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Vittorio Alfieri Del principe e delle lettere IntraText CT - Lettura del testo |
Che il lustro momentaneo si può ottenere per via dei potenti;
ma il vero ed eterno, dal solo valore.
Io non saprei dar principio migliore a questo capitolo, che citando alcune parole di Tacito. Meditatio et labor in posterum valescit; canorum et profluens, cum ipso scriptore simul extinctum est.4
Non credo io, nè pretendo asserire ed espor cose nuove; benchè forse non siano state trattate finora con questo stesso ordine: anzi, a me pare, che i medesimi artefici, così delle lettere, come delle arti, le sappiano tutte, quanto e più di me. E così mi fo io a credere, perchè altro non si legge nelle loro vite, fuorchè ora gli uni per compiacere ai principi protettori li lodarono non gli stimando; ora gli altri ricevettero da essi il tema dei loro poemi, libri, o quadri; questi lasciarono guastare i proprj disegni di templi, di palazzi, di pubbliche moli, dal capriccio, dall’ignoranza e presunzione dei protettori, ordinatori, o pagatori di esse: e tutti si vedono, in somma, aver sempre maladetto l’ora e il momento e la necessità, (dicon essi) che gli avea condotti a impacciarsi con gente che nulla intendendo, e tutto potendo, assai più atta riesce ad atterrire che a consigliare altrui.
Da codeste loro stesse moltiplicate e giuste doglianze, io dunque ne ritraggo la certezza, che gli uomini per lo più, anche riflettendo, e conoscendo, e palpando la vera cagione delle cose, pure ci si ingannano poi se medesimi; e rimane lor dubbio tuttavia se sappiano essi o no, che pur vi si ingannano. Questo accade semplicemente, perchè i più degli uomini non vogliono riconoscere nel presente il passato, e nel passato l’avvenire: o, per dir meglio, perchè non vogliono essi per lo più veder altro che il presente, ed anche male osservarlo.
E la ragione trivialissima, messa in campo da tutti; che il presente ci tocca assai più da presso; non si può assolutamente tollerare in bocca di nessun artefice di cose grandi: d’un uomo cioè, in cui suppongo, e deve albergare, una nobile e ardentissima fiamma d’amor di gloria, la quale, se non sola, almeno prima motrice a lui sia. Che se il poeta, l’oratore, o lo storico, o il filosofo, ardiscono pur pronunziare, ch’essi hanno bisogno di pane, con viso giustamente adirato rispondono loro i non vili: «E perchè dunque, abbisognando di pane, non vi destinaste voi da prima ad una qualche opera servile di mano? più certo era il pane; non era infame il mezzo; e non avreste così dovuto arrossire in riceverlo».
Ma, ben mi avveggo che dai più degli uomini, sotto il nome sacrosanto di pane, si ricercano, e vogliono acquistarsi molti superflui comodi. Così, sotto il nome di fama, null’altro si va cercando dai più che un’aura passeggiera di vana glorietta, per cui correndo il loro nome per bocca dei loro contemporanei, accarezzati e considerati da essi ne vengano. E questa effimera distinzione, a cui non so qual nome si aspetti, per mezzo di una mediocre virtù protetta da una assoluta potenza, si ottiene. Ma il tempo, vendicator d’ogni torto, la riduce anche in polve ben presto, insieme colla stolta superbia e colla debile fama del protettore.
L’uomo che è nato capace d’esser sommo in un’arte, se alla naturale capacità egli aggiunge la tenace risoluzione di volersi far tale, io credo che prima d’ogni altra cosa egli debba piacere a se stesso; e per ciò, innanzi tutto, conoscere, stimare, e temere se stesso. Gli altri, sono uomini anch’essi; ma i più son minori di lui, e i pochi suoi eguali, o sono da invidia e da altre passioncelle acciecati, o essendo in tutto dediti a speculazioni diverse dalle sue, raramente sono giudici competenti, illuminati, e caldamente spassionati, dell’arte sua.
Il bello, sinonimo perfettamente del vero, è uno in ogni arte: ciascun uomo più o meno lo sente; ma chi può mai tanto sentirlo, quanto colui che lo può eseguire? Mille ostacoli impediscono il retto giudizio degli altri; ma, freddato interamente quell’impeto che allo scrittore era necessario pur tanto al creare, nulla può impedire in appresso il suo retto giudizio su le proprie opere; purchè soltanto egli voglia giudicarle da quella prima impressione che ne riceve il suo intelletto nel rileggerle, o farsele rileggere, allorchè non sono più affatto presenti alla di lui memoria. Il che può accadere facilmente a quel tale scrittore che avrà il savio metodo di far succedere l’una sua opera all’altra, per modo che lungamente le prime riposino. Ma, e dove vò io d’una in altra cosa saltando? al mio fine vò sempre; e troppo l’ho io nel cuore, perchè dalla mente ei mi sfugga. Il sommo artefice, cioè l’imitatore e ritrattore della natura, più forse quale ella potrebbe essere, che quale ella è pigliandola a parte a parte; l’artefice, dico, dee ascoltar quasi tutti, e non dispregiar mai nessuno; ma, formato ch’egli ha se stesso su gli ottimi che lo han preceduto, dee, più che ad ogni altro, piacere a quegli ottimi, e a se stesso; e ciò necessariamente importa, che egli piacerà poi a venti nazioni, a venti generazioni di uomini, in vece di piacere alla parte guasta di una. Né il sommo artefice dee così fare per orgoglio, ma per l’intima conoscenza del cuore umano ch’egli avrà acquistata leggendo, riflettendo, e pesando le passate cose; e per una intima conoscenza di se stesso, e delle proprie forze, ch’egli avrà acquistata esercitandole, e comparando se ai grandi di cui legge, e le cose sue alle loro, e le loro vicende alle sue. Ed ecco come il sublime sguardo dell’uomo che sommo vuol farsi, vede e misura ad un tratto il passato, il presente, e l’avvenire; conosce se stesso negli altri; gli altri in se stesso; e la natura, la verità, il retto, ed il bello conosce nella loro maggiore estensione, per quanto ad uom si conceda. Ora, un artefice che così fattamente pensa, si lascierà egli proteggere nell’esercizio di un’arte per se stessa sublime, a cui vede palpabilmente dagli esempj passati che la protezione ha arrecato minoramento di fama, e nel suo autore, e nell’opera? E colui, che ha necessità di appoggio per sostentarsi, può egli avere spinto tant’oltre il suo imparziale ragionare e riflettere? ed essendosi pure spinto fin là, non sceglierà egli piuttosto ogni altra via, che quella di un’arte sublime, per procacciarsi il più infimo indispensabile sostentamento?
L’uomo, che con qualche dritto si lusinga di conoscere il vero, e che si sente il nerbo di esporlo con forza ed eleganza, o dee avere il bastante per vivere, o contentarsi del pochissimo, o rinunziare all’impresa, o guastarla.
Ma io dicitor di paradossi parrò, se esemplificando non provo, o almeno non identifico il mio pensiero. «La fama di Virgilio è somma; chi non se ne appagherebbe? chi l’ha agguagliato, non che superato? ed egli era pure protetto e pasciuto da Augusto.» Rispondo: «La fama dei libri di Virgilio è somma; e tale, quasi per tutti i lati, la meritano; e quelle parti di essi, che possono essere combinabili colla timidità dell’autore, e coll’avvilimento della sua dipendenza, vi si scorgono tutte perfette; sceltezza e maestà di parlare, varietà e imitazione d’armonia, vivacità di colori, evidenza, brevità, costume, e mill’altre: ma la principalissima parte d’ogni scritto, che dee essere (per metà almeno) l’utile misto col dilettevole; quella parte divina, che ha per base il vero robusto pensare e sentire, totalmente quasi manca in Virgilio». Alle prove. Discende Enea nell’inferno, e gli vien fatta la rassegna dei grandi uomini che sono per illustrar Roma, e per farla poi un giorno signora del mondo. Quale scrittore di verità, qual pensatore, qual gelido cronologista per anche, si attenterebbe fra questi di mentovarvi primi Cesare ed Augusto? e di mentovarli con ben altre lodi, che gli Scipioni, i Regoli, i Fabrizi, ed i Fabj, i quali seguono col misero corredo di pochissimi versi. Non contento di ciò, Virgilio spende diciannove altri eccellenti e toccantissimi versi per far menzione d’un Marcellotto nipotino d’Augusto, morto nell’adolescenza, il quale sarebbe affatto sconosciuto, se non era la vile sublimità di quei versi. Ma, per Catone, un mezzo verso basta a Virgilio; tre soli per Giunio Bruto; nè una parola pure per Marco Bruto. Molti altri grandi vi sono appena accennati; moltissimi preteriti del tutto, e fra questi (chi ’l crederebbe?) il gran Cicerone; perchè quel sommo oratore recentemente allora caduto era vittima di quella stessa tirannica mano d’Augusto, che, sanguinosa ancora e fumante del sangue dei cittadini romani, pasceva ed avviliva il niente romano poeta. Anzi, Cicerone dalla codardia di Virgilio viene espressamente insultato con quelle infami parole: Orabunt (alii) caussas meliùs;5 nelle quali uno scrittore latino eccellente, con vile e menzognera sfacciataggine, gratuitamente accorda la palma della eloquenza ai Greci, o a chi la vorrà; e ciò soltanto per toglierla a Cicerone. Il lettore, a tai passi, ripieno di giusta indegnazione, è sforzato a gridar fra se stesso: «Ecco il pane di Augusto; ecco l’utile, che arrecano i principi protettori alle lettere; ecco l’inganno, la viltà, e l’errore, che non mai da essi, nè dai clienti loro, scompagnare si possono».
Parmi innegabile, che Virgilio in questo luogo, e in mille altri simili, abbia voluto piacere ad Augusto più che a se stesso; e che in ciò solo abbia ardito scostarsi da Omero, il quale non tradì mai il vero e se stesso per adular chi che fosse; e che poco si sia egli ricordato della grandezza di Roma, e meno curato della propria fama fra i posteri. Virgilio dunque, nell’atto di scriver tal cosa, o non sentiva, o, (che peggio è) sentiva egli e tradiva l’importanza del sublime suo incarico fra i suoi coetanei; di essere il poeta nazionale di un popolo, il primo che mai fosse stato sul globo, e che ridottosi allora schiavo di fresco, non ne era ancora certamente divenuto l’ultimo. Virgilio non conoscea dunque se stesso, poichè non si supponeva da tanto, di potere, con la bellezza ed energia del suo verseggiare divino, riaccendere a libertà e a virtù quel popolo, qual ch’ei si fosse. E se egli anche non potea pure lusingarsi di tanto ottenere, un poeta veramente romano avrebbe soddisfatto almeno a se stesso, alla patria, e alla fama e gloria d’amendue, col solamente tentarlo. Ma, potremmo noi credere mai, che Virgilio, quel sovrano scrutatore degli umani affetti, queste cose tutte al par di noi non sapesse? no certo. Eppure ei fece il contrario; e perchè? perchè non seppe, o non ardì egli conoscere e stimare se stesso. E perciò egli ha fatto il suo libro assai minore di quello che avrebbe pur potuto e dovuto essere; e perciò egli ha fatto se stesso minor del suo libro.
Se egli dunque non avesse avuto nell’animo quella viltà, che sempre dà il pane principesco, assai maggiore sarebbe stato egli stesso, e quindi assai maggiore il suo libro. Che niuna cosa non viene chiamata mai somma, finchè si ha pure idea di un meglio, eseguibile. In un poema che ha per titolo, ROMA; quale, senza però darglielo, ha preteso di fare Virgilio; egli vi poteva e dovea inserire, per la parte robusta pensante e giovevole, una grandezza, verità, libertà, e forza, che invano vi si cercano. Virgilio dunque ha tradito in ciò la gloria di Roma, scambiandola (e non a caso) con quella dei Cesari; e ad un tempo stesso egli ha di gran lunga menomato la propria. E tutto ciò, perchè Virgilio non ha pienamente conosciuto, o voluto, o ardito conoscere, stimare, e piacere a se stesso.
E questa parola SE STESSO, ch’io tanto ribatto, si dee talmente dall’artefice in tutta la sua immensità immedesimare colla parola VERO, che quando egli dice dopo il maturo esame d’una opera sua, come d’una altrui, NON MI PIACE, equivaglia ciò per l’appunto al dire, NON CI È IL VERO: con quelle picciole restrizioni però, che le facoltà limitate dell’uomo richiedono pur sempre; ma, che non sostituiscono tuttavia mai il falso al vero.
Alcuni, per distruggere in una parola quanto io finora ho ragionato intorno a Virgilio, diranno; che egli non avrebbe forse scritto nulla, senza la protezione d’Augusto. Rispondo; che così può essere, e ch’io stesso così credo; e che a ogni modo noi dobbiamo pur essere molto tenuti ad Augusto di un tanto poema, in cui ciò che manca non si suol mettere in contrappeso dai più con tutto quel che vi abbonda. Gli amatori principalmente di poesia, che con tanto trasporto leggono e debbon leggere l’Eneide, così dicono; e così debbono dire. Ma chi specula in grande, è sforzato a giustamente conchiudere, che il bene di una cosa non ne toglie però il male; e che dovendosi cercare, per quanto è possibile, sempre quella perfezione che sta sola nel maggior utile, indispensabilmente ella si dee sempre originare o dalla schietta verità, o dalla finzione che venga a concludere in qualche utile verità. Quindi, anche gli amatori più caldi di Virgilio (e mi vanto io d’esser uno di quelli) debbono pur confessare, se intendono ed amano il vero, che Virgilio, nato cent’anni prima con le stesse sue doti, avrebbe fatto di tanto migliore il poema, di quanto quella Roma era miglior della sua; ovvero, che essendo anche nato sotto Augusto, se egli, provvisto delle prime necessità, avesse avuto sì fatta altezza nell’animo di tornarsene a scrivere liberamente il poema nella sua nativa palude, e che scrivendolo avesse avuto sempre in vista di piacere al vero e a se stesso, Virgilio in tal modo sarebbe pervenuto a piacere e a giovare assai più a’ suoi coetanei, e a’ suoi posteri: e tessuto avrebbe un poema tanto maggior di quel suo, quanto l’animo, i costumi, la vita, e la sublimità d’un vero saggio indipendente avanzano i costumi, la vita, e la bassezza d’un tiranno, e dei suoi cortigiani.
Quale romana storia agguagliare si potrebbe ai più luminosi e forti tratti di essa, espressi coi sublimi versi di Virgilio? A far rinascere Romani in Italia, quali insegnamenti più alti e più caldi si potevano mai lasciare ai venturi giovanetti, che le imprese dei Bruti, dei Fabj, e dei Deci, da Virgilio pennelleggiate? E se i diciannove versi da lui consecrati ad eternare la nullità di un Marcelluccio cesareo, con miglior senno consecrati gli avesse ad un Regolo, o ad uno Scipione romani, la immensa, e purissima gloria che glie ne ridonderebbe da tanti secoli; la soddisfazione, più cara ancora che la gloria, di avere con egregio stile laudata la egregia virtù; non gli sarebbero elle state più nobile e desiderabil guiderdone, che non quella disonorante mercede di non so quanti talenti da Livia donatigli? I versi eccellenti, consecrati a lodar la virtù, hanno la loro mercede in se stessi. Nessuno eroe romano ricevea mai guiderdone di danari dalla patria sua per aver fatto una nobile impresa; ed ardirebbe riceverla colui, che degnamente cantandola si mostra degno e capace di bisognando eseguirla?
L’amore dunque della fama presente e non vera, spesso fa perdere, e talvolta scemar, la futura, che sola è verace, e durevole. I sommi scrittori lascino per tanto ai mediocri godersi questa picciola e momentanea fama, che è veramente la loro, poichè se ne appagano, e poichè dalla altrui potenza si ottiene. Ma essi, caldi proseguitori della vera fama che sta in loro stessi, e che dal vero e dal tempo soltanto si ottiene, nessuno altro termine pongano alla loro virtuosa e nobile brama di giovar dilettando, se non se la infinita serie delle future generazioni. E sempre abbiano presente, che un Omero ha dato e vita e fama perenne ad Achille; ma che nessuno Achille mai, non che un Omero creare, bastato sarebbe colle proprie forze a dar vita e perenne fama a se stesso.