Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Vittorio Alfieri Del principe e delle lettere IntraText CT - Lettura del testo |
CAPITOLO SESTO.
Dell’impulso naturale.
Annoverate ho finora tutte le diverse classi di uomini sommi, che siano da noi conosciute: letterati, scienziati, politici, legislatori, artisti, capitani, capi-setta, santi; e per anche v’ho incluso i principi stessi; per quanto mai possa esser grande questa specie, che tanti grandi uomini d’ogni sopraccennato genere impedisce e distrugge. Ma, di quanti ne ho annoverati, di tutti dico, che sommi veramente non furono mai, nè sono, nè saranno, nè potranno mai essere in nessuna delle nomate classi coloro, che a divenir sommi non avranno avuto per prima base l’impulso naturale.
È questo impulso, un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova mai pace, nè loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria; un reputar sempre nulla il già fatto, e tutto il da farsi, senza però mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non essere nulla.
Più laudevole e maggiore debb’essere questo impulso, in proporzione della grandezza del fine che egli si propone, e della grandezza dei mezzi che adopera per conseguirlo. Ma da questo immoderato amore di giovare a se stesso con la gloria, non dee nè può mai andarne disgiunto l’amore dell’utile altrui. Da questo utile, ampiamente provato coi fatti, si aspetta poi in premio quella testimonianza della propria superiorità, che spontaneamente uscendo dalle bocche degli uomini liberi, sola costituisce la vera fama e la gloria di chi n’è l’oggetto. Ardirei pure aggiungere, che i semi per così dire di una tale testimonianza già stanno nel cuore e nell’intelletto del grande, che veramente n’è degno; ma, che il solo pubblico grido li feconda poscia e sviluppa.
Questo divino impulso è una massima cosa, senza la quale nessun uomo può farsi sommo davvero. Ma non perciò tutti quelli che l’hanno (e son sempre pochissimi) riescono a farsi sommi davvero: che pur troppo questo divino impulso può essere dai tempi, dall’avversa fortuna, e da mille altre ragioni, indebolito, deviato, trasfigurato, ed anche spento del tutto. Quest’impulso è una sovrana cosa, cui niuna potenza può dare, ma ogni potenza bensì lo può togliere. La libertà lo coltiva, lo ingrandisce, e moltiplica; il servaggio e il timor lo fan muto. Quindi tanti uomini grandi sviluppansi nelle vere repubbliche, così pochi e di tanto minori, nei principati; ancorchè dei capaci di farsi tali ve ne nascano pure. Quindi i grandi in repubblica son sempre grandi di più utile e vera grandezza, che i grandi nel principato: quindi gli uomini, quasi eguali e simili per loro natura in ogni contrada, riescono così diversi da nazione a nazione, e da tempo a tempo fra le nazioni stessissime: quindi, in somma, si vedono fra i popoli tenuti già barbari sorgere le stesse virtù e grandi opere, di cui più non si vede nè l’ombra pure fra i popoli, che già colti e liberi, rimbarbariti ora dalla servitù se ne giacciono. Lo stesso impulso naturale che creava uno Scevola in Roma nascente, creava un Decio in Roma perfetta, un Gracco in Roma già guasta, un Mario in Roma morente, un Giulio Cesare in Roma già spenta; e forse anche un Sisto quinto in Roma ecclesiastica. Ora, chi potrà dubitare, che (mutati costoro di tempi) Cesare, con quella stessa smisurata ambizione che lo sforzava a farsi da più degli altri, nato nei tempi della prima libertà, non potendo primeggiare in potenza, non avrebbe, come Scevola, voluto soverchiar gli altri tutti in virtù? e che Scevola, nato ai tempi di Cesare, vedendo la virtù inutile e vinta, non avrebbe come egli cercato la maggioranza e la fama nella sola usurpata potenza?
Ma, parlando io quì delle lettere più che di ogni altro genere di umana grandezza, mi conviene dimostrare quale e quanta influenza abbia sovr’esse questo naturale impulso negli scrittori. Ed è questo un raro e prezioso privilegio delle lettere sovra tutti gli altri rami della umana grandezza, che chi ha veramente questo impulso, e, avvedendosene in tempo, sottrar lo sa dalle ingiurie e danni che arrecare gli possono sì l’altrui autorità e protezione, come il proprio ozio, bisogno, e timore; quegli può fare ogni più eccellente e somma cosa da se stesso. Questa divina arte dello scrivere, ella è pure innegabilmente per se medesima la più indipendente di tutte, come già ho dimostrato nel libro secondo; e la più innocente ad un tempo, poichè a nessuno può recar danno, se non al vizio; e la più utile in somma, poichè a tutti può, e dee voler sommamente giovare, Quindi è, che al fare, per esempio, la grandezza di Giunio Bruto, erano necessarj i Tarquinj tiranni, Lucrezia stuprata, Collatino giustamente disperato, il furore dei cittadini, il molto sangue sparso e nel foro e nel campo, e la uccisione in fine dei proprj figliuoli di Bruto; cose tutte lamentevoli, e lungamente riuscite dannose, prima che l’utile ed il bene ne ridondasse: ma, al fare la grandezza di Omero, null’altro era necessario che Omero stesso, e il naturale suo impulso.
Il primo obbligo dunque di chi si destina scrittore, egli è d’imparare a conoscere in se stesso questo sublime impulso, e, conosciuto, a dirigerlo. Appurando così i proprj suoi mezzi, ove egli senta vivamente in se stesso la evidente certezza di un tale impulso, fermamente dee credere che egli tutto farà da se stesso; e che ogni protezione potrà nuocergli, e nessuna giovargli.
Ma, come potrà il candidato scrittore conoscere se egli abbia, o no, questo impulso? dai seguenti sintomi. Se egli, nel leggere i più sublimi squarci dei più sublimi scrittori, altro non sente nascere in se che commozione e diletto, egli è come i molti che stupidi non sono; se vi si aggiunge la maraviglia, egli può giustamente riputarsi qualche cosa più; ma però ancora minore dello scrittore ch’egli ha fra le mani, e delle descritte cose; e quindi egli è nato soltanto per leggere, e pensare da se: ma, se egli, in vece della semplice maraviglia, si sente a quella lettura accendere nel cuore come da improvvisa saetta un certo sdegno generoso e magnanimo che in nulla sia figlio d’invidia, e che pure denoti assai più che emulazione; costui chiuda il libro, si faccia libero se tale ei non è, che egli ben merita d’esserlo; e scriva costui, e non imiti, ch’ei sarà grande e imitato. Questa nobile ira non può nascere, se non da un tacito e vivissimo sentimento delle proprie forze, che a quel tratto di sublime si sviluppa e sprigiona dalle più intime falde dell’animo: ella è questa la superba e divina febre dell’ingegno e del cuore, dalla quale sola può nascere il vero bello ed il grande. È questa quell’ira, che in ogni midollo d’Alessandro scorrea, nel solo udir profferire il nome di Achille: è questa quell’ira che bolliva in petto di Cesare all’udir di Alessandro; in quel di Temistocle, nel vedere i trofei di Milziade; in quello di Cicerone, nel legger Demostene. E così ogni grande, che è nato per fare, alla semplice vista di chi fatto ha, rabbrividire si sente.
Ad uomo di così alto animo non v’ha protezione al mondo, che nuocere non gli debba; perchè non gli può venir mai se non da un uomo assai minore di lui: nessun favore gli è necessario; perchè nessuno può accenderlo mai quanto il suo proprio impulso naturale: pochissimi ostacoli impedire lo possono, ove egli abbia superato i primi; perchè chi lo spinge è sempre più forte di chi lo ritrae.
Ai pochi simili potrà forse piacere e giovare questo libercoletto, quale ch’ei sia; imparandovi essi a conoscere, sentire, e apprezzare se stessi, ed altrui.