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Vittorio Alfieri
Del principe e delle lettere

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CAPITOLO TERZO.

 

Che le lettere nascono da se, ma sembrano abbisognare di protezione al perfezionarsi.

 

Ella è passione innata nell’uomo, soddisfatti appena i bisogni di necessità, il volersi distinguere dagli altri, col far meglio e maggiori cose in altrui e proprio vantaggio. Fra le nazioni selvatiche, questo amor della gloria si manifesterà nel voler l’uomo farsi miglior cacciatore o pescatore, che niun altri; fra le guerriere, miglior soldato; fra le colte, miglior politico, filosofo, istorico, poeta, &cc.

Ciò posto, il primo impulso alle lettere, come ad ogni altra bell’arte, egli è pur sempre quel naturale innato desiderio di distinguersi: e questa umana passione si dee posare per prima e vera base d’ogni arte. Ma, se nei diversi individui questo desiderio, benchè per se stesso fortissimo, basti solo a far loro perfezionare le lettere, pare problematico; e dai più degli scrittori, e massimamente nel principato, è stato deciso e creduto il no. Io sarei di contrario avviso; e tenterò di provarlo, discutendo appieno una tal questione. Questa, a parer mio, è una delle tante cose che paiono, a chi non ci si profonda ben addentro; e che non sono, a chi vuole molto riflettervi. Si dice ogni giorno: «Quel giovinetto ha certamente sortito dalla natura un grandissimo talento per la poesia; ma egli nasce di parenti non ricchi, che lo sforzano a tirarsi innanzi colle leggi, onde non la potrà mai coltivare». A ciò rispondo io, domandando: «Codesto giovinetto, è egli povero a segno di dover accattare? non è». Dunque i primi bisogni di necessità non lo incalzano. Prosieguo, e domando: «Ha egli ricevuto quella bastante istruzione, per cui l’uomo si mette in grado di poter far da se stesso? benissimo ha fatto e con somma lode i suoi studj; che se altrimenti fosse, mera temerità sarebbe la nostra il giudicarlo capace di poter egli mai scrivere eccellentemente. Ciò basta; conchiudo io; e s’egli ha veramente quel genio, che voi gli supponete, quel genio lo infiammerà e lo costringerà più assai al far versi, che non la necessità, o il garrire del padre, allo studiare e professare le leggi. E così fecero il divino Petrarca ed il Tasso, ed Ovidio per dir degli antichi, ed altri ch’io taccio. Se dunque è nato per esserlo, si farà codesto vostro giovinetto un eccellente poeta mal grado di tutti, perchè natura può più di tutto».

Ma spessissimo il mezzo ingegno e il debile impulso vengono scambiati colla ispirazione vera; e perciò si piange tante volte in erba la fama di molti futuri grandi uomini, soffocati, per quanto si dice, dalle loro avverse circostanze, i quali, se le avessero avute favorevoli, avrebbero smentito una sì dolce aspettativa. Ciò mi fa credere, e non senza ragione, che la protezione possa bensì giovare agli ingegni mediocri, i quali per mezzo di essa poco danno, ma niente affatto darebbero senz’essa; ma che ella sia assolutamente nuociva ai sommi ingegni, in quanto questi assaissimo più darebbero se non l’avessero. E ritroviamo anche di ciò negli esempj le prove. Dante non fu protetto: che poteva egli dar di più? Mi si dirà forse: «Più eleganza»: ma egli ebbe tutta quella che comportavano i tempi suoi; e l’ebbe di gran lunga superiore a tutti i suoi predecessori, che scritto aveano nella stessa sua lingua. Ma Orazio e Virgilio furono protetti: e diedero perciò quel tanto di meno, che la dipendenza e il timore andavano ogni giorno togliendo alla energia già non moltissima degli animi loro. Mi si opporrà, che Dante in una corte ripulita e delicata come quella d’Augusto non avrebbe adoprato tante rozze e sconce espressioni. Rispondo, che questo può essere: ma soggiungo, che Virgilio ed Orazio fuor di tal corte, non si sarebbero contaminati di tante vili adulazioni e falsità. Qual è peggio?

È anche vero però, che forse costoro nulla affatto avrebbero scritto, se non fossero stati protetti da Augusto: ma che si verrebbe egli con ciò a provare? che il loro impulso era debole e secondario. Orazio stesso sfacciatamente e ingenuamente lo dice, parlando di se:

 

Paupertas impulit audax,

Ut versus facerem. Sed, quod non desit habentem,

Quæ poterunt unquam satis expurgare cicutæ,

Ni melius dormire putem, quam scribere versus?2

 

Chiaro è, che un autore che dice questo di se stesso, e che riconosce per primo motore del suo poetare la necessità, e che sovrana felicità reputa il non far nulla, non si sente certamente mosso da nessuna effervescenza d’animo, e non ha sublime il carattere, infiammato il cuore: e quindi non sublimerà egli mai il carattere, infiammerà mai il cuore di chi lo legge. Orazio dunque, con un sì fatto motore, dovea scrivere con molta eleganza debolissimi pensieri: e così in fatti scrisse, e così pensò; perchè era nato per così scrivere e così pensare. Ma Dante, dalla oppressione e dalla necessità costretto d’andarsene ramingo, non si rimosse perciò dal far versi; con laide adulazioni, con taciute verità avvilì egli i suoi scritti e se stesso. Quella necessità medesima, che sforzava Orazio allo scrivere, e non gli permetteva di esser altro che leggiadro scrittore, quella stessa necessità non potea pure impedir Dante di altamente pensare, e di robustissimamente scrivere. Diversi dunque, e d’assai, erano per loro natura gli animi di codesti due scrittori.

Ma, che vengo io da questa lunga digressione a concludere? che la protezione principesca può forse giovare, o almeno non nuocere, alla perfezione delle lettere quanto alla lingua, e all’eleganza dei modi; ma che alla perfezione vera di esse, la quale nella sublimità del pensare, e nella libertà del dire si dee principalmente riporre, non solamente non giova, ma espressamente nuoce ogni qualunque dipendenza; cioè ogni protezione: eccettuandone però sempre quella, che accorderebbe una vera repubblica, non per capriccio o favore, ma per giusta, ragionata, e imparziale generosità. Un uomo che scrive per giovare veramente al pubblico, può, senza arrossire, ricevere ricompensa da quel pubblico che veramente si trova beneficato da lui. Ma, come mai può egli riceverla da un potente, il di cui interesse è per l’appunto l’opposto di quello del pubblico? e come mai può accordargliela quel potente? Ecco il come: se lo scrittore avrà falsificato le cose agli occhi della moltitudine; ed in ciò egli avrà manifestamente meritato l’odio o il disprezzo di essa: ovvero, se avrà minorata la verità, per compiacere al potente: ovvero, se l’avrà mascherata e anche affatto taciuta, per non offenderlo. Costui dunque, nei suddetti casi, come timido e vile ch’ei fu, non può mai drittamente pretendere ad acquistarsi vera fama fra gli uomini: ma, per altra parte, se non si è mostrato timido vile, non può certamente mai temere di essere ricompensato dal principe.

Ed in prova che le lettere protette parlano e influiscono diversamente dalle non protette, e a voler vedere quali maggiormente giovino agli uomini, si esamini una sola formola, usata da entrambe diversa in parità di circostanze. Le lettere, sotto un principe che le protegga, e che anche le lasci alquanto sfogare, vengono riputate molto ardite, e il letterato pare un uomo di gran nervo e coraggio, allorchè si osa pronunziare in qualche libro, o predica, o altra pubblica orazione, le seguenti parole: «L’ignoranza è al fine apertamente combattuta e vinta; è giunto quel felice momento, in cui si ardisce arrecare la nuda verità ai piedi del trono &cc.». La verità ai piedi dell’errore, e dell’inganno? la verità, che sussistere non può, trionfare, se non distruggendogli entrambi? Si può egli concepire un’idea più falsa, una frase più adulatoria ed iniqua? All’incontro, le lettere non protette, e il veramente libero letterato, sarebbero pure costretti di dir così: «È giunto al fine, o dee farsi giungere, quel felice momento, in cui la nuda verità semplicemente manifestata ai popoli oppressi, viene da loro riposta sul trono, ove sola dev’essere, e sovra tutti indistintamente, per via delle giuste leggi, sola regnare». Questo pensiero (anche rozzissimamente espresso, se pure mai lo può essere) paragonato coll’altro, che fosse anche esposto dallo stesso Cicerone, non proverà egli ampiamente, che le lettere sono assai più perfette e più utili dove così parlano, che non dove parlano nel modo contrario?

Io dunque conchiudo in questo capitolo; che pare che le lettere abbisognino di protezione al perfezionarsi, ma che così non è; dovendosi sempre intendere per vera perfezione d’una cosa qualunque, il maggior utile ch’ella arrechi a un più gran numero d’uomini. E non solamente dico, che le lettere non protette dal principe possono arrecare più utile a un maggior numero d’uomini, ma che le sole non protette lo arrecano veramente; in vece che le protette, sotto l’aspetto di giovare, assaissimo nuocono; poichè tolgono allo scrittore, e quindi al lettore, la facoltà di spingere quanto più oltre egli possa il suo pensare e ragionare; e poichè in somma, con quella loro nuda eleganza e felicità di stile, elle danno credito e perpetuità a mille errori politicamente dannosi e mortiferi.

 

 

 




2 L’audace povertà mi spinse a far versi: ma se io mi ritrovava agiato, qual elleboro sarebbe mai bastato a guarirmi di tal mattezza, di non preferire il dolce sonno al far versi? Orazio, lib. II. epist. II. ver. 51.






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