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Neera L'amuleto IntraText CT - Lettura del testo |
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Nevicava da tre giorni senza interruzione; un deserto bianco mi separava da ogni essere vivente. Sapevo da Pietro che le strade erano quasi impraticabili e mi parve una giustificazione sufficiente per mio cugino che non vedevo da due settimane, motivo per cui restai molto sorpresa una mattina, al trovarmelo innanzi. - Sono qui per combinazione - disse subito Lui - andai d'urgenza a chiamare il medico per la mia vicina che si trova agli estremi e pensai di entrare a salutarvi perchè chi sa quando potrò tornare. - Vi ringrazio, ma vi prego non datevi pena per me. - Le donne sono spesso puntigliose... Interruppi tranquillamente: - Non credo di avervi mai dato motivo di pensar questo. In ogni modo sappiate che vi giudico assoluto padrone del vostro tempo. Egli non rispose. Dominato da una eccitazione nervosa seguì il corso dei propri pensieri a voce alta dicendo: - Fanno veramente pietà. Vidi che era molto impressionato dalla malattia della sua vicina e gliene chiesi notizie. - Vi preme dunque di saperle? Credevo che non aveste simpatia per loro. - Io non le conosco e non le giudico. So che vi sono care e tanto basta per interessarmi ai loro dolori. Mi guardò intensamente per la durata di un secondo; abbassando poi gli occhi sul suo cappello dove stavano rapprese alcune falde di neve, disse: - La madre ha pochi giorni da vivere, la figlia resta sola al mondo. - Dio vegli su di loro! - esclamai con una commozione sincera. - Pregherò con tutto il mio cuore. Ancora un lampo de' suoi occhi, ancora un silenzio; indi: - Addio. - Arrivederci - mormorai con infinito dolore e tenerezza insieme. - Sì, arrivederci. Pentito di questa parola che gli parve troppo dolce soggiunse: - Non sarà tanto presto. Restai agitata per tutto il giorno in preda a una folla di sentimenti contradditorî. La mia immaginazione fatta all'improvviso veggente lo seguiva nel padiglione abitato dalle due straniere; scorgeva la madre abbattuta nel suo letto; la figlia desolata, smarrita - e Lui dividersi fra l'una e l'altra. Oh! certo, esse dovevano amarlo. Una stretta al cuore mi avvertiva che il sacrificio non era ancora consumato, che avrei dovuto spargere ancora molte lagrime segrete e soffocare molti desideri ribelli. L'indomani mandai Pietro a chiedere nuove dell'inferma. Stava male. Allora ci unimmo tutti, io, Pietro, Orsola e il mio piccolo Alessio e recitammo la preghiera degli agonizzanti. Quando l'ebbimo finita io dissi: Preghiamo ancora perchè questa madre, se Dio lo permette, sia conservata alla sua creatura. L'Orsola mi si fece accanto e accostando al mio orecchio le labbra tremanti sussurrò: - Sarai benedetta, Myriam. - Oh! perchè? - feci io turbata, sentendomi salire al volto un rossore improvviso. La mia buona vecchia non rispose, e siccome la vidi chinare la fronte sulle palme congiunte pensai ch'ella pregasse per me. Verso il tramonto un merciaiuolo ambulante al quale Pietro aveva consegnato delle stoviglie da accomodare ci avvertì che la signora forestiera era morta e che la figlia abbandonata sul cadavere pareva volesse seguirla, tanto era l'eccesso della sua disperazione. - Non c'è nessuno che la conforta? - chiesi. - Chi vuol mai! La Querciaia è affatto isolata e quelle signore non le conosce anima viva. Io lo so perchè passo di là colla mia merce. Mi guardai attorno, guardai fuori dalla finestra nel deserto di neve, guardai in alto il cielo quasi bianco. Povera fanciulla! Il merciaiuolo intanto si disponeva a continuare il suo viaggio e già si era posto sulle spalle il suo carico quando io gli chiesi se avrebbe potuto mandarmi prima di notte una carrozza. Mi rispose di sì e in mezzo alla stupefazione di Orsola e di Pietro gli ordinai di condurmela subito senza perder tempo. Baciai Alessio che si era aggrappato alle mie gonne e che si pose a gridare: - Mamma, perchè piangi? Io non lo sapevo; non mi ero accorta di piangere. Feci i miei preparativi con una grande commozione, avvertendo che avrei condotto a casa l'orfanella per quella notte e raccomandando all'Orsola di apparecchiarle una camera. Quando giunse la carrozza vi salii, seguita dai consigli dei miei buoni vecchi che mi esortavano a ripararmi bene e a tenere chiusi i vetri. Poco più di mezz'ora ci separava dalla Querciaia ma ne impiegammo quasi il doppio a rompere una via in mezzo alla neve che il freddo intenso aveva congelata e sulla quale volavano affamati e rattristanti i pochi superstiti di una tribù di corvi. In quel paesaggio squallido, non più velato dalle folte piante e dai rosai, la Querciaia mi apparve colla sua strana architettura multiforme di rôcca e di convento insieme. Feci fermare dinanzi alla porticina del padiglione che mi venne aperta da mio cugino in persona. - Voi! - esclamò, e nessuna parola potrebbe esprimere ciò che vi era di sovrumano nel suo accento e nel suo sguardo. In piedi, sulla soglia, circondata da un fitto nuvolo di neve, io non sapevo come spiegare la mia presenza. Fu Lui che mi prese per la mano con dolce impero e rapidamente, in poche parole, ci intendemmo. Mi guidò presso la fanciulla che si trovava in uno stato compassionevole e che mi guardò senza stupore ricevendo le mie prime parole con una atonia di persona che il dolore rende quasi demente. La camera dove si trovava era nuda, gelida; vi era stato acceso il fuoco evidentemente ma nessuno lo aveva alimentato. Osservandola non mi parve più quella elegante figura che avevo intravista un giorno in chiesa. Aveva le treccie sciolte e scomposte, le mani pavonazze per il freddo; un tutto insieme di abbandonato, di scorato, di fuori di sè, che trovò subito la via della mia pietà. Se qualche sentimento poco nobile e poco puro mi aveva altre volte turbata cessò in quel punto, davanti a quella vera tristezza. Mio cugino che mi guardava intensamente si accorse di ciò che si svolgeva nel mio interno. Prese una mano della fanciulla e ponendola nelle mie mani le disse con calore: - Fidatevi di lei! È un'amica. Non si era potuto piegarla nè al riposo, nè al cibo; non c'era lì accanto una sola famiglia che potesse ospitarla, non una sola donna che la accarezzasse. La notte si avanzava terribile e paurosa in queste condizioni. Mi chinai sulla poveretta mormorando con quanta maggior dolcezza mi fu possibile: - Volete venire con me? Ella fece un balzo e mi guardò sbigottita. - Non temete - soggiunsi - sono madre. A queste parole ruppe in un gran pianto e mi nascose la testa in seno. A poco a poco riuscimmo a persuaderla. Mio cugino le promise che non avrebbe abbandonata la casa, che la salma sarebbe stata vegliata religiosamente. Così cedette e ripartii insieme alla fanciulla, nella carrozza chiusa, attraverso il deserto di neve che formava una ben degna cornice ai nostri due dolori. Mio cugino restò sulla soglia finchè la carrozza scomparve. L'ultima espressione che mi restò della sua fisionomia fu quella di una serietà infinitamente dolce. L'Orsola aveva preparato un buon fuoco e dei cordiali. Ella mi aiutò efficacemente a sostenere e a confortare la derelitta al primo arrivo. Più tardi, quando l'ebbi condotta nella sua camera e che il sonno venne finalmente a calmarla, quando la vidi riposante e sicura sotto il mio tetto, affidata a me, protetta da me, una larga onda di dolcezza mi invase e pensai che Lui in quello stesso momento doveva essermi vicino coll'anima.
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