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Vittorio Alfieri Del principe e delle lettere IntraText CT - Lettura del testo |
CAPITOLO DUODECIMO.
Ricapitolazione dei tre libri, e conclusione dell’opera.
Ma, giunto son io a quel segno oramai, oltre cui questo presente mio tema non comporta il trascorrere. Onde, tutti gl’immensi effetti, che dalle qui proposte lettere e dai loro scrittori e leggitori deriverebbero, immaginare li lascio dalla fervida fantasia, e dal dritto umano desiderio di chi caldamente avrà letto questo mio libricciuolo; il quale da nessun’altra dottrina nè impulso nasceva, fuorchè dall’amor del bello, dell’utile, e del retto.
Riepilogando intanto in brevissime parole il contenuto di questi tre libri, conchiudo: Che le sublimi lettere (che altro non possono essere fuorchè la verità sotto mille diverse forme rappresentata) in tutto si assomigliano nelle loro vicende ai veri virtuosi costumi, di cui nel principato si parla. Questi ogni giorno si vedono con risibili leggi venir comandati dal principe, mentre che egli, colla influenza del principato, tacitamente sempre li corrompe e distrugge. Così, col protegger le lettere, risibilmente ed invano comanda il principe agli scrittori di farsi sublimi; perchè la mercede che da esso ritraggono, necessariamente da ogni vera sublimità di pensieri gli svia; e quindi le vere lettere invilite rimangono, o poste in silenzio. Che se elle schiettamente parlare potessero ed ardissero, elle sì, più che il principe, riprocreare saprebbero col tempo quei virtuosi costumi, che il principe comanda e non vuole, nè può voler mai, poichè da essi soli dee nascere la intera cessazione del principato.
Il moderno principe dunque, il quale proteggendo le lettere le impedisce, fa l’arte sua, e la propria debolezza appieno conosce. Il letterato che proteggere si lascia, o egli propria forza non ha, ed è nato allora per essere letterato di principe; o l’ha, e non l’adopera, e traditor del vero, dell’arte, e di se, tanto più merita allora vitupéro, quanto era maggiore la gloria che egli acquistata sarebbesi sentendo e adoprando la sua propria forza.
Dovendo, in somma, lo scopo delle lettere essere il diletto bensì, ma non mai scompagnato dall’utile; non vi potendo esser utile, dove non è verità; e ogni moral verità essendo per se stessa nemica d’ogni potere illegittimo; conseguenza chiarissima e semplicissima da tutto ciò ne risulta: Che le vere lettere fiorire non possono se non se all’aura di libertà. La pubblica libertà, là dove ella è già collocata e stabilita su la base di savie leggi, proteggerle dovrebbe, e il potrebbe ella sola senza farle in nulla scapitare: ma forse, un libero governo non se ne sentendo un bisogno così incalzante, quanto ne l’hanno (senza punto sentirselo) i popoli servi, disgraziatamente la pubblica libertà non protegge le lettere, o debolissimamente le protegge. La privata libertà politica, e civile, e domestica, dell’individuo scrittore non bisognoso d’altro che di gloria, vien dunque veramente ad essere la prima, la sola, la incalzante e caldissima protettrice delle vere lettere: ed essa può sola procreare sublimi scrittori, che degni ad un tempo si facciano del sublime nome di cittadini.
FINE
Ignoscent, si quid peccavero stultus, amici.