante e Golfo. 45 Delib. Senato Militar. Tavola I, Registro 29 (Ducali del maggio 1786). 46 Gli ambasciatori a Costantinopoli si denominavano più specialmente nel linguaggio diplomatico Veneto baili. 47 Delib. Senato Militar, 1782. I Secreta. Filza 106 48 La riforma delle scuole militari fu preceduta ed accompagnata dalla riforma delle scuole civili, le quali vennero laicizzate a Venezia per opera di Gasparo Gozzi. Il periodo di maggiore attività in quest'opera corrisponde agli anni che corsero dal 1773 al 1775. Il Savio alla scrittura Francesco Vendramin desiderava di questa riforma farne il caposaldo per i progettati miglioramenti do introdursi nell'esercito Veneto, seguendo i criteri già enunciati dal Gribeauval, che suonavano come appresso: «Le but est des réduire à peu de chose les droits à l'anciennete, aneantir ceux de la protection, donner toute faveur aux talente supérieure et les initier dans le commandement avant l'âge où le corps commence à perdre et l'esprit cesse d'anquérir.Tale opera si era già magnificamente affermata in Francia ai tempi del maggior lustro militare del regno di Luigi XV. 49 Il nome di alfiere deriva manifestamente dal latino aquilifer, titolo e grado di colui che, nelle antiche ordinanze romane, portava l'aquila, insegna principale della legione. Nella milizia moderna si tramandò il nome per designare l'officiale incaricato di portare le insegne di una compagnia di fanti. In cavalleria l'alfiere prendeva il nome di cornetta, dalla piccola insegna quadra oltre volte usata in quell'arma. 50 Non esisteva correlazione gerarchica tra i gradi dell'esercito e quelli della marina veneta repubblicana. Il grado di alfiere, o di cornetta, corrispondeva però in qualche misura a quello di nobile in nave, che rappresentava il primo gradino della gerarchia degli ufficiali di vascello. Il grado di sopracomito, secondo nella scalèa, disponendo del comando di una nave (ordinariamente una galera) eguagliava, sotto qualche rispetto, quello del capitano comandante di una compagnia di fanti oppure di una compagnia di cavalli.I gradi più elevati della marina, quale il governatore di galeazza, il governatore dei condannati (o ispettore alle ciurme ed all'armamento delle navi), il capitanio del Golfo, o comandante della squadra adriatica, sottoposti a loro volta al capitanio generale, al provveditor dell'Armata, al patron delle navi, all'almirante, al capitan delle navi ed infine al provveditore generale da Mar, non avevano riscontro approssimativo nei gradi dell'esercito. 51 Legge di Ottazione per la promozione degli uffiziali e bassi-uffiziali nei Reggimenti Italiani, Oltramarini, Cimarioto, Croati a cavallo, Corazzieri, Dragoni, al servizio della Serenissima Repubblica di Venezia. Stampata per ordine dell'Ecc.mo signor Michele Morosini, Kav. Savio di Terraferma alla Scrittura, in esecuzione al Sovrano decreto dell'Ecc.mo Senato, 2 giugno 1740. Pinelli, stampatori ducali, Venezia, 1740. 52 La dichiarazione, datate da Brescia li 16 giugno 1785, è firmata dal tenente colonnello Zorzi Molari e dal colonnello Giovanni Marin Conti, comandante del reggimento (Delib. Senato Milit. Secreta I. Filza 116, 1786). 53 Delib. Senato Militar. Secreta I. Filza 116. Anno 1785. 54 Delib. Senato Militar. Secreta I. Filza 116. Anno 1785. 55 Capo-squadrone, vale dire comandante di due compagnie di cavalli. 56 Delib. Senato Militar., 1795. Filza n. 146 Le principali norme di manovra della cavalleria veneta si possono desumere dall'opera intitolata: «Esercito militare e regola universale della cavalleria e dragoni della Serenissima Repubblica di Venezia, stabiliti da S.E. Daniele Dolfin» (Verona 1707). 57 Delib. Senato Militar, 1782. Filza n. 105. 58 Vale a dire maggiore, comandante di una o più compagnie di cannonieri. 59 Buona parte di queste prove pratiche si effettuavano al «Bersaglio di artiglieria» di Sant'Alvise, a Venezia, oppure al Lido. Sui particolari delle artiglierie venete, si veda: «Le artiglierie Venete, fatte incidere in rame dall'Ispettore generale Domenico Gasparoni. (1779) ». 60 Delib. Senato Militar. Secreta I. 1785. Filza 116. 61 Delib. Senato Militar. 1796. Filza 25. 62 Delib. Senato Militar. 1777. Collegio Militar di Verona. Busta 224. Il Senato in esito a tali richieste aveva decretato, che i provenienti dal Collegio Militare di Verona non potessero allontanarsi dal servizio sotto le pubbliche bandiere se non dopo un triennio di permanenza nell'ufficio cui attendevano. 63 Pubblicata nel 1779, in folio, col titolo: «Le Artiglierie Venete, fatte incidere in rame dall'Ispettore generale Domenico Gasparoni.» 64 Il manoscritto trovasi al Museo di Padova (Biblioteca). 65 Filippo Nani Mocenigo - Giacomo Nani. - Memorie e documenti. - Venezia, 1893. L'opera della «Milizia Veneta aveva il seguente motto: «Non ci può essere piano militare che sia acconcio a combattere una malattia puramente morale e politica». 66 Erano 43 ufficiali che Angelo Emo aveva elevato al grado superiore, con il consenso del Senato, per benemerenze acquisite nelle campagne di Tunisi e di Algeria. Essi furono distribuiti in soprannumero tra i diversi corpi, ma poi ricollocati in congedo per mancanza di posti. Questi ufficiali reclamarono vivacemente ed infine, nel 1795, ebbero dal Senato dei posti al governo delle piazze e delle fortezze. (Delib. Senato Militar. 1795. Filza 146). 67 Il zecchino era pari a lire venete 22, e la lira veneta a soldi 20 (Italiane lire 0,5228). 68 Delib. Senato Militar. 1793. Filza 139. 69 Delib. Senato Militar. 1790. Filza 130. 70 Panno assai leggero (rarus). 71 «Riconoscendo buona la pratica - diceva un Senatoconsulto dell'anno 1769 - seguita dalle estere truppe di porre un segno distintivo di reggimento, e non essendo quello sufficiente della diversità dei mostrini (mostreggiature) comunemente usato, il Senato emette l'avviso che con il numero impresso sui bottoni ai debbano distinguere i 18 reggimenti italiani» (Delib. Senato Militar. 1789. Filza 127). 72 Delib. Senato Militar. 1790. Registro n. 29. Decreto 29 aprile 1790. Si noti l'analogia di tali distinzioni di grado usata dagli ufficiali Veneti con quella tradizionalmente adottata dagli ufficiali dell'esercito del Montenegro. Presso di questi i segni del grado si portano sul berretto, e sono: ufficiali generali, scudetto d'oro dalle insegne principesche; maggiori scudetto d'oro con le scimitarre d'argento; ufficiali inferiori scudetto d'argento con le scimitarre d'oro. 73 Dalla fiscalità amministrativa militare dell'epoca ai erano da qualche tempo affrancati gli eserciti di Luigi XV. Sotto il regno di questi venne regolata l'amministrazione dei reggimenti, la proprietà delle compagnie fu tolta ai capitani, un ufficiale contabile venne infine assegnato presso ciascun comando di corpo. 74 Collegio Militare di Verona. Busta 241. Relazione del Savio di Terraferma alla Scrittura M. A. Priuli. Intorno ai particolari di questa avventura, si veda: E. Barbarich. «Una scuola di artiglieria e genio sotto la Serenissima Repubblica» (Rivista di artiglieria e genio - Luglio, agosto 1908). 75 Inquisitori di Stato. - Lettere dei rettori di Verona, 1781-1787. Busta n. 110. - Idem. Dispacci dei rettori di Verona, 1785-1788. Busta n. 367. 76 Carteggio citato. 77 Erano Girolamo Diedo, Angelo Maria Gabriél e Giovanni Sagredo. Sulla loro opera di repressione delle logge massoniche in terraferma, si veda: ROMANIN. Storia documentata dì Venezia, Tomo VIII, Capo VIII, pag. 272, 399. 78 Collegio Militare di Verona. Busta n. 224. Savio di Terraferma alla Scrittura. - Busta 178. Registri dei deputati al Militar Collegio di Verona. Anni 1764-1797. 79 Devesi notare la strana coincidenza che nelle stesse sale di Castel Vecchio venne a stabilirsi, ai primi tempi del dominio francese, l'accademia detta degli Aletofili, cioè amanti della verità, e che quivi pure si installò l'accademia dei Neoterici, cioè dei seguaci delle nuove scienze fisiche e medicali. 80 Le relazioni tra il governo francese e le «Logge Muratorie» furono intensificate, nell'estate del 1796, dal Salicati. (LAPORTE - Souvenir d'un emigré - pag. 19). 81 Carteggio degli «Inquisitori di Stato» Busta n. 920. (R. Archivio di Stato dei Frari in Venezia). |
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