- Sei molto
mutata bambina, molto mutata.
Quando eravamo sole l'Orsola mi
dava ancora del tu; e quel giorno eravamo sole nella mia camera davanti alla
finestra aperta, lei con una spugna in mano imbevuta d'acqua e sapone, io coi
capelli sciolti al sole di luglio.
- Perchè dici che sono cambiata? In
che cosa ti pare che lo sia? - diedi intanto un'occhiata allo specchio e
l'Orsola si affrettò a soggiungere:
- Oh! non nel volto, no, Dio ti
benedica, mi pare che abbi ancora diciotto anni. Sei più giovane adesso di
qualche mese fa. Io dico dentro di te.
- E che cosa vedi dentro di me?
- Tante cose che non capisco.
- Ti sembrano belle o brutte queste
cose?
Orsola tacque.
- Non ti voglio più bene forse?
- No, non è questo.
- Dimentico qualcuno de' miei
doveri di padrona di casa?
- Non è questo.
- Non sono una buona mamma?
- Non è questo, non è questo.
- Oh! se vuoi farmi giuocare a
mosca cieca è passato il tempo.
- Ecco! - fece l'Orsola con
profondo sconforto - l'hai detto.
Mi voltai tutta d'un pezzo a
guardare la mia vecchia domestica.
- Mi pare - ella continuò con una
specie di allarme: - che mentre il volto ti è rimasto giovane il tuo cuore
abbia maturato assai. Non ridi più come una volta alle facezie di Pietro e
quando io ti narro quello che so, fingi di ascoltarmi ma io vedo bene che non
t'interessa. Appena l'anno scorso, guarda, avresti giuocato ancora a mosca
cieca!
- Cara Orsola, dobbiamo restare
bambini tutta la vita?
- E perchè no, Myriam?
La buona vecchia aveva pronunciate queste
parole e il mio nome con una così ingenua convinzione che mi posi a ridere e la
calmai con una carezza. Guardandola, pensai ch'ella doveva essere vicina ai
settant'anni e per la prima volta mi posi a misurare la distanza che ci
separava. Povera Orsola! La sua persona secca ed attillata di vecchietta pulita
era scossa da un lieve tremito, il capo grigio si inclinava quasi a indagare la
terra che fra non molto doveva accoglierla, la luce smorta delle pupille
sembrava ritirarsi poco a poco nel mistero dove si decompongono le vite.
- Orsola - le dissi - tu però credi
che vi è in me qualche cosa che non cambierà mai?
Ella sollevò lo sguardo tremulo e
mi fissò intensamente. Molte parole non sarebbero riuscite ad allacciare i
nostri pensieri; quello sguardo sì. Mi prese la mano e la baciò mentre io le
rendevo il bacio sui suoi capelli grigi.
In quel mese di luglio, mio cugino
si lasciò vedere poco, ma la casa restava anche in sua assenza piena di lui.
Per il solo fatto di esserci stato Egli vi era. Me lo sentivo vicino, gli
rivolgevo la parola quasi avesse potuto rispondermi. Mi piaceva a immaginarmi
le sue contraddizioni e a trovare le risposte più atte a calmarlo. Questa
ginnastica del pensiero della quale Egli era l'unico perno occupava le mie ore
d'ozio, mi era compagna nelle lievi occupazioni della giornata, mi seguiva
dovunque come un profumo penetrante e nascosto.
Quando venne finalmente mi parve
preoccupato. Io dissi che faceva caldo - poi dissi che il personaggio di Sita
nel Ramayana indiano mi sembrava un simbolo - dissi pure che la rosa bianca, la
rosa gialla, la rosa carnicina, non possono temere il confronto colla rosa
purpurea - ed Egli non trovò da contraddirmi in nulla. Tratto, tratto mi
guardava con una immobilità scrutatrice e m'aspettavo da un momento all'altro
che parlasse, ma non parlò quasi mai in tutto il tempo della visita da lui
occupata ad aprire ed a chiudere quindici scatolette giapponesi di graduata
ampiezza che Alessio aveva dimenticate sul tappeto.
A un certo momento gli chiesi se quel
balocco lo interessava.
- Moltissimo - mi rispose
premurosamente. - Non potete credere come sia rapida in me la successione delle
idee. Io penso ora ad una quantità di cose alle quali voi non avete mai
pensato. Vi sono delle catene d'amore tristi e terribili, dolorosi
avvicendamenti di passione e di sdegno, di fiamma e di gelo. Mi pare qualche
volta di vedervi un occulto giudizio, un castigo che si riverbera di persona in
persona per qualche colpa comune che tutti debbono scontare. È un fenomeno
strano ed inquietante. Si potrebbe stabilire una specie di dinamica materiale
sopra tali rapporti. Non sarebbe difficile di riunire in proposito un certo
numero di leggi che riuscirebbe interessante riscontrare nella pratica. Non mi
capite, nevvero?
- Poco, lo confesso.
- Me lo aspettavo. Appena che si
esce fuori dal solito giro di pensieri, le donne non capiscono nulla. Eppure si
tratta dell'amore, un sentimento del quale a sentir voi avete il monopolio.
Non lo avevo mai visto così
cattivo. I suoi occhi erano torbidi come cielo che si rannuvola profondamente.
- Per conto mio - risposi - conosco
così poco l'amore che non saprei parlarne.
- Neppure per intuizione?
- Mi pare che voi cercavate dei
ragionamenti.
- Inutile, inutile! - fece lui e
buttando da parte le scatole giapponesi si diede a passeggiare per la sala in
lungo ed in largo.
Di lì a poco Alessio si attaccò
alle sue mani e lo trasse in giardino. Li seguii turbata e a malincuore per i
viali che imbrunivano nell'ora crepuscolare. Li vidi entrare nel boschetto
delle acacie, dove sedettero sopra una panchina; entrai io pure e presi posto
accanto a mio figlio.
Era una serata meravigliosa, come
ne abbiamo nei nostri paesi certo a compenso dell'eccessivo calore dei giorni
estivi. Sentire la natura, sentire la vita era in quel momento una tale delizia
che nessuno di noi provava il bisogno di parlare. Nella dolcezza incombente
sembrava fondersi a poco a poco anche la gravità di mio cugino. Egli ascoltava
tranquillo il fremito misterioso che in mezzo agli alberi innalzavasi dal mondo
invisibile degli insetti e dei piccoli uccelli e poichè Alessio fece l'atto di
gettare dei sassi in un cespuglio gli disse:
- Sta cheto, disturbi la toeletta
notturna delle farfalle.
Alessio - non compiva ancora sette
anni - rise molto all'idea di quella toeletta; forse si immaginava di vedere le
farfalle col lungo camicione da notte simile a quello che aveva lui. - E
sorrisi anch'io, dominata da un improvviso bisogno di letizia, prendendo le sue
manine e ponendomele in grembo.
Era molto chiaro ancora, ma sotto
le acacie l'ombra cresceva di minuto in minuto; la testa di Alessio appoggiata
contro il mio braccio, restava al buio; quella di mio cugino invece prendeva
luce da una radura dei rami ed era così immobile e bianca nel riflesso lunare che
sembrava una statua. Aveva il profilo duro, l'occhiaia profonda, il mento
fortemente disegnato degli uomini in cui predomina la volontà. Io non so quanto
tempo passasse nel più assoluto silenzio. Alessio si era addormentato colle sue
manine nelle mie. Un rumore di carri trascinati a stento sulla ripa vicina, le
zampe dei cavalli scalpitanti, gli urli e le grida dei carrettieri non lo
svegliarono.
- Ecco che questi uomini durano
fatica a guidare i loro carri sulla montagna, viaggeranno tutta notte e faranno
viaggiare le loro bestie a furia di urli e di eccitamenti per portare il carico
dall'uno all'altro paese. È il loro mestiere, non ne conoscono altri; lavorano
volonterosi e domani quando torneranno alle loro case calcoleranno
minuziosamente quanto hanno guadagnato, per riprendere il giorno dopo la stessa
cosa.
Mio cugino fece queste riflessioni
a mezza voce senza muovere la testa, continuando a darmi colla sua immobilità
l'illusione di una statua. Ma tuttavia avendo io mormorato un leggerissimo sì
continuò:
- E chi acquisterà la mercanzia
saranno altri uomini che si credono superiori perchè invece di faticare alla
notte sulle ripe sassose, dormono in buoni letti, tenendosi accanto le loro
borse di cuoio piene di monete.
A questo punto lo scalpitare dei cavalli,
gli urli e le bestemmie presero un tono così alto che le manine di Alessio
trasalirono nelle mie. Temendo che si spaventasse nel sonno, mi chinai su di
lui e lo baciai in fronte. Intanto i carrettieri avevano raggiunto il culmine
della salita e discendevano dall'altra parte; il silenzio riprendeva il suo
impero alto e solenne.
- Il Signore disse che tutti gli
uomini sono fratelli. È a questo che pensate? - domandai timidamente.
- No - rispose mio cugino, senza
adirarsi - penso che tutti dovrebbero salire la loro erta.
Egli aveva un modo di pronunciare
certe parole come se fossero più grandi delle altre.
- Comprendo. Tutti devono lavorare
nella misura dei loro mezzi.
- Credete di comprendermi, ma non
mi comprendete ancora. Non è tutto questo.
La sua voce si faceva sempre più
dolce e malinconica; anche il suo profilo aveva modificato qualche linea della
abituale rigidezza. Le ombre addensandosi, oscuravano il suo volto che pur
restando statuario sembrava perdersi nella vaporosità di un sogno antico.
Mai in vita mia avevo provato un
sentimento di umiltà simile a quello che mi invadeva allora. Con un filo di
voce e sporgendo la fronte al di sopra della fronte di mio figlio pregai:
- Parlatemi dei vostri ideali!
Non rispose subito. Io sentivo un
bisogno ardente di attingere alla sua anima e nello stesso tempo una paura di
turbarla, come se una mossa imprudente potesse distruggere il miraggio luminoso
che la circondava. Sentivo che quegli istanti erano unici e solenni, che
cadevano di secondo in secondo nella eternità e che io li perdevo. Non vedevo
quasi più mio cugino.
Nella oscurità feci un movimento
che portò i miei capelli a sfiorare i suoi. Egli si ritrasse vivamente. Io mi
alzai.
Alessio, svegliandosi
all'improvviso, mi chiamò con una intonazione di pianto, per cui lo tenni
ancora fra le braccia cullandolo, mentre uscivo lentamente dal bosco.
- Addio - Egli disse quando fummo
sul viale bianco battuto dalla luna. - Vi risponderò più tardi.
- Lasciate almeno che io segua da
lontano il vostro pensiero.
- Oh! come lo potreste, così
debole!
Mi parve che un sorriso
d'incredulità passasse sulle sue labbra e me ne sentii ferita.
- Vedrete! Vedrete! - gli
singhiozzai dietro mentre si allontanava - e poichè un'angoscia infinita mi
serrava il cuore ebbi ancora la forza di gridare: Vedrete!
Egli si voltò, alto e ritto nel
gran viale che sembrava d'argento. Fece un gesto di commiato e disse: Vedremo!
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