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Neera
L'amuleto

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Tutta notte vegliai prestando l'orecchio al vento che non ebbe mai posa tutta notte - e sempre con quella impressione di dolore, di colpo portato in pieno petto. Avevo un bisogno irresistibile di piangere e non potevo. L'incanto era rotto. Sei mesi di dolcezza, quasi di felicità, erano dileguati, non sarebbero tornati più, distrutti da un istante così breve. Avevo pianto tanto quando erano morti mio padre e mia madre, eppure sapevo che dovevano morire; ma Lui perchè aveva fatto questo? Ecco, pronunciavo anch'io parole più grandi delle altre, come certe parole che Lui pronunciava, dandomi la visione di un mondo superiore. Egli non mi aveva creduta degna di seguirlo per quella via. Non mi aveva amata; ah! sopratutto non mi aveva amata mentre io fidavo tanto in lui!

A questa considerazione un fuoco violento mi salì alle guancie e un desiderio di batterlo, di umiliarlo, di dirgli che era stato vile. Alcune storie udite qua e , certi apprezzamenti dei quali nella mia assoluta ignoranza della vita non avevo compreso la portata, mi tornavano in mente tumultuosi, maturando con una precipitazione dolorosa tutto ciò che era rimasto incompleto nella mia piccola esperienza di donna solitaria. È dunque così che le donne cadono ed è di questo che insuperbiscono gli uomini? Ed Egli pure! Egli pure!!...

Strisce arroventate mi solcavano la fronte, il collo, il petto; le tempie mi battevano disordinatamente. L'uragano era oramai una cosa sola con me stessa; il vento che flagellava gli alberi flagellava pure le mie membra ardenti di febbre; udivo nello scrosciare della pioggia le mie stesse lagrime, le lagrime avare che gli occhi non volevano darmi. Ecco, si aprivano una strada attraverso le cateratte del cielo, scorrevano nella valle, sui monti, nelle foreste, sulle case dei placidi dormienti, nel sonno ininterrotto dei rudi lavoratori, nella veglia attenta e amorosa delle madri, nelle visioni alate dei bimbi, forse in qualche insonnia pensosa di un vecchio prossimo alla tomba. - Scorrevano le lagrime brucianti del mio cuore, insieme alle lagrime di tutto il mondo in quell'imperversare di tutti gli elementi.... Orrida notte durante la quale agonizzò l'anima mia fino all'ultima resistenza del soffrire.

Neppure verso l'alba mi chetai. Orsola che non aveva voluto abbandonarmi e che si era addormentata sopra una poltrona, venne a toccarmi la fronte.

- Hai la febbre Myriam, bisogna chiamare il medico.

Non mi opposi e non dissi di sì, indifferente. Orsola andò subito a svegliare Pietro perchè potesse trovare il dottore in casa prima delle sue visite del mattino. Poi tornò al mio capezzale, mi diede da bere, mi baciò due o tre volte le mani con una passione muta e concentrata.

- E Alessio? - disse improvvisamente - il caro piccino non s'è accorto di nulla. Guarda come dorme!

Sollevò leggermente il velo sulla culla di mio figlio e me lo mostrò tutto roseo nel sonno. Provai allora un impeto tale di tenerezza che balzando fuori dal letto corsi alla culla e mi lasciai cadere in ginocchio lagrimando. Orsola, spaventata, temeva che fossi in preda al delirio della febbre. Per tranquillizzarla tornai a coricarmi, lasciandomi rinvoltare da lei nelle coperte con quella docilità che le faceva tanto piacere, e mettendomi colla faccia verso il muro continuai a piangere adagio adagio.

Quando venne il dottore non mi trovò una vera febbre, ma solo uno stato di grande eccitamento per il quale mi consigliò il riposo.

Non durai fatica a stare a letto tutto il giorno perchè ero desiderosa di solitudine, di silenzio, di una libertà piena e completa che mi permettesse di ritrovarmi colla mia coscienza. Volevo indagare la folla di pensieri contradditori che mi agitavano commisti a irritazione, a sdegno, a tristezza e a non so quale recondita oscura soddisfazione che non sapevo decifrare.

Anche una curiosità mi venne e insieme un timore. Quale contegno avrebbe Egli tenuto d'ora in avanti? Mi avrebbe chiesto scusa? Questo lo giudicavo indispensabile. Egli aveva mancato verso di me in tutti i modi, abusando della mia inesperienza, della mia solitudine e della mia fiducia in Lui. Era stato vile, era stato vile. Ma dovendo riconoscere questa terribile verità vedevo aprirmisi davanti un abisso. A chi avrei creduto d'ora in poi? Pensavo la mia umiltà ardente e mi vergognavo di averlo ammirato tanto, di averlo collocato nel mio pensiero al di sopra degli altri uomini. Era forse Egli niente più che un ipocrita?

Appena tale sospetto si venne formando dentro di me, appena il suono delle sillabe mormorate a fior di labbro si ripercossero contro le pareti del mio cervello, un urto di protesta mi scosse il petto, come se qualcuno conscio e vigile avesse gridato: No! - E per un po' di tempo ogni idea mi rimase sospesa, paralizzata.

La furia dell'uragano erasi intanto domata, non vinta interamente. Io vedevo il cielo e un lembo di collina attraverso le tende di velo della mia finestra. Il vento soffiava ancora ma meno impetuoso, gli alberi resistevano, alcuni sprazzi di azzurro apparivano qua e vincendo la collera delle nubi.

Alessio era venuto allora a salutarmi; avevo nelle mani la freschezza delle sue manine e sulle guancie il suo bacio un po' umido odorante di uva spina. Nel seguire cogli occhi la sua piccola persona che si allontanava pensai: Ecco un uomo! Così le idee ritornavano a pulsare nel mio cervello e mi parve di vedere mio cugino fanciulletto, a correre su e giù per le stanze della Querciaia.

No! - disse ancora la voce dentro di me.

Prendendo a esaminare la condotta di mio cugino da quel luminoso giorno di febbraio in cui mi venne davanti (lo rammentavo nella luce vampante delle cortine rosse) che cosa potevo io rimproverargli? Non era stato leale sempre? Sincero sempre? Per sei mesi continui Egli aveva portato l'elevazione nella mia anima. Sei mesi potevano bene bilanciare un'ora. Un sentimento nuovo, quasi di compassione tenera e materna sorgeva in me per quel torbido istinto maschile che fa vacillare i più forti - e insieme una gioia di essergli stata accanto nella prova, di sentire che potevo perdonargli. Innanzi a questo pensiero sbolliva l'ira.

Ciò che vi era di generoso nella mia risoluzione mi rialzò a' miei propri occhi e non dubitai che avrebbe ottenuto presso di Lui lo stesso effetto.

Le mie lagrime rincominciarono a scorrere, ma così dolci! Intravedevo già la sua confusione, il suo pentimento e la soavità di quell'istante in cui tutto sarebbe stato cancellato. Mi fermai a questo pensiero, perchè la mia piccola testa non reggeva a un lavorio così nuovo per essa. Avendo trovato un punto di sostegno e di consolazione mi vi abbandonai riposando per un po' di tempo in una specie di torpore benefico che somigliava al sonno.

Apersi gli occhi che già le ombre della sera invadevano la camera e mi prese il terrore che Egli venendo mi trovasse a letto. Saltai giù, mi vestii rapidamente, passai appena il pettine nei capelli, entrai nel salotto.

- Signore Iddio! - fece l'Orsola.

Alessio tutto contento corse ad abbracciarmi; Pietro udendo la mia voce, venne a darmi il buon giorno. Io li persuasi tutti che mi sentivo bene, che dal momento che non avevo febbre era inutile stare a letto. Volli pranzare e fui molto allegra, di un'allegria artificiale, come se avessi bevuto dello sciampagna. Però via via che il tempo passava, mi cadevano le parole. Ad ogni stridere di ghiaia in giardino, al più piccolo rumore indistinto trasalivo e mi prendeva una inquietudine che non mi fu possibile nascondere a lungo.

- Penso, signora (l'Orsola in presenza di altri, fosse pure solamente Alessio, non usava mai il tu) che avrebbe fatto meglio a non muoversi.

- Forse hai ragione.

- Vuol tornare a letto?

- Aspettiamo ancora un momento...

Tenevo Alessio contro i miei ginocchi mostrandogli le figure di un libro di storia naturale, ma ero agitata per modo che non riuscivo a voltare i fogli: a un tratto dissi:

- Deve essere ben tardi!

- Sicuro che è tardi - replicò la mia buona Orsola, insistendo nella sua idea - appunto per questo deve coricarsi.

Mi alzai, inquieta, senza rispondere e andai ad appoggiarmi al davanzale della finestra dalla quale si scorgeva il viale in tutta la sua lunghezza e le aiuole del giardino peste e malconce.

- Poveri alberi, poveri fiori, come sono ridotti! - esclamai compassionando essi e il mio cuore insieme.

- Il temporale di questa notte è stato una rovina. Due alberi furono sradicati a poca distanza di qui e il figlio dello scaccino che si trovava in istrada venne buttato a terra dalla furia del vento.

Queste notizie non erano fatte per calmarmi. Egli pure si trovava in istrada sotto la bufera; io stessa ve lo avevo cacciato! Una specie di rimorso si aggiunse alla mia inquietudine e rimasi cogli occhi fissi sul viale, incantata da una nuova visione di dolore.

Entrò Pietro colla lucerna accesa. Io dissi ancora:

- Ma è dunque ben tardi!

Dietro l'inquietudine, dietro il rimorso, ecco sorgere una malinconia acuta che mi dava al cuore delle strette di morsa. Perchè non veniva?... Vi fu un momento in cui Alessio seguì l'Orsola in cucina ed io tornai a precipitarmi col busto fuori della finestra come se avessi potuto attirarlo col desiderio. Perchè non veniva?

Il cielo era buio con poche stelle. Un'aria purissima, frizzante, tutta imbevuta dei fiori e dei rami recisi palpitava al di sopra degli alberi, sembrava il respiro stesso della notte adagiata ne' suoi umidi veli. Dopo tanti giorni di caldura opprimente quella freschezza appariva una benedizione. Ma perchè Egli non veniva?

A un tratto l'Orsola si presentò sulla soglia colla determinatezza di una risoluzione invincibile:

- Cara signora il letto è pronto.

Risposi opponendo una fiacca resistenza, mormorando: Sì, sì.... E mi indugiai a guardare i quadri appesi alle pareti, a raddrizzare un fiore nella giardiniera, a stendere sulle poltrone un ricamo gualcito.

Feci una sosta esterefatta innanzi alla pendola del caminetto; la sfera segnava nove ore. Nessuna illusione era più possibile.

- Andiamo - sospirai con un accento così debole che Orsola dovette indovinarlo più che sentirlo.

 




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