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Vittorio Alfieri
Del principe e delle lettere

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CAPITOLO OTTAVO

 

Come, e da chi, si possano coltivare le vere lettere nel principato.

 

Dalla ignoranza totale dei proprj diritti e facoltà, nasce indubitabilmente la durabile servitù di ogni popolo: ed è più o meno grave il servaggio, secondo che maggiore o minore persiste questa ignoranza. Dunque, la intera conoscenza dei proprj diritti e facoltà, cagionando nell’uomo l’effetto contrario alla ignoranza di essi, dee pur necessariamente divenire la cagione e la base di una durevole libertà.

Fra i popoli liberi, si ardisce pensare, dire, e scrivere ogni cosa, purchè non sia contra i savj costumi: fra i popoli servi, nessuna altra cosa si può forse impunemente offendere, fuorchè i savj costumi. Se le lettere altro non debbono essere, che un incentivo alla verità, e alla virtù, vien dunque dimostrato dai precedenti assiomi, che elle saranno o effetto di libertà stabilita, o prossima cagione di essa, ove però non tradiscano il loro sacro dovere. Le lettere dunque potendo nelle vere repubbliche interamente essere ciò ch’elle esser debbono, pare che quegli uomini tutti, come liberi (ove abbiano pure l’ingegno a ciò richiesto) possano tutti por mano alle lettere senza avvilirle, nè deviarle. Ma nei principati, dove le vere lettere debbono essere e farsi cagione di libertà e di virtù, pare che elle non abbiano ad essere maneggiate se non da coloro che son meno schiavi. Ora, i meno schiavi nel principato, sì per una certa indipendenza data dalle ricchezze, che per una certa meno pessima educazione che dovrebbero aver ricevuta, e così anche per una certa altezza di sensi che potrebbero aver bevuta col latte, e in fine per avere col viver fra l’armi mantenuto un non so che di fierezza, e una dose di coraggio (benchè pessimamente adoprato) non picciola; i meno schiavi nel principato, pare che dovrebbero essere quei nobili che non sono contaminati di corte. Ma, se tali non sono, se ne abbiano il danno. Io, nel parlare a loro, e nel supporti capaci di non maculare le lettere, perchè bisogno non hanno di macularle, vengo ad un tempo stesso a parlare a chiunque benchè umilmente nato si trova pure nelle stesse loro circostanze, e pensa come il dovrebbero i nobili. Posti dunque i nobili, ovvero gl’indipendenti ed agiati, tra il popolo e il principe, di cui sono stati pur troppo finora il maggior lustro e sostegno, possono costoro nei presenti tempi, pienamente conoscendo il debole ed il nulla del principe, rivelarlo e dimostrarlo al popolo: ed avendo essi imparato a conoscere e rispettare del popolo la forza ed i sacri diritti, rivelarli possono e insegnargli ad un tempo al principe ed al popolo stesso. Ma, non lo fanno costoro, perchè educati per lo più fra le corti al servire, nessuna vera luce di sane lettere introdurre si può fra i loro immensi pregiudizj ed errori, ancorchè pajano essi, o parer vogliano e colti e saputi. Che se tali pur fossero, per quanto schiavi sian nati del loro orgoglio, preferirebbero pur sempre di gran lunga di divenire in ben costituita repubblica ciò che era in Roma non guasta il senato e i patrizj, o ciò che dovrebbero essere in Inghilterra i pari del regno, all’essere i ciamberlani, cacciatori, capitani, ambasciatori, siniscalchi, maggiordomi, o che altro so io, di un assoluto loro padrone. Nulladimeno i nobili, o agiati indipendenti nel principato, tali ch’ei siano, hanno pur anche più assai luce che il popolo; perchè hanno l’ozio ed i mezzi per leggere, parlare, viaggiare, vedere, e quindi anche un pocolino pensare.

Io dunque vorrei, che quella picciolissima sana parte di essi, a cui fra le universali tenebre traluce un qualche barlume di verità, abbandonasse da prima ogni carica; perchè tutte sono infami quelle che un solo può togliere e dare. E massimamente vorrei, che abbandonasse il mestiere dell’armi; il quale, quanto è onorevole ed alto dove patria vi ha e si difende, altrettanto è vergognoso e risibile dove per uno, cioè contro a se stessi ed ai suoi, si viene a combattere. Così purificati costoro dal loro doppio originale peccato dell’esser nati e nobili, e non cittadini, vorrei che unicamente alle lettere si consecrassero; poichè esse sole prestano all’uomo un vero ed onorevole mezzo di fare col tempo rivivere quella patria, la quale poscia (esistente allora davvero) con vera gloria ed onore difendere allor si potrebbe da essi con l’armi loro, e col sangue. Un vero prode nel principato, ove non sia egli uno stupido, non può certamente dissimulare a se stesso, che assai più coraggio si richiede ad impugnare in un tal governo la penna, che non ad impugnarvi la spada. Perciò vorrei, che tra questa piccolissima parte di nobili letterati, quei pochissimi che si sentono veramente mossi da quel naturale impulso divino quà sopra descritto, si destinassero ad essere come i Decj della nascitura repubblica; e che, espatriandosi per cercar libertà dove ella si trova, ogni loro propria presente cosa sagrificassero alla futura lor patria. Riacquistato così l’intero esercizio del loro intelletto e della lor penna, vorrei che tanta e tal guerra, e sotto così diversi aspetti, movessero alla assoluta ingiusta e mortifera potestà, che della loro divina fiamma venissero essi poi, quando che fosse, ad incendere le intere nazioni.

La nobiltà del loro nascere grandissima forza e peso arrecherebbe ai loro argomenti. Avendo essi la possibilità di ottenere tutte le soprammentovate infamie di corte, lo averle spregiate, l’averne conosciuto e svelato il distributore, tutto questo fa sì, che la loro ira non potrebbe mai venir tacciata di bassa invidia: cagion sempre vile, indegna sempre di operare alti effetti, indegna sempre di annunziare la verità; e che moltissimo ognora la va guastando e minorando, ove ella l’annunzi.

Espatriati dunque e posti in sicuro questi pochissimi sommi e illibati, che dal loro spontaneo e nobile esiglio tuonano verità, una picciola repubblica di altri letterati pensanti, leggenti, e non iscriventi, potrà rimanersi secura infra gli stessi artigli del principato; poichè la virtù sua, e l’effetto che ne dee ridondare, non saranno se non negativi. Costoro, attese le loro ricchezze, il lustro del loro nome, ed i passati onori degli avi; costoro, per se stessi abbastanza risplendono nel principato, senza mendicare appoggio veruno nel principe: onde, ancorchè signore dell’opinione, il principe non li può far comparir vili, perchè non lo sono; nè li può opprimere, nè screditarli, perchè sono in bastante numero da dar ombra, e da contrappesare i vili veri, che sono quei nobili che servono a lui. Questa repubblichetta nel principato, da principio modesta e discreta, legge, ragiona, e pensa fra se, rimota affatto dal volgo profano: ogniqualvolta fra essa nasce e si scuopre un vero uomo grandissimo, ella lo invia fuori del chiuso a predicar da lontano senza riguardo nessuno la schietta e divina verità, per mezzo di convincenti, energici, ed eleganti scritti. Rimangono gli altri frattanto quasichè liberi nella loro natia servitù. Onorati essendovi dell’odio, o del finto disprezzo del principe, vengono essi necessariamente rispettati dai buoni e dal popolo; perchè si mostrano, e sono, umanissimi, e popolari, e d’intatto costume: alcun pericolo vanno però sempre correndo; ma di alto animo sono costoro, e gli alti esempj che nei sublimi libri ritrovano, accrescono e rettificano in loro ogni giorno quel nobile e giusto ardire, i di cui semi innati già in essi, (ma diretti male) a loro ed ai lor maggiori, per la falsa causa del principe, faceano già esporre, ogni giorno e gli averi e la vita. Ma, ancorchè eccessiva sia, e sfrenata, e terribile, ritorna pur sempre vana contr’essi la superba ira del principe; perchè costoro nulla affatto vogliono da lui: e costoro di lui nulla temono, perchè delle sue leggi, quai ch’elle siano, nessuna ne infrangono; legge espressa non vi potendo mai essere, che proibisca il giusto pensare, e che costringa gl’individui tutti a servire il sovrano. Nè alcun principe mai avrebbe la sfacciatezza di punire chi non disturba in nulla quell’universale letargo, che principescamente si appella, la pubblica quiete. Perseguitano essi bensì sordamente e chi legge e chi pensa; ma chi non ha l’imprudenza di parlare co’ satelliti suoi, securo quasi può starsi. Inibiscono per quanto possono i buoni libri, ma molti sempre ne passano, e tutti i buoni non sono inibiti. Tra questi, come ho già osservato, il solo Tacito, ben riletto, e pesato, e ragionatovi sopra fra pochi, e aggiuntovi lo stare lontani sempre dal principe (lontananza, che quanto ai lumi dei nobili viene ad essere il sommo dei libri;) il solo Tacito, dico, è più che bastante per se a ben educare una privata società di profondissimi e giustissimi pensatori. Una tal società a poco a poco propagandosi con irresistibile progresso, dev’essere a lungo andare la vera legittima e vittoriosa annullatrice d’ogni arbitraria potestà. Al continuo esempio di virtù e d’indipendenza che danno questi nobili letterati nel principato, si va aggiungendo di tempo in tempo il possente rinforzo dei pochi, ma buoni e caldi ed incalzanti libri, che gli scrittori esiliatisi dal principato v’inviano a far per loro e per tutti: e benchè corra il proverbio, che ogni cosa è oramai stata detta, potranno pure smentirlo quei tali scrittori, che sono da giusta e nobile ira spronati contro la servitù in cui nasceano, e che incoraggiti e protetti sono dalla libertà, in cui sapeano in tempo ricovrarsi. Costoro certamente, o diranno più del già detto, o in maniere nuove affatto il diranno: e con eleganza scriveranno costoro, perchè la eleganza aveano potuta imparare e gustare, come non proibita cosa, nella loro pristina servitù; ma con forza libertà e verità scriveranno pur anche, perchè di schiavi che nati erano, avuto aveano il coraggio di farsi uomini cittadini; e in somma, sublimi scrittori saranno, perchè dal solo sublime e natural loro impulso sforzati erano a divenire scrittori.

Quindi allora il veramente epico poeta, che in sublimi versi una impresa veramente sublime piglierà a descrivere, sceglierà certamente piuttosto di cantare la liberazione di Roma da Bruto, che quella di Gerusalemme da Goffredo. Con questa scelta, verrebbe egli a vendicare da prima l’onore dell’arte sua; perchè dei sommi epici poeti, nessuno finora ha tolto argomento da popoli liberi, se non in parte Omero, a chi considera quei Greci come molti popoli spontaneamente riuniti. Ma, quanta maggior grandezza ne ridonderebbe ad un tema, di cui, in vece di Agamennone re, fosse anima e capo uno Scipion cittadino? sarebbe, ad egual eccellenza, di tanto superiore un tale poema, di quanto ad ogni altro popolo fu superiore il romano. Ma Scipione, cantato da Ennio con ruvido carme di lingua ancor non perfetta, è perito; Augusto dalla divina tromba di Virgilio ottien quella vita, che Scipione solo meritava. Si osservi tuttavia nell’Eneide, che Augusto non è, benchè paghi, l’eroe di quel poema, nè lo poteva pur essere: Scipione all’incontro, per la semplice forza della sua virtù, potea e può veramente, accendere di se un epico poeta, e ampiamente rimunerarlo colla semplice fama d’amendue. Che la parola EPICO, parmi che debba importare alti eroi, alta impresa, alti effetti, altamente pensati e descritti; e qualunque di queste altezze vi manchi, io credo che l’epico cessi. Quindi il moderno epico e libero poeta, invece d’intrudere nel suo tema episodiche lodi di Augusti, o di altri principi meno possenti ancora e più vili, vi inserirà le lodi dei veri eroi, degli illustri cittadini passati; sempre o poco o nulla dei viventi parlando, per rispettare ad un tempo e l’altrui modestia e la propria. Un sì fatto poema riuscirà di assai più giovamento che nessunissima storia, appunto perchè dilettando assai più, non insegnerà niente meno: e gli uomini preferiscono sempre quell’utile che più vien misto al diletto.

Così gli scrittori che la tragedia maneggiano, potranno allora alla antica sua maestà ritornare il coturno: potranno di ben altre passioni discorrere, e ben altre destarne, e con ben altre infiammare, che col solo ed anche snervatello amoruccio.

Così la commedia imprenderà allora a combattere e porre nel dovuto ridicolo i veri vizj, e più i maggiormente dannosi. Perciò si verranno a trarre i soggetti di commedia non meno dalle stolte e superbe aule dei re, e dei loro scimmiotti, i potenti, che dalle case dei semplici ed oscuri privati. Non saranno queste tali tragedie e commedie recitate nel principato: che importa? introdotte pure vi saranno elle di furto, e tanto più lette, quanto più impedite; e approvate, e per così dire affigliate saranno dalla repubblichetta dei nobili letterati, finchè poi venga quel giorno, che in pieno teatro recitarsi potranno. E verrà quel tal giorno, perchè tutti i giorni già stati, ritornano. E allora, tanta più gloria ne riuscirà a quegli autori, quanta più n’è dovuta a chi ha saputo disprezzare la falsa glorietta del subito, ed anteposto ha di scrivere per uomini veri, ancorchè da nascere fossero, allo scrivere, degradando l’arte e se stesso, per quei mezz’uomini fra cui nato era.

Così le satire, non a mordere i privati vizj e laidezze, e molto meno a nominarne gli attori; (niun uomo vizioso meritando mai d’essere nominato da sublime scrittore) ma le satire il loro veleno tutto, ed i loro fulmini rivolgeranno unicamente a smascherare, a trafiggere, atterrare, e distruggere il pubblico vizio, da cui, come da impuro fonte, i privati tutti derivano.

Così gli oratori non intenderanno a laudar la potenza, ma la sola virtù; non al persuadere i principi a giustizia e a clemenza, ma al persuadere i popoli a cercare con più stabilità nelle sole leggi la prima, e a non abbisognar mai di quest’ultima: non al convincere e dimostrare agli uomini con ampollosità di parole, e con sottigliezza di tortuosi argomenti, che la virtù, nell’adattarsi ai tempi consiste, ma al dimostrare che ella veramente consiste nel riadattare i tempi a virtù.

Così le storie, pochissime allora saranno, e di quelle sole nazioni che di storia sian degne, e che possano servir di modello alle nostre, e d’incitamento al meritare un giorno storia elle stesse. Onde, non di vane battaglie, non di leggende di nomi di principi (nè degni pure di essere nominati) non di raggiretti di corte, non di puerili insipidi e scostumati aneddoti si intesseranno le storie; ma le vittoriose pugne di pochi liberi uomini contro innumerabili eserciti di schiavi; le generose ed utili contese fra la plebe ed i nobili; le atterrate tirannidi; i gastigati tiranni; gli alti esempj di ardire, d’amor patrio, di spregio di ricchezze, di severità nei politici costumi; le focose concioni di magistrati a popoli, e di liberi capitani a liberi soldati: fian queste allora le storie; e storico veramente sarà colui che le scrive.

Così la lirica poesia, dalle vicende di amore risalirà anche spesso a cantare altamente quelle della virtù e del coraggio. Si udiranno allora degli inni di tal forza, e una così divina fiamma spiranti, che soli basteranno a trasfigurare gli schiavi in cittadini, ed a spingergli in battaglia per crearsi una patria, e creata, difenderla. Ed odi, e canzoni si udranno di così alto dettato, che, al rendere eterni i nomi dei guerrieri estinti per la patria, varranno più assai che le statue e i bronzi: ed a premiare la vera virtù dei rimanenti liberatori della patria, le eccellenti ed eterne poesie di ben altra possanza saranno, che i fragili infamanti onori e le viziose ricchezze, con cui possono i principi pagare soltanto gli oppressori di essa.

Così finalmente, i filosofi di qualunque genere e setta, liberamente scrivendo e senza nessuno timido velo la verità, o quello che crederanno esser tale, potranno, anche ingannandosi, giovar nondimeno moltissimo: che nessuna verità mai, nè morale nè fisica, non è nata, nè può nascere e dimostrarsi, se ella dal grembo di cento errori non sorge. Ma niuno errore è mai stato, nè esser può più fatale a una società d’uomini, che quello di non cercar sempre la verità, di porre ostacoli a chi ne va in traccia, e di premiare chi la nasconde o falsifica.

Ecco dunque, quali esser potranno le lettere in questi moderni tempi, ogniqualvolta maneggiate elle vengano da liberi ingegni in terra di libertà rifugiati; e ogniqualvolta coltivate, accolte, e tacitamente propagate elle vengano da ingegni liberi, ancorchè costretti dal peso del principato. Il sublime fine, che dalle lettere così maneggiate ed accolte ne ridonderebbe col tempo, facil cosa è l’antivederlo: ne risulterebbe senza dubbio, ed in breve, la intera conoscenza e la severa pratica delle vere politiche virtù: il che chiaramente vuoi dir, LIBERTÀ.

 

 

 




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