Una domenica
uscendo di chiesa con Orsola e con Alessio scorsi da lungi mio cugino che ci
veniva incontro sorridendo.
- Che miracolo! - feci io.
- Era pur necessario che vi facessi
una improvvisata perchè a vedermi sempre in un dato posto e in un dato luogo
devo venirvi in uggia. Le donne amano la varietà.
- Mi piacerebbe che non mi
confrontaste troppo colle altre donne. È poi vero che mi assomigliano? Faccio
una vita troppo diversa dalla loro per non essere un po' diversa anch'io.
Intanto vi dichiaro che di questa improvvisata la parte che preferisco è
proprio quella che conoscevo già.
- Cugina, voi mi guastate.
Disse così, ma mi accorsi che il
complimento gli avea fatto piacere. Quando era contento i suoi occhi brillavano
in un modo affatto speciale e stringeva le labbra quasi stesse assaporando
nell'aria una fuggente sensazione di voluttà.
- Sapete, poichè il guasto lavora
ed io sento che sto per diventare importuno, che potreste farmela anche voi una
bella improvvisata?
- Per esempio? (il cuore prese a
battermi).
- Penso che una piccola diversione,
venti minuti di cammino, vi condurrebbero alla Querciaia. Deve essere del tempo
assai che non la vedete ed io sarei fiero di mostrarvene i miglioramenti.
Prima che io aprissi bocca, Alessio
gridò:
- Sì! Sì! andiamo alla Querciaia.
- La visitai due o tre volte quando
c'era vostra madre, ma siccome la cara donna era inferma non potei vedere nulla
oltre il salottino dove ella stava abitualmente.
- E la sala vecchia?
- Non la conosco.
- E il giardino?
- Nemmeno.
- Oh! allora bisogna proprio
venire. Orsola non avrà difficoltà ad accompagnarci, vero?
L'Orsola, direttamente
interpellata, si credette in dovere di fare dei complimenti; disse che non era
abbastanza ben vestita per mettersi insieme ai signori, che non meritava l'onore
e tante altre belle cose, in seguito alle quali mio cugino toccò leggermente la
frangia del suo scialletto e concluse:
- Benissimo, dunque siamo intesi,
avanti.
Ritengo che ognuno di noi fosse
intimamente contento di quella gita, ma la gioia di Alessio varcò tutti i
confini. Aveva visto una sol volta la Querciaia e gli era rimasta impressa
nella memoria per i suoi folti boschi pieni di uccelli. Egli però non credeva
che si potessero prendere mettendo loro un granello di sale sulla coda, la qual
cosa faceva dire a Pietro che i ragazzi del giorno d'oggi sono troppo furbi.
La casa che prendeva il nome dalle
fitte quercie che la circondavano era un ammasso curioso di fabbricati di
diverse epoche, sovrapposti od aggiunti di mano in mano dagli ultimi
proprietari con una singolare indifferenza dello stile e dell'architettura che
li aveva preceduti; ma quei tetti alti e bassi, quel campionario di finestre
d'ogni grandezza e d'ogni forma, non presentandosi con pretese di palazzo
disarmavano la critica; avevano l'aria di dire: siamo un po' buffi, ma abbiate
pazienza, ci hanno fatti così.
Un piccolo domestico venne ad
aprirci il cancello del cortile e un giovine cuoco pose fuori da una finestra
il suo tondo viso incorniciato dal berretto bianco.
- Ecco la mia servitù, campione e
merce - disse mio cugino additandomeli.
- Sono ben giovani.
- Voi avete la casa moderna coi
servitori antichi; io ho la mia vecchia bicocca con questi due giovani merli a
custodirla. Come si fa! La cameriera di mia madre che ci stava da ventidue anni
è morta subito dopo la sua padrona e io dovetti prendere quello che potei
trovare.
L'Orsola sembrava assai
meravigliata che una casa senza donne potesse reggersi in piedi e furtivamente
andava scrutando tutti gli angoli coi suoi occhietti esperti di massaia. La
sorpresi anche a toccare con un dito la superficie dei mobili per assicurarsi
che non c'era polvere.
Del resto l'aspetto generale
dell'interno era in perfetta armonia colla facciata. Per andare da una camera
all'altra c'erano quasi dappertutto gradini da salire o da scendere, ciò che
formava la delizia di Alessio.
Mio cugino faceva gli onori con
molto garbo; ad ogni tratto mi dava la mano e mi guidava nei passaggi
difficili.
- Convengo - disse Egli con una
modestia tra finta e vera - che non c'è qui gran che da vedere e devo chiedervi
scusa se mi sono valso di una menzogna per procurarmi il piacere di una vostra
visita.
Mio cugino non mi aveva abituata a
troppi complimenti e compresi che se allora me ne faceva qualcuno era nella
qualità di padrone di casa educato; pure gliene fui molto grata e lo ricambiai
assicurandolo che la sua casa era interessante; nè mi parve di aggiunger nulla
alla verità.
Una soddisfazione tutta intima
l'avevo poi nel percorrere passo a passo le stanze che Egli abitava, che lo
avevano visto nascere, che Egli doveva certamente amare. La vecchia sala mi
parve assolutamente bella, colle sue dorature rimaste intatte accanto al
broccatello stinto e col gran numero di ritratti che coprivano le pareti. Mi
ricordai a questo proposito che l'ordinamento dei ritratti era stata una delle
sue grandi occupazioni appena giunto alla Querciaia e volli che mi mostrasse la
leggiadra bisavola alla quale i topi avevano portato via il fazzoletto.
- Oh! eccola, eccola - Egli disse
tutto lieto - l'ho collocata al posto d'onore perchè veramente è la bellezza
della famiglia. Procurate di trovarle qualche somiglianza con me... Ma non
guardatela così da vicino, vi prego, non avete la luce giusta.
Mi prese dolcemente per un braccio
e mi collocò nella visuale che gli sembrava più opportuna perchè il quadro
potesse ottenere tutto il suo risalto e, tuttochè allentando la mano, Egli la
tenne ancora sul mio braccio finchè mi ebbe spiegate le finezze del dipinto che
mi parve veramente delizioso. Era, sopra un fondo giallo, una signora vestita
di nero, col bel collo e colle braccia nude circondate da una trina vaporosa di
una esecuzione e di un effetto sorprendenti. La testa acconciata a toupet,
colla cipria, nascondeva il colore dei capelli, ma l'arco fino delle
sopraciglia era nero e di un nero più pallido un po' dorato, gli occhi, pieni
di una grazia altera. Un sorrisetto impercettibile errava tra le labbra serrate
e nella posa di tutto il busto trapelava una leggera aria di sfida che le
conferiva una seduzione acuta e rara. Le mani della bella creatura, attaccate
al braccio con un polso di una delicatezza aristocratica si prolungavano
sottili, quasi diafane, a sostenere una rosa carnicina.
- Vedete, lì c'era il famoso
fazzoletto di trine che i topi si sono portato via ed io accomodai la rottura
quasi in ginocchio, come un celebre frate del quattrocento dipingeva le sue
Madonne. Ma accanto a quelle trine lì non mi arrischiai di metterne
nessun'altra, capite, nevvero? E allora ricorsi ad una rosa.
- L'avete dipinta voi questa?
- Certo. Le rose sono tradizionali
nella nostra famiglia, non lo sapete? Il nostro stemma porta una rosa al di
sopra di due spade incrociate e mio nonno fece piantare i famosi rosai che
coprono queste vecchie muraglie; li vedrete meglio quando scenderemo in
giardino. Io amo molto le rose. Ma prima di staccarci da questo ritratto,
osservate, vi prego, l'espressione interna che il pittore ha saputo rendere. Un
bel profilo, una bella bocca, due begli occhi, due candide, sottili e rotonde
braccia non sarebbero alla fine gran cosa se dietro e dentro a tutto ciò non si
vedesse la molla segreta che agisce, l'anima. Ciò che forma il fascino di
questo ritratto è la sua personalità. In quella vitina nera, noi vediamo
rizzarsi una volontà imperiosa ed energica, vediamo la malizia intelligente di
quel sorriso; quelle pupille brune che hanno del falco e della colomba insieme
ci rivelano un temperamento di squisita e superiore femminilità. La donna che
ha ispirato una simile tela doveva essere forte e soave. è per questo che io
l'amo. Oh! ma dite se non è un dolore a pensare che quelle mani nate per
guidare alla luce si sono disfatte sotterra in preda ai vermi!
- Non si saranno rinnovate esse?
Così mormorai timidamente - e poiche
vidi lo sguardo di Lui fisso sulle mie mani mi sentii presa da un grande
turbamento. Per qualche minuto non osservai più nulla di quello che seguì.
Attraversammo due o tre altre
stanze, finchè, davanti a un uscio semichiuso, mio cugino disse:
- È la mia camera.
Intravidi confusamente il
biancheggiare di un letto in mezzo a due alte librerie di stile severo. Lì
accanto si apriva una specie di terrazzo coperto dove stavano riunite le
memorie dei suoi viaggi: curiosità levantine, oggetti artistici dell'Italia,
manifatture inglesi, gingilli francesi, armi spagnuole.
- Non vi riposerete un momento? -
disse Lui.
Sedemmo in ampie e comode poltrone
coperte di cuoio davanti a una tavola tutta ingombra di carte geografiche, di
disegni, di atlanti. Egli prese un Album e aprendolo:
- Volete vedere i miei schizzi a
matita?
Un centinaio di disegni sfilarono
sotto i miei occhi colle linee vive dell'impressione côlta dal vero. Qualcuno
sembrava appena abbozzato, qualche altro più attentamente condotto aveva
finezze di artista.
- Siete stato in tutti questi
luoghi? - domandai meravigliata e quasi invidiosa di tante memorie. - Quante
cose sapete!
Mio cugino, poi che Alessio e
Orsola si estasiavano innanzi a un gruppo di ouistiti impagliati, prese a
voltarmi i fogli dell'Album attirando la mia attenzione sui punti che lo
avevano maggiormente interessato, facendomi passare dal Bosforo al Tamigi, da
Pompei a Trianon, da Saragozza a Norimberga. A un tratto disse:
- Questa è una vecchia strada di
Parigi.
- Parigi! - esclamò Alessio
correndo verso di noi - dove sta il babbo.
Anche l'Orsola colpita da quel
nome, volle venire a guardare dietro la spalliera della mia poltrona e la udii
che mormorava tornando al gruppo degli ouistiti: "Non vale proprio la pena
di lasciare il proprio paese." Io arrossii lievemente ponendo la mano
distesa sotto la fronte a schermo degli occhi. Egli vide e con grande
delicatezza cambiò la corrente delle idee, sorvolando sul mio imbarazzo sì che
l'antica tristezza, per un momento risorta, tornava a quietarsi nell'onda di
letizia che mio cugino sapeva diffondere intorno a sè; una letizia profonda e
serena di spirito superiore, di chi sa elevarsi al disopra di ogni miseria
umana e dominarla. Era precisamente questa impressione di sentirmi sorretta e
portata che mi faceva stare tanto bene accanto a Lui, che mi metteva nel cuore
una fiducia più dolce di qualsiasi sentimento, che mi faceva trovare qualche
cosa della indulgenza di un maestro buono anche nelle sue violenze. E là nella
sua casa, nella casa piena di Lui, sentivo l'orgoglio e la soavità insieme
d'essergli parente.
Una scaletta esterna mascherata
sotto le rose ci condusse nel giardino ampio e riccamente ombreggiato.
- Dovete dimenticare - disse mio
cugino - il viale così ben tenuto della vostra villa per trovare qualche
vaghezza in questa boscaglia.
Non ero di tale opinione. Qualsiasi
altro giardino non avrebbe vestito meglio la casa bizzarra alle cui muraglie
nere salivano i tralci dei rosai con una violenza di fioritura che nessun
artificio frenava. Era un irrompere di rose di tutti i toni, di tutti i colori,
bianche, scarlatte, gialle, che si aggrovigliavano in libera scelta, ottenendo
effetti impreveduti di contrasto e sinfonie armoniche che l'arte più sottile
non avrebbe neppure immaginato e dietro a queste rose le alte querce si
profilavano sulla trasparenza del ciclo, solenni e austere.
La mia ammirazione restava muta,
mentre l'Orsola si diffondeva in esclamazioni e Alessio faceva dieci domande ad
ogni minuto. Mi scendeva sopratutto intimo e inebbriante al cuore il piacere
che trapelava dagli occhi e dalla voce di mio cugino; quantunque Egli non
abbandonasse il contegno riserbato che era in lui duplice effetto di educazione
e di natura, sentivo nella mia dolcezza la dolcezza sua. Non so fino a quando
sarebbe durata l'estasi di quella visita se l'orologio suonando non ci avesse
ammoniti che il tempo passava.
- Signore Iddio - fece Orsola -
come è tardi!
Ci accomiatammo sorridendo, un po'
trasognati, come presi da un incanto. Prima di uscire dal giardino Egli si
accostò a un cespo di rose carnicine e staccandone un fiore me lo porse.
- È la rosa della mia bisavola -
disse.
Non vidi la strada del ritorno.
Pietro ci aspettava dieci passi fuori della porta, guardando ora a destra ed
ora a sinistra con una mano sul fianco, perchè non era mai capitato un ritardo
simile. Quando ci vide tutti e tre, mise fuori un gran sospiro di sollievo.
- Di che cosa temevi, buon Pietro?
l'orco non c'è più.
- Temere bisogna sempre.
Così rispose Pietro che
rappresentava in casa mia il senno e la prudenza e forse per non lasciar
svanire l'effetto del consiglio, durante gli ozî del pomeriggio festivo,
raccontò ad Alessio la favola del lupo che si era messo una pelle di pecora per
poter penetrare nell'ovile.
- Pietro - gli dissi ridendo - tu
sei pessimista. A udirti bisognerebbe diffidare del mondo intero.
- Gli uomini sono cattivi, signora.
- Tutti?
- Tutti un poco e a certe ore.
Mi affrettai a togliere dalla testina
di Alessio questa affermazione recisa dicendogli che gli uomini sono sempre
buoni purchè il vogliano. Io ne ero tanto persuasa! Parlai, giuocai e risi con
Alessio durante il resto del giorno. Verso sera caddero quattro goccioline di
pioggia che ci impedirono di scendere in giardino. Alessio allora andò in
cucina dove l'Orsola stava preparando certe conserve di suo gusto ed io mi posi
al cembalo. Da quanto tempo non me ne occupavo più! Le cartelle di musica si
trovavano in un grande disordine. Non sono mai stata una esecutrice di molto
valore, avendo piuttosto disposizione per il canto che per la musica, ma
conoscevo abbastanza bene gli spartiti di Porpora e di Scarlatti. Cercando così
in mezzo alla vecchia musica, trovai una canzone che avevo dimenticata e mi
venne voglia di provarla. Mi posi a leggerla con tanto ardore che non udii il
passo di mio cugino; quando me ne accorsi smisi subito.
- Perchè? - Egli disse - ve ne
prego, continuate.
- Oh! non merito un pubblico.
- Vi ho consigliato altre volte di
non abusare della modestia, è una virtù deprimente. Scommetto che avete fra le
mani un gioiello; lasciatemi almeno vedere.
- È una canzone antica.
- Che fa? Sono spesso così graziose
queste canzoni. Incominciamo a leggerla.
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