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Vittorio Alfieri Del principe e delle lettere IntraText CT - Lettura del testo |
CAPITOLO SETTIMO.
Che i letterati perseguitati riescono d’infamia e danno al principe.
Che dirò poi del principe, che, non pago di lasciargli alla necessità, li perseguita? Egli si apparecchia molta infamia, e molto più danno. Se le cose deboli per se stesse (o almeno di una forza non palese a tutti, come lenta e lontana), possono pure mai nuocere al potente, l’unico mezzo affinch’elle nuocano, si è lo inimicarle, mostrando di temerle. Gli uomini per natura inclinano dalla parte del debole; e gli oltraggi fatti dal principe all’universale sono già tanti, che a farsi egli biasimare e abborrire, ci vuole assai meno che il perseguitar letterati. Ma, dirà il principe: «Mi biasimino in voce costoro; poco, e sommessamente il faranno: ma, se io non gli opprimessi, o cacciassi, o affliggessi, mi biasimerebbero in iscritto, il che sarebbe assai peggio». E molto bene ragionerebbe costui, se alcun cantuccio non rimanesse sul globo, donde il letterato potesse poi, ricovratosi in sicurtà, scagliare contr’esso di ogni sorta scritti, e ridersi dei suoi fulmini. Ma, poichè pure un tale asilo vi rimane in Europa, quale altro guadagno farà egli il principe nel costringere il letterato a rifugiarvisi, fuorchè la vergogna di manifestare in quale brevissimo cerchio il suo potere si confini?
Visto dunque lo stato presente delle cose, politica sana e savia nel diciottesimo secolo, e adattabile ad ogni principe e grande, e piccolo, e mediocre, sarà il proteggere, il pascere, e premiando avvilire gli scrittori; e togliere così il valore e la fama alle lettere, coll’infamarne preventivamente i prezzolati artefici.